Ancor prima della parola, il cibo è spesso strumento di mediazione fra culture diverse, è terreno di confronto e di sperimentazione. Ogni cucina è infatti il risultato di invenzioni, incroci e contaminazioni. Nessuna ricetta è immutabile nel tempo. Se poi la parola si accompagna al cibo diventa un mezzo potentissimo per aprire un dialogo tra culture differenti.
E’ quanto hanno vissuto gli allievi delle classi del Cpia (centro per l’istruzione adulta) metropolitano nelle sedi di San Giovanni in Persiceto, San Pietro in Casale e Minerbio attraverso il laboratorio di poesia e narrativa realizzato dall’associazione Eks&Tra.
Il Corso rientra all’interno del progetto Dalla lingua madre all’italiano: letture ad alta voce, fumetti, canti e azioni teatrali, che è risultato vincitore per la sezione BIBLIOTECHE della VI edizione del concorso Io amo i beni culturali indetto dall’Istituto Beni artistici e culturali della Emilia-Romagna.
Il progetto è stato avviato dal CPIA Metropolitano in collaborazione con un’ampia rete: Biblioteca Sala Borsa e C.P.I.A. Metropolitano di Bologna (sede Centrale Viale Vicini 19 Bologna; sede associata IC10 Viale Aldo Moro n31, Bologna; sede associata IC 1 Via de Carolis 23, Bologna; sede associata Casa Circondariale di Bologna; sede associata Istituto Penale Minorile “Siciliani”; sede associata San Giovanni in Persiceto; sede associata San Pietro in Casale), Scuola Popolare di musica Ivan Illich, Compagnia Teatro dell’Argine ITC TEATRO, Associazione Interculturale Eks&Tra.
Tajine, montone Biryani, thiebou jeun, herira, couscous, coco, qabili pulao, plov, ingera, tortellini sono alcune delle parole che hanno richiamato sapori e profumi della terra d’origine: Marocco, Pakistan, Tunisia, Afghanistan, Ucraina, Senegal, Italia, Etiopia, Togo… Ma quei profumi e sapori sono immancabilmente connessi con ricordi a volte dolci, a volte struggenti, delle proprie famiglie lontane nello spazio e spesso anche nel tempo.
Il poeta iracheno di Babilonia, Gassid Mohammed, laureato con dottorato in Italianistica e professore di arabo all’università di Bologna, è il tutor che ha guidato gli studenti in questo percorso di recupero della propria memoria personale attraverso i sapori dei propri cibi natali. Ha scandagliato sentimenti, speranze, nostalgie, gioie fissati in racconti che descrivono le giornate trascorse nella propria terra, messe a confronto con quelle vissute oggi in Italia. Questa particolare sperimentazione è stata realizzata grazie alla preziosa collaborazione delle insegnanti Magda Burani, Giovanna Alpagotti e Antonella Arduini.
“Il cibo – scrive Fadma – significa la vita e significa anche l’amore della madre quando prepara il cibo ed in particolare il profumo di al herira, famoso cibo nel mio paese, il Marocco, che si fa come la zuppa”. Oppure Fethia dalla Tunisia che ha notato come il cibo della propria tradizione, cucinato però in Italia, non ha lo stesso sapore perché “la verità è che il gusto di quelle frittelle lo dava l’anima di mia madre perché ce le preparava con amore”.
Struggente è il ricordo di Yassin, nei confronti di un cibo che racchiude il sentimento di nostalgia dolorosa per la mancanza della famiglia e richiama inesorabilmente alla propria attuale solitudine. “Quando ero piccolo mangiavo sempre msemen, un pane morbido e buono. Qui a San Pietro c’è un negozio di un signore marocchino che vende mseman e lo compero da lui, perchè io non so prepararlo. In genere ne compro tre. Quando li mangio mi ricordo quando mi svegliavo alle 8 e trovavo la colazione pronta con mseman e il tè. Adesso mi sveglio alle 8 vado a scuola senza mangiare. Penso a mia madre in Marocco quando mi preparava mseman. Io sono qui senza la mia famiglia”.
Il cibo diventa vero e proprio strumento di riappropriazione identitaria nel momento in cui questa venga a mancare, è il ponte verso la propria terra, i propri affetti, i propri luoghi. Il cibo mantiene in vita il legame con la cultura di origine, in modo vivo perché diretto, immediato, fisico; si crea un punto di contatto concreto con ciò che in realtà è lontano mesi e chilometri. L’alimentazione richiama la terra di origine perché questa discende in linea diretta dalla stessa terra che l’ha originata. Mangiare diventa così “incorporare un territorio”.
Soprattutto significa ritornare ad una dimensione degli affetti che non ha barriere, muri, ostilità. Il cibo unifica i popoli nell’amore verso i propri cari, che ovunque ha la medesima intensità e dimostra al mondo che una fratellanza è possibile, come scrive l’italiano Carmelo di 16 anni.
“Mi chiedo se oggi un ragazzo della mia età può provare o ricordare anche solo un po’ la stessa felicità in un piatto di minestra preparato da una nonna come lei e penso che nel mangiarla mi nutrivo non solo di cibo, ma anche d’amore, il suo!”.
Condividi: