Campi di bottiglia (Marco Inì, Federica F. Imperato, Giulia Mondello, Diana Vid)

Era mattina, anzi: non ancora. Tra gli oleandri e i fichi d’india, era l’alba del giorno più atteso dell’anno per Donnatrafugata, culla di poco più di milleduecento persone. L’uomo che ogni giorno apriva il sipario di questo teatro a cielo aperto si guardava intorno  e barcollava, lontano dai muri bianchi delle case, dagli scalini che portavano al faro, lontano dal profumo dei cornetti appena sfornati, dalle sue scarpe sporche, dalla bottiglia vuota. Camicia di lino, ricci scuri e spessi, nelle pupille fotogrammi di un destino noto, come il fondo di un bicchiere. Vivo di vino, vino che gli teneva compagnia ormai da anni, Guay camminava avvolto nell’ebbrezza. Intorno a lui le luminarie che celebravano la Santa – santissima – Philoxenia, che fu donna dell’accoglienza a Donnatrafugata. Di solito i pescatori continuavano a raccogliere le reti mentre lui stramazzava ad ogni passo, ma la mattina di quel 16 luglio non sembrava esserci anima viva sul lungomare Frine, davanti al porticciolo.

Barcollava Guay mentre i suoi occhi ancora faticavano a mettere a fuoco i contorni delle case e dei marciapiedi e delle finestre chiuse. Barcollava anche poco prima, mentre per sbaglio imboccava non la strada principale, ma quella che costeggiava i campi di pomodori e melanzane – deserti.

Tra cadute ed eroiche risalite, Guay arrivava finalmente alla piazzetta della chiesa di santa Philoxenia, in una Donnatrafugata vestita a festa e insolitamente sola. Betiv, il suo compagno di bevute, abitava di fianco alla chiesa e di solito lo ritrovava disteso su una panchina, con la bava calda colante all’angolo della bocca, come appena partorito dal grembo materno.

Guay si guardava intorno: il panificio era ancora chiuso, il bar di Xiang aveva le saracinesche abbassate, così come l’edicola di Said; per non parlare del negozio della famiglia di Kepaf: di solito a quell’ora sui loro banconi erano già esposti meloni, angurie, lattughe, ciliegie. Di Betiv nessuna traccia.

Ma cosa sono quei carri? Non posso essere rimasto in giro fino a sera: il sole sale, deve essere mattina. La festa è la sera, cosa portano?

TrumTrumtrumtttuuuuuuuuum.

Uno dei carri rischiò d’investirlo. Ora Guay passava davanti al mercato, ora di nuovo davanti al panettiere – eppure non sentiva odori, non sentiva rumori e, pur ubriaco, non era né nauseato né rintronato. No, quella mattina non poteva nausearsi né rintronarsi, per il semplice motivo che non c’era nulla a rintronarlo o nausearlo.

– Maledetto Betiv, ma dove sei?

Le reti dei pescatori erano aperte sulla spiaggia, nessuno aveva scaricato le cassette di susine e nessuno aveva infornato il pane: lavori da negri, a Donnatrafugata. L’unico alimentari rimasto l’avevano venduto a un negro, Malik. Il figlio del defunto Rino, a cui il negozio era appartenuto, aveva studiato per non seguire le orme del padre. Del padre di Malik, invece, nessuno sapeva nulla, nessuno voleva sapere nulla.

D’un tratto un urlo, dritto al cervello di Guay.

– Lasciatemi stare! Chi siete? Perché fate così? Aiuto! Qualcuno mi aiuti! Scendete da quel carro voi, cosa fate lì impalati?

Proveniva dalle stradine sul retro della chiesa. Davanti alla sagrestia due uomini, in divisa giallo-verde, trascinavano fuori Finferlo che si dimenava tra pianti e sussulti, mentre  un gruppo di dieci persone, mani e piedi legati, assisteva con volto chino e sguardo basso. Nessuno si sarebbe mosso e non per disinteresse: ognuno di loro, a turno, si era ritrovato nella stessa situazione di Finferlo. Unico copione: trascinati fuori di casa, urlavano, chiedevano aiuto. Nessuno sarebbe arrivato.

– Ehi, ma cosa fate? Lasciatemi andare!

– Finferlo! Finferlo, aspetta!

Urlava Guay mentre Finferlo veniva strattonato e scosso dai due uomini.

– Finferlo! Ma cosa succede? Finferlo!

I carri continuavano ad avanzare lungo le ripide stradine che salivano verso le colline, per secoli mura sicure di Donnatrafugata. I carri continuavano ad avanzare e Finferlo continuava a urlare mentre Guay continuava a gridare il suo nome, inveendo contro i due rapitori.

Correva verso di loro con le vene del collo gonfie. Cadeva. Colpito alla testa da una bottiglia.

Mille frammenti nell’aria del mattino sparsi come coriandoli tra le basole scintillanti.

Erano le dieci meno cinque, gli occhi di Guay si chiudevano.

Una stanza scura dove la muffa era la presenza più amichevole. Buttati lì senza spiegazioni, senza sapere che colpa gli venisse attribuita. Nessuno gli faceva domande, come nessuno gliene aveva fatte quando, pochi anni prima, i loro volti avevano cambiato i lineamenti di Donnatrafugata. Era così che andavano le cose: succedevano. E ora l’ex mattatoio conteneva disperazioni poliglotte, mentre il senso di sbigottimento prendeva il posto dell’ossigeno.

Apriva gli occhi Finferlo e li fissava in quelli scuri di Kepaf, che a loro volta con terrore penetravano i suoi. Nel buio poteva riconoscere anche Xiang, il suo corpo già esile reso livido dalle percosse si rigirava sul pavimento cementato.

Gonfio per i colpi ricevuti, Finferlo si palpava il braccio, spaesato.

– Perchè siamo qui? Che ore sono?

Lì dentro la luce filtrava solo dalle crepe del tetto. Il caldo era asfissiante, l’odore di sudore saturava le narici e gemiti assordanti si annidavano tra i loro corpi ammassati.

L’inferno di cui parlava Don Fino prendeva forma davanti ai suoi occhi. Finferlo sapeva di aver rubato dalla scatola delle offerte per Santa Philoxenia.

È per questo che sono qui? Punito per quattro spiccioli?

Sulla faccia la solita smorfia idiota, che tutti conoscevano. Non era un segreto che il poco che aveva lo sperperasse giocando d’azzardo, scommettendo, perdendo di continuo e derubando Don Fino. Nella stanza risuonava l’urlo della moglie di Kepaf, terrorizzata da quell’oscurità che le ricordava la nave che l’aveva portata lì, il buio della stiva.

– Perché morire come bestie? Dicevano altre voci.

– Usciamo di qui!

Kapaf si alzava e iniziava a correre contro le guardie, gli altri lo seguivano e Finferlo stava lì, fermo, a guardare. Xiang colpiva una guardia, mentre sua madre scattava per sostenere il suo ragazzo, gridando e piangendo.

L’inferno si faceva carne in quello scontro di corpi. Finferlo rimaneva lì a fissare quella madre e quel figlio e pensava a Don Fino, che da orfano lo aveva cresciuto. Lo aiutava in tutte le faccende della parrocchia, negli anni aveva imparato a riparare le tegole del tetto che ogni inverno venivano spostate dai venti, aveva imparato i tempi delle funzioni liturgiche: quando porgere la coppa del vino e quando spargere l’incenso. Aveva imparato che la Domenica delle Palme si leggeva di Gesù che entrava a Gerusalemme, che durante la processione di Santa Philoxenia si leggevano passi dal Deutoronomio. “Quando vendemmierai la tua vigna, non ripasserai a coglierne i grappoli rimasti; saranno per lo straniero, per l’orfano e per la vedova”, gli diceva sempre Don Fino. Finferlo non aveva mai conosciuto la madre, nessuno gli aveva mai parlato delle sue origini. Cosa aveva in comune con Xiang, con Said, con Kepaf? Le guardie sedavano la rissa, tutti tornavano ad accasciarsi, di nuovi legati alle caviglie. Finferlo continuava a pensare, e mentre pensava chiudeva gli occhi.

Privo di sensi, Guay apriva gli occhi alle parole di Betiv. L’amico lo cercava da ore: di solito erano sempre insieme nello stesso posto e nello stesso stato di alterazione. Vicinissimi ogni giorno, una distanza abissale li separava nel modo in cui affrontavano la vita e il mondo, nel modo di stare al mondo.

Guay, come estraneo alla superficie delle cose, non ne sapeva riconoscere la cattiveria, non gli riusciva di mettere sui piatti della bilancia le verità e le menzogne. Non è che odiasse le persone: esercitava il diritto di non porre loro attenzione. Ingenuo, vulnerabile e pericolante.

Betiv guardava la vita in faccia senza sapere neppure a chi e a cosa stesse rivolgendo lo sguardo, dando per scontati i convenevoli, saltando ingressi e anticamere. Le conseguenze del non leggere le istruzioni lo portavano sempre a cacciarsi nei guai: era finito in un traffico di gioco d’azzardo, e con estrema consapevolezza andava sempre più a fondo.

Dondolando ancora tra sonno e stordimento, Guay barcollava e si guardava attorno, come sempre. Era sopravvissuto bevendo, senza indugiare più di tanto, non curandosi di tutte le cose che stavano fuori dall’alcol. Infischiandosene della terra che sarebbe marcita, della frutta e della verdura che non si sarebbero mai più viste, neanche per un giorno. E anche ora, che aveva visto quelle persone trascinate via, non si curava  del perché, di quale fosse la loro condizione.

I pensieri di Betiv si inseguivano rapidi, come in una battuta di caccia, alla ricerca di una soluzione, concitato e rivolto alle cose concrete da fare, chiedeva aiuto a Guay per cercare Finferlo.

– Guay! Ma ci sei? Oh ripigliati! … Guay, tirati su e guardami bene! Dobbiamo trovare quel farabutto di Finferlo.

– fi…Finferlo? Ah dici, Finferlo.

– Svegliati Guay, dobbiamo risolvere questa cosa immediatamente. Dove diavolo è? Aiutami a cercarlo, quello mi deve dei soldi! Mi deve ridare tutto, fino all’ultimo centesimo.

– L’ho visto Finferlo, è stato sequestrato. Hanno preso lui e Kepaf, Xiang, Said: tutti stranieri. Non so dove li hanno portati, i carri salivano verso il vecchio mattatoio, vicino alla pineta.

– Maledetto coglione! Dobbiamo trovarlo, devo riavere subito quei soldi.

– Ma come? Ti ho detto che è stato portato via.

– Allora li andremo a chiedere a quel Don, come si chiama?

– Don Fino? Si, potremmo, dovremmo: sai anche tu cosa si dice in giro…

– L’idiota è suo figlio.

– Così dicono.

Assecondando la loro attitudine a buttarsi a muso duro addosso alle cose, a rincorrerle se necessario, senza perdere ulteriore tempo i due si dirigevano verso la chiesa.

Chissà perché sono sempre così pesanti – pensava Guay mentre il portone di Santa Philoxenia sbatteva alle sue spalle. Davanti a lui Betiv: i suoi piedi pestavano i mosaici del pavimento, mentre quelli di Guay spazzavano via i piccoli e delicati tasselli.

Sudando e tremando, Guay si aggirava con gambe frolle tra le volte a sesto acuto e i rosoni con fili d’oro e i putti marmorei e i drappi colorati e non poteva che pensare che erano più di quattordici ore che le sue labbra non incontravano un collo di bottiglia. Tra persone scomparse, Finferlo rapito, pesce non pescato e pomodori marci a Guay solo una cosa rimaneva nella testa, oltre al rimbombare dei loro stessi passi, ché nelle chiese ogni rumore è un’ eco e nella testa di un bevitore l’eco non trova materia che l’assorba. Come rapaci con becchi monchi davano la caccia a Don Fino, uomo santissimo, avanzando fastidiosi nel silenzio della chiesa.

– Sbrigati, forza, prima che arrivino quei 98 chili di grane con la perpetua.

Diceva Betiv a Guay, mentre arrivavano sulla soglia della sagrestia. Lì, solo, Don Fino. Era il momento perfetto e in quel 16 luglio ogni cosa sembrava filare più liscia che in un giorno qualsiasi: la perpetua non era arrivata, la chiesa era deserta, Don Fino non riceveva nessuno e nemmeno pregava. Era lì in piedi: occhi inchiodati nel muro disadorno. Avrebbe potuto dare l’aria di essere completamente assente, ma non lo era:

– Finalmente qualcuno che si presenti qui, oggi.

– Amen parroco!

Latrava Betiv esplodendo in una risata sguaiata.

– E lo sai perché siamo qui, parroco?

– Immagino vogliat…

– Non immaginare, parroco. Qua non c’è nessuno, siamo noi, e non c’è nemmeno quel tuo ragazzo scemo, quel Finferlo.

– Finf…

– No, no, parroco, non sprecare parole. Sappiamo tutto, sappiamo che è stato rapito, sappiamo che l’hanno preso degli uomini con la divisa giallo-verde che hanno preso pure gli altri, quello Xiang e quel Said, sappiamo tutto.

– Cosa sapete? Cosa pensate di saper..?

– Guay, come preso da un moto di fiducia, sputava parole.

– Don Fino dai che lo sappiamo che hai il ragazzo a cuore, tutto ti fa qui. Canta pure in Chiesa: ti ringrazio mio signoreeee…

– Parroco, non perdiamo tempo. Siamo qui perché questo ragazzo dei canti di chiesa, questo Finferlo fa sempre cose stupide. Ma ne ha fatta una troppo stupida, e noi non gliela possiamo perdonare, vero Guay?

Era inebetito Guay: continuava a ridere canticchiando motivetti mentre prendeva a solleticare l’orecchio di Don Fino con le fasce per l’abito telare in viscosa rossa.

– Ma come ti permetti, smett…!

– Smettila tu, parroco, ascoltami. Questo tuo Finferlo mi deve dei soldi e ora lui è sparito e io questi soldi li voglio e li voglio, ora, da te.

– Con che coraggio, con che coraggio voi due venite qui, in un luogo sacro a estorcere del de…

In un balzo Betiv era saltato al muso di Don Fino:

– Sappiamo che il ragazzo è tuo figlio.

– Voi, voi…

– Sappiamo che è tuo figlio e sappiamo dov’è: dacci sti soldi.

– Aaal… allora… allora portatemi da lui. Portatemi da Finferlo e avrete i vostri soldi.

Passi rompevano la voce già spezzata di Don Fino, e catturavano l’attenzione di Betiv:

– Forza, non abbiamo tempo da perdere.

Entravano nelle sale a ridosso della sagrestia per uscire dal retro della chiesa.

Erano le diciannove e ventisette a Donnatrafugata, e nell’aria non rimaneva che silenzio.

La pineta non aveva segreti per Betiv, aveva imparato come orientarsi per sfuggire alle retate della polizia.

Le guardie giallo-verdi stavano per darsi il cambio, il cancello automatico si apriva lento, quando il rumore di una bottiglia di vetro in frantumi giungeva improvvisa dal ventre nero del bosco, risvegliando i cani.

– Che cazzo è stato? Avete sentito?

Betiv, Guay e Don Fino si nascondevano, guardinghi si spostavano sul retro del capannone, tentando di raggiungere l’entrata del parcheggio senza farsi seguire. I corvi volavano via dagli alberi, gli schiamazzi si aggiungevano al rimbombo.

– Chi c’è là dietro? Urlavano le guardie.

Di nuovo silenzio.

Un mugolio attirava l’attenzione dei secondini: diventava sempre più stridulo, si trasformava in pianto. Ad un tratto un urlo:

– Un fuggitivo, presto: rincorretelo!

Le guardie scattavano verso il buio del bosco mentre il cancello automatico si chiudeva. Aveva funzionato: Don Fino, Guay e Betiv erano entrati nel parcheggio. Di fronte a loro,   l’area un tempo utilizzata per lo scarico merci, a tratti illuminata da un neon: un’arma letale per i moscerini e le zanzare che rimanevano impigliate tra l’umidità mista al grasso del tubo, per poi finire in pasto ai gechi.

Guay, Betiv e Don Fino dovevano soppesare ogni minima mossa, per evitare di fare la fine di quegli insetti, e ora una guardia stava uscendo dalla porta: si appoggiava al muro, tirando una profonda boccata di fumo. Espirava: era il momento.

Betiv scagliava un sasso appuntito verso i cani in gabbia: iniziavano ad abbaiare e si gettavano sulle grate in ferro.

– Chi c’è?

Urlava il secondino, ritornando in sé ed impugnando il fucile. Un secondo tonfo. I cani si inferocivano e la guardia correva verso le gabbie e i tre correvano furtivi verso la porta.

Erano entrati.

L’oscurità avvolgeva il capannone. S’intravedeva qualche occhio. Gli stranieri erano accovacciati sul pavimento, tentavano di trovare rimedio al caldo asfissiante della serra. Alcuni dormivano, altri singhiozzavano.

– Trova quel bastardino del cazzo.

Sussurrava Betiv al parroco.

– Finferlo, Finferlo? Dove sei? Sono io, Don Fino.

Betiv e Guay puntavano due piccole torce contro le pupille dilatate dei prigionieri che si limitavano a emettere versi di fastidio.

Passavano i minuti, cercavano di identificare ogni sguardo ma i detenuti erano troppi e loro dovevano sbrigarsi.

Se ci beccano siamo finiti – pensava  Guay. Ad un tratto, da un angolo in fondo al deposito, una voce bisbigliava

– Sono qui sotto!

I tre si precipitavano in direzione del suono. Don Fino si gettava su Finferlo, lo stringeva forte a sé, iniziava a piangere in silenzio, i singhiozzi bloccati in gola.

– Basta con ste smancerie!

Finferlo deglutiva, sgranava gli occhi, si limitava ad acconsentire in silenzio.

Guay lo strattonava per un braccio: iniziava la fuga. Non esistevano uomini, donne, anziani, bambini: i quattro fuggitivi calpestavano Xiang accovacciato a terra, tiravano un calcio a Said, inciampavano e si rialzavano sulle spalle di Kepaf. L’abbandono a quella condizione lasciava il posto ad un grido collettivo

– Aide, aide-nous s’il te plaît.

– Fadlan naga caawi.

– Ayuda por favor, ayúdanos.

– Kunin mo kami mula rito.

Una babele di lingue diverse tentava di agguantare l’ultima speranza di salvezza, di uscita da quell’inferno.

– Che succede qui dentro, bestie?

– Voi! Dove scappate?

Erano entrate le guardie e avevano iniziato a manganellare i pochi prigionieri che si opponevano. Le guardie giallo-verdi sparavano sulla folla.

Guay e Betiv correvano davanti, a pochi metri di distanza Finferlo e Don Fino. Arrancava il prete, erano quasi sul ciglio della porta quando una guardia piombava davanti a loro.

– Dove scappate?

Finferlo sentiva la lama di un coltello squarciargli la carne. Cadeva a terra in una pozza di sangue.

Don Fino assisteva immobile, urlava, si voltava, mentre una manganellata lo colpiva alla mandibola.

Era crollato al suolo, svenuto.

Guay e Betiv correvano, spingevano, avevano quasi raggiunto l’uscita, Guay era fuori. Girandosi, aveva accennato sul volto un’espressione trionfante, ma proprio allora aveva visto Betiv stramazzare a terra, forato da tre colpi di pistola.

Un quarto colpo s’infrangeva sulla porta arrugginita.

Guay correva via.

Erano le cinque e quarantasei: albeggiava su Donnatrafugata. La rugiada aveva lasciato il posto al sangue.

La cera dei candeloni che avevano accompagnato la processione di Santa Philoxenia si raggrumava sulle basole, le strade colme di rifiuti: nessuno le aveva ripulite.

Camminava lentamente Guay, seguiva il lungomare che portava alla piazzetta del mercato: i banconi erano vuoti, le saracinesche chiuse, nessuno scarico merci, oggi. Barcollante tornava in paese, nelle gambe il peso delle ore appena trascorse. Gli spasmi muscolari e il vomito risalivano dalla bocca dello stomaco: era troppo anche per lui.

Il suo interrogarsi era sempre stato un riflesso incondizionato, imposto non da un reale interesse, ma da qualcosa di simile a briciole di umanità, animate dal principio secondo il quale finché sei vivo sei condannato a sentire, pur avendo fatto il callo alla sofferenza e al dolore. Ma ora quelle briciole si dilatavano nelle pupille di Betiv, si indurivano per i muscoli irrigiditi di Finferlo. Non poteva tacere, doveva far qualcosa, ma chi gli avrebbe creduto?

Era nella piazzetta della chiesa, era arrivato lì seguendo quello che prima era un brusio e che poi si articolava sempre più in un distinto alzarsi di voci:

– Non è possibile! Questi immigrati si lamentano del lavoro che manca, ce lo rubano e si permettono pure di aprire bar e negozi quando vogliono!

– Vanno in ferie durante le nostre feste e persino il giorno dopo! Poveretti, saranno stanchi di non fare nulla!

– Ah, i bei vecchi tempi…

– Ma non capite? – Urlava Guay con la voce rotta dal pianto. – Veramente credete che siano in vacanza? Ve lo dico io dove sono! Stanno tutti rinchiusi all’ex mattatoio, prigionieri delle guardie giallo -verdi. Dobbiamo aiutarli! L’ho vista con i miei occhi la carneficina! Hanno ucciso Finferlo, hanno catturato Don Fino! Ascoltatemi!

– Eccolo! Mancava solo l’ubriacone che fa il sapientone!

– Quanto vino ti sei scolato ieri notte?

– Cos’è? Santa Philoxenia ha fatto il miracolo e ti ha dato in dono la veggenza?

La folla rideva, lo sfotteva:

– Vi prego! Venite con me, vedrete i corpi tumefatti. Dobbiamo sbrigarci, non abbiamo molto tempo!

– Vedremo anche le scie chimiche? Magari hanno rilasciato delle polveri magiche che ci hanno fatto addormentare tutti!

Il fragore delle risate risuonava nella testa di Guay che si alzava da terra e fuggiva via da quella piazza.

– Bravo! Corri! Corri a comprare un’altra bottiglia, che sei ancora troppo sobrio!

Era corso lontano, arrivato all’osteria del lungomare Frine, aveva rimosso una pietra dal muro che nascondeva lo scrigno con la sua bottiglia di vino. Aveva superato il cartello che barrava il nome Donnatrafugata e si era fermato lì sotto, testa china sul palo metallico scottato dal sole.

Beveva, aveva sempre funzionato. Se qualcosa c’era che poteva ancora continuare a funzionare lì, nella santa – santissima –  Donnatrafugata. Decideva di riappropriarsi del suo tempo vuoto, speso a rigirare dito a dito colli di bottiglia.

Sguardo fisso nei campi. Le cicale cantavano.

Erano le nove e diciassette del 17 luglio, Guay era rimasto l’ultimo umano di Donnatrafugata.

Marciscono ancora i pomodori – pensava.