Tutta colpa della Regina – Silvia Greco, Giulia Bondi, Edoardo Spadaro

Il signor Giovanni Penati, amministratore condominiale, vive al secondo piano di una palazzina in buono stato sita di fronte allo snodo ferroviario di Ventimiglia

Penati trascorre una vita perfettamente normale: si alza ogni mattina alla stessa ora, mette su il caffè ancora intontito e accende la televisione. Seduto sulla sua poltrona, comincia a guardare intensamente la scacchiera di ossidiana con tutti i suoi pedoni, anch’essi di ossidiana. Passa qualche minuto ad osservarsi, riflesso sugli scacchi. Ma oggi qualcosa non va. Una piccola opacità attira la sua attenzione. La regina con la sua corona non risplende quasi di luce propria così come ogni giorno: «Eugenia! Hai toccato la regina? Ti ho detto mille volte di non toccare gli scacchi dopo che li ho lucidati!» grida alla moglie, ancora rannicchiata sotto le coperte, e si avvia corrucciato verso la cucina, in cerca della pezzuola con cui è solito lustrare i suoi scacchi. Ma il caffè fischia in cucina ed è costretto a rimettere la regina al suo posto.

Le tazzine di vetro non sono mai nello stesso posto: «Eugenia! Dove sono finite tutte le tazzine di vetro? Vedo solo quelle di ceramica qui! Eugenia!» grida. La moglie appare in cucina, stropicciandosi gli occhi. Prende una tazzina di vetro dalla lavastoviglie, la porge ancora ad occhi chiusi a Penati, che risponde sbuffando. Giovanni si siede comodo dinanzi alla sua scacchiera con il suo caffè decaffeinato ed inizia a lucidare di fretta i suoi pedoni, riservando una cura particolare alla regina.

Mafalda arriva correndo in salotto e salta sulle vecchie e robuste gambe del padrone. Urta la scacchiera con la coda ed un pedone cade rovinosamente sul parquet di ulivo del salotto. Mafalda è una bassethound con le orecchie grandi e lunghe che fluttuano accanto alla zampe tozze e corte e dai suoi occhi languidi si direbbe che non capisce affatto l’ira del padrone, il colore della sua voce, fattasi d’un tratto scura, e nemmeno perché mai Giovanni si precipiti a considerare più da vicino le condizioni di un pezzo di vetro muto ed immobile.

«Non si è fatto niente, grazie a Dio. Mafalda!» esclama Giovanni, con voce roca, e torna a sedere dinanzi alla sua scacchiera.

Il sole si è appena levato illuminando lentamente le coste meridionali della Sicilia, lisce e regolari. Iskander vede il porto, le navi merci e le barche dei pescatori ormeggiate e in secca, al sicuro dai marosi. Iskander è un profugo eritreo ed è stato appena salvato dalla guardia costiera.

Si era lanciato in acqua non appena aveva visto la costa, ma non era vicina tanto quanto aveva immaginato. Ora è seduto ansimante nella poppa di una nave. L’uomo che lo ha portato a bordo gli allunga una bottiglia d’acqua. La mano del suo salvatore è avvolta in un guanto di lattice azzurro ed il volto, coperto per metà da una mascherina bianca, lascia intravedere solo due occhi che lo fissano con premura. Sulla divisa, all’altezza della spalle, lo stemma della bandiera italiana. È in Italia, quella stessa Italia di cui la nonna gli aveva parlato, l’Italia dei “padroni”.

«A nord c’è il Sudan» gli avevano detto. A ottanta ore di cammino dal campo militare di addestramento nel quale aveva passato due anni. Poi c’era stata la vita a Khartoum, mesi e mesi a lavorare in un mercato, trasportando casse e sacchi e infine il Mediterraneo. Ed ora è qui, avvolto in un coperta che sembra fatta d’oro come la collana della nonna nascosta nei pantaloni.

Pedone bianco in B-3. Pedone nero in E-6. Penati inizia la solita partita contro se stesso. Mafalda freme, abbaia, continua a mordicchiare le pantofole di Penati, sempre più concentrato e con la pupilla a spillo. Non può abbandonare già alle prime due mosse: «Soltanto altre due, Mafalda, sii buona!» Alfiere nero in C-5.

D’un tratto un vociare indistinto giunge alle orecchie del vecchio Penati dalla finestra della terrazza. Sono soltanto le cinque e trenta del mattino ed il trambusto sembra gradualmente superare d’intensità il solito rumoreggiare dei crocchi di pendolari che si radunano accanto ai binari. Delle grida e delle sirene risuonano e rimbombano sui muri del parco quadrilatero circondato dai palazzi. Penati si schioda dalla sua scacchiera di mogano e dalla poltrona di pelle e si precipita in terrazza.

Vede una lunga fila di uomini, donne e bambini, alcuni scalzi, procedere sull’asfalto arroventato dal sole estivo. Scortati dalla polizia e accolti dai volontari della Croce Rossa, intenti ad allestire un campo. «Un campo?» si chiede, a voce alta, mentre la palpebra destra comincia a tremare. Penati avverte un brivido percorrergli la schiena, salire alla nuca e scendere giù fin alle dita delle mani, che stringono scosse la ringhiera di ferro battuto. Perché installare un campo lì, sotto casa sua, vicino al centro cittadino?

Dopo circa un’ora la nave attracca a Pozzallo e tutti i migranti vengono fatti sbarcare. Alcuni di essi versano in pessime condizioni e vengono portati via in ambulanza, Iskander e tutti gli altri vengono scortati fino al centro di prima accoglienza a pochi passi dal molo. Nel centro centinaia e centinaia di persone giacciono ammassate in stanzoni fatiscenti e c’è appena lo spazio per camminare. Quell’odore acre è ormai familiare a Iskander, non troppo diverso da quello delle carceri libiche.

«Eugenia! Guarda che stanno facendo!»

«Dio mio! Chissà da quanti giorni saranno in viaggio. Mi sale un tal magun solo a vederli!» Eugenia porta una mano alla bocca e resta immobile per qualche secondo.

«Non va bene. No, non va affatto bene» sbotta Penati. «Non è posto dove allestire un campo profughi! Che follia sarebbe mai questa, sotto casa mia! Non è mica una ciàza, una spiaggia, un porto di mare!»

Eugenia annuisce e va in cucina: «Porta fuori il cane, vai un po’ a vedere che succede».

Mafalda abbaia senza sosta. La polizia vicino alla stazione, attorno a qualche camionetta, i volontari della Croce Rossa, intenti a cucinare nella cucina da campo, a distribuire aiuti, coperte, brande, e centinaia di anime dalla pelle nera che vagano su e giù per la piazza della stazione, antistante il condominio, ermeticamente sigillate e controllate dalle forze dell’ordine.

Iskander si sveglia. E’ in uno stanzone dalle pareti dipinte d’azzurro e di bianco, sdraiato su un materasso di gommapiuma sudicio, coperto da un panno marrone, ruvido come una barba malfatta. Mette a fuoco ciò che lo circonda. La parete azzurra delle pareti è segnata da disegni e graffiti. Nomi africani, arabi, indirizzi email. Ai piedi del suo materasso ci sono delle ciabatte di plastica bianche e blu. Iskander lentamente si alza, le indossa e si mette in piedi. Una luce filtra nella sua stanza da degli alti finestroni e da una grande porta a vetri

«Impronte! Questionario! Forza, forza!» sente gridare. «Fingerprints, fingerprints and questions!» ripete la voce. La parola “impronte” accende una lampadina nella testa di Iskander. Non vuole lasciare le impronte, almeno fino a quando non sarà arrivato a Marsiglia.

«Mi dispiace, non so dirle per quanti giorni saremo in questa situazione; è un’emergenza, si farà il possibile per ristabilire la situazione».

Penati ascolta le parole dell’ufficiale di Polizia, livido in volto.

«Con tutte le strutture inutilizzate che c’erano, allestite un campo accanto allo snodo ferroviario! È assurdo» sbotta Penati.

«Non posso aiutarla. Si rivolga all’amministrazione comunale se vuole fare dei reclami».

Le maglie strette della burocrazia cominciano ad annodarsi attorno al povero Giovanni. Alcuni migranti, seduti tra le aiuole del condominio e intenti a bere del tè, lo osservano. Mafalda tira come un diavolo verso il mare, strattona senza sosta. Ma Giovanni non ha voglia di andare, a causa delle tendopoli dei migranti, accampati tra gli scogli ed il mare. I giornali la chiamano “la Bolla”, come fosse una bolla di sapone.

Penati risale le scale del condominio, senza aver messo fuori un piede dalla piazza. Spiega ad Eugenia tutta la situazione. Mangiano in silenzio, un piatto di spaghetti alle vongole surgelate dell’Oceano Atlantico, mentre il Mediterraneo sbuffa di fronte a loro.

Un gruppo di ragazzi protesta, «No fingerprints!» gridano, siedono a terra, con le mani alzate, rifiutando di muoversi. Iskander si unisce a loro, il suo vicino gli porge la mano, lo tira a sé e siedono a terra insieme. Si chiama Aregai, anche lui è eritreo.

«Adesso la polizia ti farà delle domande, ti chiederanno di rispondere dicendoti che è per il tuo bene».

«Devo dirgli tutto?»

«Ma sei matto?» replica Aregai. «Guai a te se rispondi così! Ti buttano fuori. Devi rispondere solo refugee, che sei scappato dalla guerra, dai ribelli, dalla dittatura, che non sei qui per lavorare».

«Ma non voglio stare con le mani in mano tutto il giorno!» risponde Iskander. «Ho sempre lavorato, fin da bambino».

«Anch’io amico, cosa credi! Ma se rispondi così ti buttano fuori! Fuori, capito?»

«Ti rimandano in Libia?»

«Forse non in Libia, ma potrebbero anche rispedirti indietro, a casa, oppure non ti fanno fare la domanda da rifugiato e resti clandestino. Quindi, ricorda, niente».

La protesta continua e l’interprete, un etiope che parla un pessimo tigrino, dice che per le impronte se ne parlerà l’indomani, quando arriveranno i funzionari della grande Europa. La sera con Aregai ed altri ragazzi si parla di come attraversare l’Italia. Hanno troppa paura di rimanere lì. Devono fuggire, fuggire il prima possibile.

Penati si prende la testa tra le mani. «Bisogna fare qualcosa, sì, Bisogna fare qualcosa immediatamente!» ripete tra sé e sé. «Una riunione condominiale, sì una riunione è la prima cosa da fare».

Tutti i condomini sono invitati a presentarsi alle ore quindici nella saletta ricreativa al piano terra.

Questo il testo del foglio che consegna a mano, piano dopo piano, porta dopo porta, a tutti gli inquilini. La signora Romanelli, terzo piano, lo accoglie nella solita vestaglia con i bordi in finta pelliccia: «Che scandalo, Giovanni! Non bastano tutti i problemi che abbiamo, adesso ci si mettono anche con le emergenze, ma che governo! Guarda, devo andare dal parrucchiere e non potrò esserci, ma mi fido come sempre di te». La strega rossiccia, come la chiamava Eugenia, non ci sarà.

I Damilani e i Sallustio del secondo piano ci saranno; i Rosmini e il vecchio scapolo d’oro, Calandra, entrambi del quinto piano, presenti. Il Calandra porterà qualcosa da bere. «Per calmare gli animi» aveva detto e la signora Rosmini, invece, avrebbe preparato il suo famoso panettone farcito.

Un dubbio assale il signor Penati: che fare con la famiglia Nafisi? Il loro status di inquilini lo costringe a non negargli l’invito, ma una strana paura s’impossessa di lui: di certo si sentiranno offesi, iraniani, per lungo tempo irregolari ma ad oggi proprietari di una bella bottega con annesso bar e tavola calda. «Ou ça passe ou ça casse» dice Penati alla moglie, facendola partecipe del suo disagio e sfoderando il suo ottimo francese.

Iskander e Aregai fuggono poco prima dell’alba. L’uomo all’ingresso sonnecchia e i poliziotti in cambio turno non sembrano troppo interessati a loro. Fuggono in direzione del paese, passando accanto alla capitaneria di porto e a un cimitero di pescherecci e gommoni, come quelli su cui anche loro hanno viaggiato. Superano il paese. Dopo un’ora di cammino si siedono sul ciglio di una strada di campagna, abbastanza lontana dal centro di accoglienza. Bisogna mettere a punto un piano per lasciare la Sicilia senza essere schedati e raggiungere la Francia. Aregai tira fuori dalla tasca un foglietto sgualcito e lo mostra a Iskander. C’è un numero di telefono scritto sopra.

«Me l’ha dato uno uomo del centro. Non so chi risponderà dall’altra parte, so solo che dobbiamo fidarci, non abbiamo altra scelta» dice e tira fuori un cellulare. Aregai compone il numero e resta in attesa, passeggiando nervosamente avanti e indietro. Iskander lo osserva in silenzio. Aregai chiama la prima volta. Nessuna risposta. Aregai riprova, cammina su e giù, sempre più nervoso. Finalmente qualcuno risponde dall’altro capo del telefono. Aregai comincia a parlare. Iskander sorride, il suo amico parla italiano molto meglio di quanto potesse immaginare.

«Dobbiamo raggiungere un casolare giallo abbandonato, a nord. Un camion ci verrà a prendere, ma ci vorranno tanti soldi» dice Aregai ad Iskander, tornando a parlare nella sua lingua.

«Non ho più nulla» fa Iskander.

«Qualcosa ci inventeremo» gli risponde Aregai, mentre tira fuori dalla tasca della giacca un pezzo di pane e glielo porge.

«Cosa non si trova in quelle tasche bucate, Aregai! Com’è che parli italiano?»

«E’ da un po’ che progetto tutto questo. Nella vita bisogna esseri pronti a tutto».

Alla porta Hassan Abid, capofamiglia non si scompone. Prende il foglio, ringrazia Penati e si limita a dire: «Ci saremo».

Un caffè veloce, mentre il suo sguardo, dal terrazzo, si concentra sui profughi che occupano le aiuole, i giardinetti e la piazza. Alcuni di loro hanno portato delle brandine fin sotto lo stabile, per ripararsi dal sole cocente, altri dormono nelle aiuole, altri ancora urinano agli angoli della piazza. Penati manda loro maledizioni in un arcaico ventimigliese e cerca di attirare l’attenzione della polizia. I migranti lo guardano, qualcuno si gratta la testa, altri ridono e lo imitano. Anche la polizia sorride, ed alza le braccia. Non ci sono abbastanza bagni per tutti.

Sono le quindici. Pedone bianco in C-3. Una mossa veloce, prima di correre alla riunione.

I condomini sono tutti presenti, sul piede di guerra, un mormorio risentito s’arresta appena Penati varca la soglia della stanzetta ricreativa. L’avvocato Ermanno Sallustio si mette in piedi e con tono grave, rivolgendosi a Penati, dice: «Sono contento che hai indetto questa riunione, Giovanni; sai bene come sono sempre stato in prima linea quando c’era da sporcarsi le mani, quando c’era da fare qualcosa di concreto. Dobbiamo pensare a come risolvere la situazione».

«Sono d’accordo con Ermanno, Giovanni; qui c’è da muoversi subito» esclama Damilani, sindacalista della vecchia guardia, ormai in pensione. «Io ed Ermanno, lo sai, non siamo mai stati d’accordo su niente, ma stavolta la situazione comincia a diventare davvero inquietante. Il sindaco non vuole aprire un centro permanente per paura che uno di quei ghetti alla Lampedusa allontani il turismo. Quindi la parola magica risuona subito all’orecchio della vecchia canaglia: EMERGENZA. Tutto è scusato, non è colpa di nessuno, una mano lava l’altra e finisce come al solito a tarallucci e vin santo».

Ermanno Sallustio sussulta: «Come dare torto al sindaco! Chi l’ha detto che dobbiamo ospitarli noi questi profughi? Non sono ospiti graditi e non faranno che portarci rogne».

«Certo, potresti mai dare torto ad un tuo compagno di partito?» risponde Damilani.

«Non è per questo che siamo qui oggi, Federico. Lo sai anche tu: quel campo non può rimanere dov’è». Damilani guarda Sallustio ed annuisce ad occhi bassi.

I Nafisi sono rimasti lì, composti, moglie e marito, per tutto il tempo. Penati li osserva preoccupato, finché Hassan, il capofamiglia, non chiede la parola: «Sono d’accordo con Sallustio, non possono restare».

Penati rimane un attimo interdetto, poi come rinfrancato dalla scoperta di un alleato in colui che credeva essere un nemico dice: «Proprio per questo vi ho convocati. Se siamo tutti d’accordo, propongo di scrivere all’amministrazione che il campo venga spostato. Votate per alzata di mano».

Tutti favorevoli, tranne la moglie di Hassan, Ava: «Come diceva mia madre: non si colgono i frutti della felicità sull’albero dell’ingiustizia» sussurra, guardando storto il marito.

Penati serra i ranghi: «Allora manderemo una lettera al sindaco, firmata da tutti noi. Così è deciso».

Iskander e Aregai scorgono il giallo del casolare. Il camion è già lì ad attenderli e l’autista, con un braccio appoggiato sul cofano, li scruta da dietro il fumo della sua sigaretta. Aregai gli si avvicina. L’uomo vuole qualcosa: soldi, oro, qualsiasi cosa abbiano. Aregai prende dei soldi nascosti nelle scarpe. Non bastano. Aregai cerca di convincere l’autista, ma nulla. Iskander cerca di capire ciò che si dicono, coglie qualche parola.

«No, troppo poco, io rischio. Troppo poco! Troppo poco!» grida l’autista.

Iskander gli si avvicina. Si mette una mano nelle mutande e tira fuori la collana d’oro della nonna. L’autista la osserva. Sembra soddisfatto.

«Ci rivediamo qui tra due settimane. Martedì, non questo che viene, altro martedì. Capito?»

Aregai protesta: «Ma ti ho già dato soldi! Rendici i soldi».

«Non vado Nord oggi, vado tra quindici giorni. Capito?» E riparte, lasciandoli a secco.

Due intere settimane e nessuna risposta, quindici giorni, in ognuno dei quali Penati ha passato il tempo a rodersi il fegato osservando la piazza trasformarsi in una sorta di ghetto. Sempre più spesso una nausea lo prende allo stomaco, un nervosismo che si trasforma in disgusto.

Di fronte alla sua scacchiera la televisione lo abitua al rumore della guerra. Cavallo nero in C-6. Le immagini di città fantasma, scheletri di cemento sotto i bombardamenti riempiono di un lungo silenzio. Giovanni cerca il telecomando, senza riuscire a trovarlo.

«Dannazione Eugenia, dove hai messo il telecomando!»

Sua moglie in cucina, prima assorta in un solitario, risponde distratta.

«Ce l’hai sotto il sedere».

«Guarda tu dov’era finito!» esclama Penati. Spegne la TV e ritorna a giocare.

Il giorno dell’appuntamento, l’uomo del camion si presenta davvero. Per Aregai e Iskander, vivere anche un solo altro giorno nel casolare, nascosti, andando ogni tanto a chiedere elemosina nel paese vicino sarebbe stato insostenibile. Finalmente si apre il portellone del camion.

«Voi ora salire, forza, veloce, prima che qualcuno ci becca» grida il camionista. «Rimanete lì, in mezzo agli scatoloni, sì, nascosti qui in mezzo. Là c’è acqua, vedi, acqua!» dice, indicando un vecchio bidone unto.

«France!» gli dice Aregai. «France! France!» ripete.

L’uomo annuisce, porta l’indice alle labbra: «Da adesso, silenzio, capito? Muti».

«Come proseguo? Oggi non parlate, state zitti e mi guardate; non riusciamo a capirci oggi, eh?»

Penati apostrofa gli scacchi. Pedone bianco in D-4. Una smorfia. «Che brutta mossa, ho fatto». Appena pronunciate queste parole qualcosa illumina gli occhi di Giovanni Penati, che si alza di scatto, prende una Bic nera e un foglio protocollo dal cassetto della credenza del salotto, giusto sopra la TV.

Si mette sulla sedia dello scrittoio ed inizia a scrivere un’altra lettera, ancora più furibonda, in cui lamenta la gestione indecente del campo, ciò che è costretto a vedere ogni giorno dal suo balcone, tutti quegli uomini e quelle donne ammassate a un passo dal suo condominio, sotto le sue finestre, uomini seminudi che giocano a calcio di fronte alla porta del suo palazzo, che dormono sulle sue aiuole, sotto le sue finestre, cercando riparo dalla calura di luglio.

«Dove sono le istituzioni – scrive – dove sono i miei diritti di cittadino. Dov’è adesso l’Ordine? Dov’è la mia pace, il mio riposo, la mia tranquillità, quando di notte sono costretto a sentire le urla di questi poveri disgraziati qui sotto, quando non posso nemmeno uscire di casa e dalla piazza della stazione senza aver paura e senza essere controllato dalle forze dell’ordine, quando la normalità conquistata con la fatica di quarant’anni di duro lavoro finisce, smette di funzionare, chiude bottega, insieme alla saracinesca del bar di fronte? Dov’è adesso lo Stato?»

Il portellone del camion si apre. Iskander e Aregai rivedono la luce del giorno. L’autista li prende per le maglie: «Fuori! Fuori!» Li strattona. Iskander e Aregai cercano di fare resistenza

«France!»

«No France, Ventimiglia! Alla frontiera non si passa. Scendere! Adesso! Troppa Police, capito? Police

Aregai e Iskander non vogliono scendere. «We gave you money and gold, son of a bitch!» grida Iskander.

L’autista comincia a sbraitare, scende dal camion. Iskander e Aregai stanno lì, fermi, dietro agli scatoloni, aggrappati alla speranza che l’autista alla fine si sia convinto. Ma quello torna poco dopo, con un coltello in mano.

« Fuori! Understand?»

Penati è in compagnia del messo comunale, di fronte alla porta del sindaco di Ventimiglia, con la lettera scritta di suo pugno stretta tra le mani. Silenzio. Rumore di passi, il rumore della tastiera di un computer che proviene dall’ufficio del sindaco e poi ancora silenzio. Passano ore ed ore, ma il sindaco ancora non lo riceve.

Iskander e Aregai camminano verso la città. Un cartello dice “Ventimiglia”. Sulla strada incontrano due ragazzi sudanesi. Loro dicono che hanno già tentanto di passare la frontiera: «They bring us back in Italy everytime» ripetono ossessivamente. Gli dicono che sono rimasti sugli scogli per giorni, a protestare, che hanno provato a passare da tante strade, ma niente. «No way» ripetono, «No way».

Penati si alza e si dirige sicuro e pieno di collera verso la porta dell’ufficio del sindaco.

«Signore! Dove va, signore? Si fermi! Si fermi! Non può entrare!» grida l’usciere. Penati ha quasi agguantato la maniglia, quando l’appuntato dei carabinieri di stanza al comune gli mette una mano sulla spalla. Penati si volta e dice: «Mi lasci entrare, è d’estrema importanza che io…».

L’appuntato lo prende per un braccio e lo accompagna fuori. Penati grida all’abuso di potere, ma nessuno sembra considerarlo. Viene accompagnato all’uscita e minacciato di denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale. Un buco nell’acqua, ancora una volta solo un buco nell’acqua. A casa Eugenia lo aspetta a braccia aperte, come fosse già pronta a consolarlo. La scacchiera tace ancora. «Un’altra mossa e forse sblocco la partita, un’altra mossa soltanto». Pedone nero in E-5.

Iskander, Aregai e i due ragazzi sudanesi decidono di provare a passare dalle colline. Attraversano uliveti, poi boscaglie e sentieri tortuosi che nemmeno conoscono, orientandosi solo con le stelle, o almeno così sostiene Aregai: Iskander non capisce nulla di stelle, ma dato che il suo nuovo amico ci sa fare, ha deciso di dargli credito ancora una volta. Camminano a lungo, finché tra il buio pesto cominciano a scorgersi delle luci. La Francia sta lì, dinanzi a loro. Cominciano a correre, scendono il crinale. Qualcuno lascia andare delle grida di gioia. Ma compare una luce sul petto di Aregai, e poi un’altra, puntata sul viso di tutti gli altri. I battiti del cuore raddoppiano.

«Stop! Arretez vous!» gridano delle voci.

La polizia li ha scoperti. Aregai fa uno scatto, corre in mezzo agli alberi. Iskander cerca di seguirlo, ma pochi istanti dopo l’ha già perso di vista. I poliziotti li inseguono. Uno dei ragazzi sudanesi inciampa, cade su una roccia. Grida di dolore, tenendosi forte la gamba con tutte e due le mani. Iskander si ferma. Lo guarda. La polizia si avvicina. Iskander si volta, cerca Aregai con lo sguardo, a destra, a sinistra, niente. Iskander torna indietro, tende la mano al ragazzo sudanese, cerca di farlo alzare, ma un’altra mano coperta da un guanto di pelle lo afferra per il collo.

Vengono riportati a Ventimiglia in una camionetta della gendarmeria. La croce rossa li accompagna in un campo allestito nella stazione. Furgoncini e auto della polizia sono dappertutto. Iskander si guarda intorno. Centinaia di facce stanche e senza speranza, come la sua. Procede a passo lento in mezzo alle aiuole finché non si stende su una di esse.

Sente un pizzico dietro la schiena, come ci fosse qualcosa. Si alza. Sotto di lui, in mezzo all’erba un pezzo di plastica, di una strana forma, poi un altro, poco più avanti ed un altro ancora, disseminati per l’aiuola. Iskander li ha già visti da qualche parte, ma non ne ricorda il nome. Un bambino, poco più avanti gioca con alcuni di essi, poi, annoiato, li lascia cadere e corre via. Quella che gli sembra una tavola di dama giace poco più in là, anch’essa dimenticata. Iskander raccoglie i pezzi, si siede. Fa un cenno al bambino, che però non ha voglia di giocare con lui e che corre insieme ad altri bambini dietro ad un vecchio pallone di cuoio. Iskander prende un lungo respiro e comincia a giocare da solo.

Il giorno dopo Iskander è ancora lì. Non è riuscito a dormire e ha passato la notte a guardare tutti quegli strani pezzi di plastica a forma di teste di cavallo, di torri, di omini. È l’alba e dormono tutti, solo una donna è sveglia e intenta ad allattare una bambina al seno. Un uomo bianco con i capelli grigi è appena uscito dalla porta di uno dei palazzi che danno sulla piazza: è Penati, in lotta con Mafalda come ogni mattina. Giovanni alza lo sguardo spazientito e i suoi occhi incontrano quelli di Iskander, poco lontano, che lo guarda invece incuriosito, accennando un sorriso. Giovanni lo fulmina con lo sguardo e strattona Mafalda ancora più forte dalla parte opposta.

Iskander si volta, va verso la stazione e si ferma a guardare pensieroso la strada ferrata. Ad un tratto delle grida lo distolgono dai suoi pensieri: «Mafalda, maledetta! Torna subito qui!»

Iskander vede quell’uomo affannarsi per cercare di acciuffare il suo cane, che corre adesso libero trascinandosi dietro il guinzaglio. Penati si ferma, non ce la fa più, continua a urlare, ma la sua voce viene coperta dal fischio di un treno in arrivo. Mafalda, libera da ogni impedimento, si avvicina ad Iskander, fiutandogli le tasche. Iskander accarezza la testa di Mafalda e tira fuori dalla tasca un pezzetto di pane. Penati accorre, riprende Mafalda al collare. I due si guardano ancora. Penati sgrida Mafalda e la trascina fino a casa. Iskander si volta dall’altra parte e ritorna a perdersi nei suoi pensieri, con lo sguardo fisso sui lunghi binari che vanno oltre le colline.

Pedone bianco in D-4 mangia pedone nero in E-5. Cavallo nero in C-6 mangia pedone bianco in E-5. Il povero Penati non riesce a concentrarsi, mette giù i suoi pezzi e esce a prendere una boccata d’aria. Eugenia gli porta il caffè in terrazza. Lui è sempre lì, fermo ad osservare e controllare il campo, stringendo forte la ringhiera quasi volesse con quelle mani poter stringere la piazza, poterla prendere tutta intera e spostarla altrove. Ma i suoi occhi cercano qualcosa. Cercano quel giovane dagli occhi neri e languidi. Eccolo, proprio sotto di lui. Penati lo osserva, osserva Iskander disteso su un aiuola intento a giocare a scacchi. «Ma dove l’avrà presa quella scacchiera?» si domanda. «Chi gliel’ha data?»

Incuriosito Penati cerca di capire il gioco di Iskander. Anche lui sta lì, da solo, a giocare una partita contro se stesso. Iskander è di spalle, Penati cerca di sporgersi per poter vedere meglio, ma è troppo lontano. Sbuffa. Beve il caffè tutto d’un fiato e si scotta la lingua.

«Porto fuori il cane, Eugi».

«Ma non l’hai portato fuori poco fa?» Nessuna risposta, il rumore della porta d’ingresso che si chiude.

Penati comincia a girare per la piazza con Mafalda al guinzaglio. Compie delle avventate manovre di avvicinamento, curioso di vedere la tecnica di quel ragazzo e poi si ritira e s’allontana di fretta. Continua così per una buona mezz’oretta. Finché Iskander non s’accorge di lui, lo guarda incuriosito e poi, riconoscendo Mafalda, gli fa un cenno con la mano.

Penati dapprima si volta imbarazzato e intimorito. Poi non riesce a resistere alla curiosità e si avvicina. Iskander lo guarda, mentre Penati gli si para davanti senza dire una parola. Iskander lo saluta.

«Ciao!»

«Parli la nostra lingua?»

«Un poco. Mia nonna parlava italiano».

«Che fai, la forchetta con il cavallo su torre e alfiere? Ottima mossa!»

«Cosa? Non capisco».

«Ma sì, guarda. Il cavallo nero qui ha inchiodato torre e alfiere bianchi, vedi» dice Penati, indicando nervosamente il cavallo sulla scacchiera.

«Vuoi giocare?» risponde Iskander.

«No, però guarda, forse non ti sei accorto». Penati sposta il cavallo, disegnando una L in aria, e mangia la torre. Poi rimette a posto e con un’altra mossa disegna in aria una L, ma sdraiata sulla schiena, e mangia l’alfiere: «Vedi? Capito?»

«No, no! Non così!» fa Iskander, e comincia velocemente a muovere tutti i pezzi degli scacchi come fossero pezzi di dama. «Così, vedi? Vuoi giocare?»

«Ma non sai nemmeno giocare! Che giri a fare con una scacchiera se non sai nemmeno le regole?» sbotta di rabbia Penati. Iskander tace e lo osserva perplesso.

Penati si siede e comincia a descrivere ogni pezzo e le mosse che può compiere. Iskander, ancora in silenzio, resta immobile a guardare.

«… e quest’ultima qua è la Regina. La Regina si muove in tutte le direzioni e per tutta la lunghezza della scacchiera. Non ha limiti».

Un velo di tristezza cala sugli occhi di Iskander. Penati se ne accorge, lo guarda perplesso.

«Io Regina» dice Iskander con gli occhi bassi. «Cosa è Regina?» chiede a Penati.

«La Regina, sì, come dire, Reine… ehm… the Queen

«I would be the Queen» dice Iskander e sorride, stranito dalla stessa frase che gli è uscita di bocca. Penati, che non conosce non più di cinque parole in inglese, continua a guardarlo perplesso.

«Bene, te le ricordi le mosse? Io non ho tempo da perdere e non posso star qui tutto il giorno ad insegnarti le mosse, arrangiati!» Penati si alza e tira Mafalda per il collare.

Iskander sorride, guardando Penati che lentamente si allontana. Osserva la Regina. La prende tra le mani e se la mette in tasca.

Giovanni sta in balcone, con il suo caffè in mano. Guarda gli scacchi, vorrebbe giocare, ma non riesce. Guarda Iskander dall’alto seduto sulle aiuole.

«Non ha capito un tubo!»

«Che hai amore?» gli chiede Eugenia.

«Ma guarda quell’idiota! Sta qua sotto a rovinare le aiuole e a perdere tempo senza nemmeno riuscire a giocare! Adesso scendo e gliene canto quattro!»

«Portati la giacca se ti fermi a giocare con lui».

«Ma che dici? Io vado lì adesso e gliene canto quattro!»

«Certo, come vuoi, ma stai attento a non prender freddo». Eugenia gli porge la giacca e lo saluta con un bacio.

Penati si siede nervoso di fronte a Iskander: «Qui non puoi stare!» Iskander si alza, con la faccia contrita. «Vieni da questa parte, mettiamoci su quella panchina. Non ho più l’età per stiracchiarmi sulle aiuole». Iskander annuisce e lo segue.

«Continui a giocare come fosse dama, ma non è così che si fa, capito? Dove hai messo la Regina?»

Iskander lo guarda: «The Queen?» gli chiede e tira fuori la regina dalla tasca.

Penati rimane in silenzio.

«Ti piacerebbe essere come la Regina? Scappare via da qui?»

«Sì. Io viaggiato troppo. Mia regina aspetta».

«Dov’è la tua regina?»

«Marsiglia. Così vicino eppure io fermo qui. Io sono come Re. Lui fermo, fa un passo solo e scappa, scappa sempre».

Penati sente un tonfo al cuore. Dissimula l’emozione e ritorna ad osservare attentamente la scacchiera.

«Se hai capito come si gioca adesso facciamo una partita, d’accordo?» Iskander annuisce e i due cominciano a giocare.

Vanno avanti fino a quando non fa troppo buio per vedere i pezzi. Si salutano quando la giacca di Penati non basta più a proteggerlo dall’umidità del cortile.

«Eugenia starà dormendo da un pezzo» dice Penati.

«Eugenia tua regina?» gli domanda Iskander.

Penati sorride e volta le spalle.

«Basta! Maleducato! Come ti permetti!»

Le grida vengono dal cortile. Penati si sveglia di soprassalto. Anche Eugenia si sveglia, destata dal marito. I due si guardano: «Cos’era? Hai sentito anche tu?» chiede Eugenia. Penati corre in balcone, dall’alto vede due corpi. Un corpo è di una donna, si capisce anche dai lunghi capelli neri. L’altro corpo è sicuramente un uomo, il cappuccio della felpa tirato sulla testa. Lei continua a gridare.

Penati chiude la finestra, si precipita per le scale senza nemmeno chiudere la porta, senza nemmeno agguantare la vestaglia. Arriva in cortile pochi secondi prima del Sallustio. Ci mettono un po’ a capire chi è la donna. Non l’avevano mai vista così. Ora, Ava Nafisi è circondata dai migranti che vivono nel campo. Ha i capelli neri sciolti, senza il velo che glieli copre di solito. C’è anche Iskander accanto al muro. Gridano in tigrino, in inglese, c’è confusione.

«L’avete aggredita, bastardi!» sbotta Sallustio.

Ava è in lacrime. Accanto a lei, un sacchetto di spazzatura si è aperto rovesciando il contenuto sul marciapiede.

«Chi è stato?» la incalza. Non riesce a rispondere, solo a singhiozzare. «Chi è stato?» continua lui.

Una volontaria arriva, le mette una mano sulla spalla. Ava smette di singhiozzare, ma il respiro resta affannoso. Si allontanano di qualche metro insieme alla volontaria.

«Siete stati voi, bastardi negri. Ora vi denunciamo e vi rimandiamo a casa vostra, a casa!»

Penati è come paralizzato. I suoi occhi si spostano da un corpo all’altro, da un collo all’altro. Altri condomini sono arrivati, si scambiano racconti, pareri. Sallustio è convinto si sia trattato di un’aggressione di gruppo. Penati continua a osservare, frenetico, collo per collo. Nessuno.

Nessuno.

Si aggira come stregato nella piccola calca, per guadagnare punti di vista, per osservare le spalle, da dietro. Per essere sicuro.

Nessuno.

Guarda Iskander. Nemmeno lui.

Alza gli occhi dal collo di Iskander al suo volto. Incrocia i suoi occhi.

Intanto Sallustio ha convinto gli altri condomini. Sporgeranno denuncia l’indomani mattina. Ma qualcosa non va. Nessuno ha davvero visto la scena dell’aggressione. Ava Nafisi, almeno per ora, non è in grado di parlare.

«Chi è arrivato per primo? Chi?» incalza ancora Sallustio.

«Quando sono scesa io c’era solo Giovanni» risponde la signora Rosmini.

Sallustio lo guarda negli occhi: «Allora devi parlare, Penati. Così li mandiamo tutti a casa. E anche noi, finalmente tranquilli. Nel giro di qualche giorno se ne andranno tutti».

«Non sono sicuro di quello che ho visto». Penati guarda Sallustio. Poi Iskander. Poi incrocia altri sguardi. Volti bianchi, volti neri. Occhi iracondi, occhi terrorizzati. Controlla ancora. I colletti di tutti. I maglioni di tutti. Le felpe di tutti. Nessuno. Ne è sicuro.

Nel frattempo è arrivata la Polizia. Fermano i migranti. Sallustio si apparta con un poliziotto, spiega l’accaduto, rende una prima testimonianza. Il poliziotto spiega che ora devono fare identificazioni, garantire che nessuno se ne vada dal campo. Per il resto delle testimonianze, meglio aspettare l’indomani mattina. Sallustio gli assicura che andranno in questura, con un testimone oculare, a denunciare la tentata violenza di gruppo. Torna nel gruppo dei condomini, riferisce.

«Domattina alle otto. Tu non puoi mancare. Devi testimoniare, Penati. Tutto quel parlare di cosa bisogna fare per tornare alla tranquillità e poi ti metti paura? Pensa se testimoni; Ava è ancora shockata, lei non è attendibile. Arrivi tu domani in questura, fai la tua bella testimonianza, metti nero su bianco che sono stati tutti loro, tutti quelli fermati, nessuno escluso, e ci togliamo questo problema volgare di torno, una volta per tutte. Eh, Giovanni, che ne dici? Non vuoi tornare a dormire tranquillo? Sì che lo vuoi, lo vogliamo tutti. Conto su di te. Domani alle otto, puntuale!» dice Sallustio a Penati, mettendogli le mani sulle spalle.

«Domattina alle otto» dice Penati a Sallustio, ma con un filo di voce. Iskander guarda Penati senza capire.

Penati torna a dormire. «Cosa è successo?» chiede Eugenia, e Penati le spiega l’accaduto.

«E tu hai visto chi è stato?»

Giovanni guarda nel vuoto: «Sono stati loro. Sì, tutti loro. Domani vado in questura e chiudiamo questa storia. Sono l’unico testimone oculare, devo chiudere questa storia». Eugenia lo guarda perplessa, lo abbraccia: «Torniamo a dormire adesso».

Ma di dormire non se ne parla. Giovanni non riesce a smettere di pensare agli occhi di Iskander piantati nei suoi come spine.

Nessuno.

Nessuno tra i ragazzi del campo presenti aveva una felpa con il cappuccio. L’aggressore non era tra loro, doveva essere scappato, approfittando della confusione. Forse era uno del campo, forse no. Ma non era uno di loro, non di quelli che erano lì. Ed era uno, uno soltanto. Non era un’aggressione di gruppo.

Non era stato Iskander. Non era lui.

Non era lui. Quegli occhi.

Quel dannato campo profughi.

L’occasione d’oro di mandarli via tutti.

E quegli occhi che avrebbero continuato a guardarlo per sempre. Penati sveglia la moglie: «Non posso farlo Eugenia! Non posso!»

Il giorno seguente Penati è in Questura. Ava Nafisi è lì, circondata dai condomini inferociti. Pallida ma calma, cerca di spiegare le sue ragioni. Ha deciso di non sporgere alcuna denuncia.

«È stato un cafone, ma nulla di più. E comunque non saprei riconoscerlo e non voglio che per causa sua paghino dei ragazzi che non c’entrano nulla». Ermanno Sallustio si trattiene a stento dal metterle le mani addosso: «Abbiamo comunque un testimone oculare!» dice all’agente indicando Penati.

«Non sono stati loro. Ho visto un uomo, è vero, ma soltanto uno. I ragazzi del campo accorrendo l’hanno fatto scappare». Sallustio guarda Penati, a bocca aperta.

«Non so cosa sta succedendo qui, ma mi pare che non ci sia più nulla di cui parlare. Potete andare» dice l’agente e li congeda.

Giovanni Penati è ancora lì, con il suo caffè, ad ammirare quel limbo che si staglia sotto casa sua. Stringe forte con le mani la ringhiera. Anche Iskander è ancora lì, disteso su una aiuola. Non ha con sé la vecchia scacchiera di plastica. Sta semplicemente disteso, con gli occhi al cielo. Penati corre in salotto, prende la regina di ossidiana dalla sua scacchiera e se la mette in tasca.

«Torno subito» dice alla moglie. Sale le scale velocemente.

«Eugenia, ti ricordi dove abbiamo messo i miei scarponi vecchi?»

«In soffitta, Giovanni».

Penati passa dalla soffitta, esce fuori dal palazzo e si dirige da Iskander: «Ce l’hai la sveglia nel cellulare? Domani mattina puntala alle 5». Iskander annuisce.

Penati è sveglio dalle 4. Ha già preso il caffè. Ha preparato tutto meticolosamente. Si guarda intorno con aria furtiva. È solo. Eugenia dorme. Scende le scale seguito da Mafalda e trova Iskander ad aspettarlo. Gli fa cenno di seguirlo e arrivano al parcheggio del condominio, davanti all’auto di Penati. Iskander guarda la macchina con aria interrogativa.

«Che aspetti? Sali» gli dice Penati, e Iskander obbedisce.

Penati guida per più di due ore. Hanno lasciato la cittadina, si sono arrampicati per le strade liguri, ripide e tortuose, tra i muri bianchi delle ville coperti di buganvillee. Parcheggiano la macchina sotto un vecchio castagno. Non ci sono automobili. Penati toglie il collare a Mafalda e prende dallo zainetto i vecchi scarponi e li porge a Iskander. «Andiamo di qua» dice, e salgono in silenzio infilandosi a sinistra, in una mulattiera in mezzo ad agavi e fichi d’india.

Il percorso diventa sempre più stretto e tortuoso. La mulattiera diventa un sentiero. L’aria si rinfresca. Penati prende dallo zainetto una giacchetta, la indossa. Ne estrae un’altra, la porge a Iskander. Mafalda sul sentiero corre libera, avanti indietro tra il suo padrone e il suo nuovo amico. Camminano per quattro ore. Penati ha portato anche acqua, frutta secca, cioccolata e due panini al salame. Al crinale il vento è forte. Il mare si vede di nuovo.

«Devi scendere di qui. Segui i cartelli con scritto “Menton”. Vedi, è il sentiero 242, è poco frequentato ma stai attento, non farti vedere da nessuno per stasera e domattina vai subito alla Police. Dirai che vuoi lasciare le impronte digitali perché sei un esule politico e che devi ricongiungerti con tua moglie».

«Non so il francese» dice Iskander.

«Ce la farai» gli risponde Penati. Tira fuori dalla tasca un foglietto scritto in perfetto francese.

«Questa è la frase che devi dire. Se non riesci a dirla, fagliela leggere».

Iskander guarda Penati. Lo abbraccia. Penati fa per respingerlo, poi cede. Si toglie lo zainetto, ne estrae un piccolissimo cartoccio che apre con cura religiosa. Porge a Iskander la sua regina di ossidiana: «Prendila, e non perderla mai».

Iskander la stringe tra le mani, tira fuori dalla tasca la sua regina di plastica e la dà a Penati. Penati lo guarda, non riesce a trattenere le lacrime. Prende la regina e se la mette in tasca. Sul pezzo di carta nella quale era custodita la regina scrive il suo numero di cellulare.

«Solo se hai bisogno, solo se sei proprio in difficoltà, capito?» dice porgendolo a Iskander. «E adesso vattene via, prima che ci veda qualcuno».

Iskander sorride raggiante e comincia a correre lungo il crinale della montagna, lungo il suo sentiero della speranza, senza più voltarsi.

«Rimettiamoci in marcia, vecchia mia» dice Penati a Mafalda.

«Dove sei andato così presto?» chiede Eugenia appena lo vede rientrare. «Mi ero preoccupata».

«Ti spiego tutto, ti giuro, ma adesso devo scappare!» Penati va in salotto, prende la sua preziosa scacchiera e scende in piazza. Poggia la sua scacchiera su una panchina. Prende dalla tasca la regina di plastica di Iskander e la mette al posto della sua. Un respiro profondo e comincia a giocare. Dei ragazzini del campo gli si avvicinano incuriositi. Penati gli sorride: «Chi di voi ha voglia di imparare?»