Un passo prima – Collettivo Quattroluppoli

Il seguente racconto trae ispirazione da un’esperienza vera e positiva, quella del birrificio Alta Quota del comune di Cittareale. Ciò che di autentico è stato conservato nella narrazione, tuttavia, riguarda solo il set e i nomi di alcuni personaggi di questa storia che, per tutto il resto, si nutre di pura invenzione e di ipotesi romanzesche su come sarebbe potuta andare.

marzo 2015

 

 

4 sedie, 4 uomini, 40 carte; 4 fanti, 2 pensionati, 4 cavalieri, 1 adolescente, 4 re, 1 forestiero; 2 birre, 1 birra con limonata, 1 limonata senza birra. Nessuno provoca il freddo boia sporgendo la testa oltre le persiane. Nessuno si aggira per le strade strette e pendenti, preso sotto l’incanto di un neon fatiscente, a scrutare le coppie dell’ultima partita. C’è soltanto un bar, aperto.
Il pensionato dice all’altro pensionato «Voglio un asso» e pensa: 1bastoni-uscito 1coppe-uscito.
Il forestiero si sfrega il mento, su e giù. Poi si libera del 7 di denari.
L’altro pensionato tira il re di coppe e pensa: jepijasse’ncorpo tutti a loro gli assi.
L’adolescente sorride e lancia la donna di spade: bastonibastonibasto
Il pensionato, cavallo di bastoni.
L’adolescente spera: punti ora, avanti!
Il forestiero esita, ricorda e conficca l’asso di spade sul tavolo. Ha afferrato il gioco.
L’adolescente: «Cooosì!». Chi se l’aspettava da un negro che non ha mai giocato.
Le carte, tra le mani chiazzate di lentigo senile, non trattengono un tremito.
L’altro pensionato va liscio: a morìammazzati…
L’adolescente tira il 3 di bastoni. Poi il due. E che non beve alcol.
Il pensionato, re di denari.
Il forestiero, asso di denari.
Entro dieci minuti alcune signore cominceranno a preoccuparsi, alcune cene a raffreddarsi.
L’altro pensionato va liscio e chiede al forestiero: «Quindi sei appena arrivato e stai cercando lavoro. Che lavoro?».
L’adolescente, 2 di bastoni: aspetta e spe
Il forestiero: «Va bene tutto».
Il pensionato, fante di denari: 1-uscito 5-uscito 4-uscit
Il forestiero, cavallo di denari. L’altro pensionato, cavallo di coppe: mannaggiacristoforo
L’adolescente, re di bastoni: sì tutto, come no: «Scommetto che non faresti tutto».
«Sì, tutto. Tutto».
«Scommetto che trovo almeno tre lavori che non faresti».
«Dai».
«Allora… puliresti il culo ai novantenni? Qua a Cittareale è pieno di vecchi che muoiono senza riuscirsi a sciacquare il culo», mo’tevojo.
Il pensionato, fante di coppe.
Il forestiero, fante di denari: «Lo faccio senza problemi».
L’altro pensionato, 2 di coppe: «Se aspetti una decina d’anni ti lascio l’onore di farlo a me».
L’adolescente: «Anche meno, vecio»; cavallo di bastoni: «… faresti… il prete?».
«Quello non posso».
«Perché?».
«Sono musulmano».
«È per questo che non bevi?».
«Sì».
«E allora sto per raggiungere quota due: faresti la birra?».
Il pensionato, 2 di denari.
Il forestiero: «La birra?», cavallo di coppe.
«La capisci la lingua o no? Qui c’è il birrificio artigianale più in alto d’Italia. Quindi sono a due. Spacceresti fumo?».
L’altro pensionato, 3 di coppe.
«Ma cercano gente?».
«Di solito è la gente che cerca gli spacciatori».
«No, per fare la birra».

Non gli interessa nulla di quello che gli dicono a scuola, ma del resto deve sapere tutto. Per questo Fabio è andato a trovare Azhar: deve sapere come si fa la birra, deve sapere in quanto tempo, deve sapere quale colla usano per appiccicare le etichette alle bottiglie, deve sapere come si tappano, deve sapere quanti gusti si possono fare. Deve sapere tutto. E Azhar deve insegnarglielo.
«Posso toccarli?».
«Sì».
«Così poi fate una birra al gusto Fabio. Domani ti porto una foto da mettere sulla bottiglia».
«Non la compra nessuno. Meglio solo il nome».
«Quindi da questi grani di malto fate la birra. Giuramelo su Allah!».
«Giuro».
«Li mettete in quella cosa che fa tutto sto casino?».
«Sì, nella macina, che li gira, li schiaccia e li spezza».
«E dopo?».
«Li mescoliamo all’acqua nella cisterna».
«L’acqua sorgiva?».
«Sì, quella».
«Ma poi cosa succede?».
«Facciamo passare tutto dalle trebbie, queste».
«Come mai?».
«Bisogna togliere i grani col sapore che non va bene. Non è abbastanza dolce».
«Ok».
«Allora lo mettiamo lì e lo facciamo bollire».
«Ma la birra si beve fredda, non calda!».
«Quella non è ancora birra, non è neanche alcolica».
«E come diventa alcolica?».
«La facciamo lievitare e fermentare, così gli zuccheri diventano alcol».
«Azhaaaar!». Una voce rimbomba dal fondo del capannone e interrompe lo scambio tra i due.
«Devo andare, mi chiamano».
«Col cavolo, arabo, devi ancora portarmi alla sala dove imbottigliano e darmene un paio. Me l’avevi promesso».
«Hai ragione, ma devo andare».
Spingere il ragazzino fuori dal birrificio e raggiungere il nome gridato sono due parti di un’unica azione.
«Eccomi», dice mentre si ricompone.
«È arrivato».
«Chi?».
«Come chi? Whaleed».
«Ah, Whaleed!».
«Sono mesi che lavori qua e ancora mi caschi dalle nuvole».
«Scusa».
«Ma quale scusa! Piuttosto, fagli vedere tutto. Insomma non è il primo dei vostri che arriva».
«Sì, certo. È all’entrata?».
«Ti sta aspettando, andiamo. Con Ahmed, Husein, Arif e Whaleed fate cinque, ma non mi diventate i quaranta ladroni, che nel mondo si comincia a parlare di noi, sai?».
Il collega aggancia Azhar sotto braccio, lo trascina fino all’entrata del birrificio. Le scorie di un sentimento contrastante, a tratti acidulo, scompaiono dalla faccia di Azhar soltanto quando osserva il nuovo arrivato, l’esitazione di fronte allo stabile del birrificio, sotto un cielo turchino che distilla aria fresca.

WHALEED

È passato solo un anno da quei quattrocento sguardi cattivi. Da quel freddo cattivo. Per fortuna avevamo la famiglia, e avevamo Azhar. Non ho mai capito come Azhar ha resistito per un anno a quegli sguardi da solo, senza famiglia e senza un Azhar. Ci vuole tanto coraggio. O tanta disperazione. Ora il sindaco non fa che dire quanto siamo utili. Ai giornali. Io, Arif, Husein, Ahmed e ovviamente Azhar. Dice ai giornali che se non venivamo noi le scuole chiudevano. E che con noi ci sono più soldi. Siamo arrivati con tutta la nostra miseria in un paese misero, Cittareale. Misero di gente, di soldi, di vita. Non di generosità, dice sempre il sindaco. Neanche di freddo, dico sempre io. Due miserie possono sommarsi, oppure sottrarsi. Con la buona volontà e con la generosità si sottraggono, dice il sindaco. Con la buona volontà dei nuovi arrivati e con la generosità dei vecchi. Quello che non dice ai giornali è che senza la nostra buona volontà non c’era nessuna generosità. Ma non importa, i giornali non devono dire cose vere. Devono solo dire cose.

***

«Charles, quanto ti manca?».
«Devo leggere solo l’ultima».
«Perfetto».
«Comunque dice sempre le stesse cose».
«Cose buone, no?».
«Sì, buonissime: che senza di loro il paese moriva, che senza di loro mancavano gli alunni per le scuole, che senza di loro non c’erano, cito, “le braccia che sostanziano le Nuove Grandi Idee”, che senza di loro blablabla…».
«Perfetto».
«E poi che senza la bontà dei paesani, cito, “non si sarebbe celebrato questo prodigioso matrimonio culturale che ha figliato ricchezza e benessere per tutta la comunità”».
«Ah, perfetto, perfetto».
«Un po’ troppo perfetto, no?».
«Nulla è troppo perfetto».
«Insomma: sembra una favoletta».
«Cioè?».
«Questi arrivano dall’Afghanistan, parlano quante? Sei, sette parole d’italiano, probabilmente hanno tre mogli a carico e vengono accolti come dei salvatori in un paesino di 400 abitanti sperduto tra le montagne».
«Quindi?».
«Dai, Roland, sono tutte cazzate!».
«Non capisco…».
«Ma chi ci crede? Gente di un altro stato, di un’altra lingua, di un’altra pelle, di un’altra religione, insomma: di un altro mondo, che viene beatamente accolta come i santi in paradiso».
«Cosa ti devo dire? Sarà lo spirito cristiano…».
«O quello di Walt Disney…».
«Charles, senti, il mondo fa schifo, lo sappiamo tutti, benissimo. Vuoi sapere cosa aiuta la gente ad andare avanti nonostante tutto?».
«Cosa?».
«La speranza. Le belle storie non servono soltanto a far addormentare i bambini».
«Questo è il punto. Fanno addormentare anche gli adulti».
«Va bene, pensala come ti pare. Resta il fatto che al pubblico non puoi dare solo proteste e terremoti e bombe e omicidi».
«Lo so, ma l’alternativa non dovrebbe essere tra verità e favola».
«Benissimo».
«Voglio dire: ok, ora c’è questo birrificio in cui lavorano degli afghani, e questi lavorano duro, arricchendosi e arricchendo il paese; una storia meravigliosa: ma come si è arrivati a questo bel finale?».
«Ecco, il bel finale, è que–»
«Come si è passati dalla fifa reciproca al dialogo?».
«Charles, non stiamo andando a fare un documentario d’essai».
«Sì, ma–».
«Lo vedranno casalinghe e pensionati per lo più, gente che quando pensa all’Afghanistan pensa a un posto lontano vagamente situato tra Cina e Polonia in cui la gente non sa vivere civilmente, senza guerre e altri casini».
«Beh, noi invec–».
«Gente di un altro mondo, come dici tu, che invade il nostro mondo».
«…».
«E sai benissimo come si reagisce a un’invasione: odiando».
«Ok, ma–».
«Noi abbiamo la possibilità di dire a quelle casalinghe e a quei pensionati: No, smettetela di odiare».
«Eh?».
«Guardate cos’è successo in un villaggetto italiano: conviene a tutti amare!».
«Amare?».
«Amare, amare anche chi è diverso».
«Am…  ma–».
«Charles, possiamo rivoluzionare la percezione dello straniero, e non in quelle decine di radical-chic che affollano le rassegne di cortometraggi protoesistenzialisti rumeni pre-89, ma cominciando da quelle casalinghe e quei pensionati che più di chiunque altro determinano la sorte delle opinioni».
«Come ti pare Roland, sei tu la mente, io faccio il tecnico».
«Fidati di me: noi andiamo lì per dare un microfono a chi sta cambiando il mondo».
«Il mondo?».
«Sì è questo che stanno facendo a Cittareale. E oltre al sindaco chi sono i nostri protagonisti?».
«Ahmed, Husein, Arif, Wal–».
«Troppi nomi, il pubblico si perde. Chi è stato il primo ad arrivare?».
«Azhar è arrivato due anni fa, gli altri l’anno scorso».
«Perfetto, Azhar è il nostro eroe nero, il sindaco quello bianco. Medio oriente e occidente».
«…».
«E forse conviene cominciare con qualche vecchietto del posto che ci dice quanto sono simpatici gli afghani. Pierre, quanti chilometri mancano?».
«Eh… Quattrocento».
«Perfetto. Tra poco fermiamoci che devo pisciare. Charles, leggi l’ultima intervista e fammi un riassuntino scritto coi dati più importanti. Poi ci penso io».

***

Negli oltre due chilometri che lo separano dal lavoro, Azhar rievoca la partita di tressette di ieri sera. Incontrare Fabio per strada, da qualche mese, significava essere salutati con un ghigno e con un numero: 3, 7, 11, 16. Da ieri sera, quel ghigno e quelle vittorie di fila smetteranno di riproporsi agli abitanti di Cittareale: Azhar e Fabio sono stati battuti.
Il birrificio si avvicina. Azhar è tradito dal ricordo della prima volta in cui lo vide. E la seconda, anche, quando perdersi voleva dire sconfinare in Abruzzo. Il birrificio quasi ristagnava di tranquillità tra i monti del Velino, eppure il senso di una nuova avventura pronta a cominciare scuoteva l’aria limpida, popolandola di casi immaginari. Ora Azhar ha perso il conto di tutte le volte che ha preferito percorrere a piedi la strada provinciale.
Di solito è il primo o il secondo ad arrivare. Vedere tutti i suoi colleghi, quindi, lo sorprende, soprattutto perché se ne stanno lì immobili fuori dal birrificio. Si è dimenticato che questo è il giorno atteso in paese da tutti: glielo ricorda il van grigio che poltrisce di fianco allo stabile.
Azhar raggiunge il gruppo: «Allora, dove sono?», chiede a Whaleed.
«Dentro. Preparano il set».
«Il set? Vogliono fare un film?».
«Non hanno detto nulla. Solo che il protagonista sarai tu».
«Beh, se non c’ero io…», sorride.
«Ci hanno chiesto di aspettare fuori un’oretta. Devono mettere i microfoni e le luci».
«Gli avete offerto delle birre per colazione?».
«Una cassa. Se la portano in Francia».
Una voce si solleva dietro al gruppo e dice: «Speriamo ci arrivi, fino in Francia! Comunque, bravi, non deve essere stato facile ambientarvi in Italia». Quello di Charles è infatti un accento strano, forestiero. «Quindi complimenti a tutti, state facendo un gran lavoro!», continua, rivolgendosi equamente verso tutti: “Complimenti” verso Azhar, “a tutti” verso Arif, “state facendo” verso Ahmed, “un gran lavoro” verso Husein, “!” verso Whaleed. Gli afghani ringraziano sommessamente convogliando gli occhi sulle proprie scarpe come se fossero sporche.
Ahmed, Husein, Arif e Whaleed guardano silenziosi Azhar e Charles: il silenzio a breve sarà imbarazzo. Charles riprende: «Tu devi essere Azhar. Piacere, Charles».
Azhar gli infila la mano nella mano.
«Io sono il tecnico: allestisco il set, controllo che tutto fili liscio, monto i video nella speranza di ottenere un bel servizio da mandare in onda».
«Lo vedranno tanti?».
«Direi qualche milione, preoccupato?».
Un impulso comune galvanizza le pupille di Ahmed, Husein, Arif e Whaleed.
«Non ci conoscerà più solo Cittareale».
«No, però solo loro potranno godersi le vostre birre!».
«Ma non ci dispiacerebbe venderle anche a milioni di francesi…».
«Forse però vi servirebbe qualche nuovo dipendente».
«Tantissima gente verrebbe volentieri dall’Afghanistan. Chiamiamo tutti i parenti, la vendiamo a milioni di persone e…» a sentire volentieri Whaleed ha un sussulto interiore. Tanto interiore che Azhar non osa più continuare.
«Ma quali milioni di persone!», s’intromette Roland. «Non dovete trasformarvi in una multinazionale, imitando noi. Dovete mantenere il fascino dell’impresa locale. Siamo noi che dovremmo imitare il coraggio che vi fa produrre birra anche se non potete berla…».
Gli afghani ammutoliscono. Roland si avvicina ad Azhar, gli spara negli occhi uno sguardo da sicario e sorridendo gli dice: «Sei tu il nostro eroe».
Fatto inconsciamente un passo indietro, Azhar non risponde. E quello continua: «Il primo musulmano in un villaggio cristiano da millenni, il primo a imparare un mestiere proibito dal Corano per sopravvivere, il primo a spianare la strada ai suoi compatrioti!». Compiaciuto, chiede di pazientare ancora dieci minuti e va a recuperare le ultime attrezzature nel van.

Fuori dal birrificio sono tutti turbati. Anche Charles, che finge di ispezionare i microfoni. Whaleed guarda Azhar e tra gli sguardi corre un messaggio. Per non essere capiti dai non-afghani potrebbero parlare nella lingua dari ma Whaleed preferisce gli occhi, glaciali, minacciosi, più eloquenti di centomila parole.

***

Roland sembra un padre affettuoso che porta i figli al parco divertimenti: «Faremo una scena in cui fumate tutti insieme, vi abbiamo messo i narghilè laggiù…».
Ahmed, Husein, Arif, Azhar e Whaleed sembrano figli troppo cresciuti per divertirsi: immobili, imbronciati, stralunati.
«Poi vi mettete su quei tappeti a pregare… Da che parte è la Mecca? Perfetto, là».
Va quindi verso Azhar e dice agli altri: «Voi starete sullo sfondo a lavorare mentre io intervisterò Azhar».
Quelli, però, non reagiscono come figli trascurati, con uno smottamento dell’autostima e un moto d’invidia verso il prediletto. Guardano Azhar come un popolo domato dal potere e dalla miseria guarda un rivoluzionario: in attesa del gesto indisciplinato, in dubbio se imitarlo.
Roland chiede ad Azhar se è pronto. Azhar sa di trovare la risposta negli occhi dei compagni. Un’occhiata, troppo silenzio. Il presentatore attende qualche secondo e poi chiama il cameraman: «Pierre, vieni, qua ci siamo».
Pierre si avvicina e interrompe la chiacchierata visiva tra Azhar e i compagni. Azhar lo guarda prima in faccia, poi tra le mani che reggono la telecamera – telecamere kabul cosasono america cosasono missili aiutoahh fuoco registranoilcoloredelfuoco
Charles porta il microfono –  microfono kabul registrailrumoredelfuoco – e lo cede a Roland.
Nooo nooo sièmorto nooo nadir nadir nadiiir
«Bene, ora lavorate, fate finta che la telecamera – non registrano ilcaloredelfuoco –  non c’è. Senti, Azhar, pensavo di chiederti quando sei partito –  non ti posso portare sei pazzo così muori – e perché e come sei – se faccio un incidente e cadi dall’asse del camion non ti vengo a prendere – arrivato… Ok?».
Nessuna risposta.
non registrano il sapore del fuoco sulla lingua sui capelli
«Poi spiegherò che – sulle unghie negli occhi – fate la  birra anche se è vietata – allah ha maledetto il vino, chi lo beve, chi lo serve, chi lo vende, chi lo compra, chi lo produce, colui per il – e tu potresti dire che vi è proibito di berla ma non di produrla, ok?».
Nessuna risposta.
registrano il colore del fuoco non il calore non il sapore del
«Cominciamo?».
Azhar vorrebbe girarsi verso gli altri, ma sa come lo guarderebbero.
«Sì».

***

Passa da una camera all’altra, Charles. Controlla continuamente le luci, alla ricerca spasmodica di qualche imperfezione. Quando la trova se ne compiace, sposta di impercettibili gradi l’obiettivo, stempera di un niente l’illuminazione. Nasconde nell’ossessione del dettaglio quel contenuto che per tanti anni ha tentato di inseguire negli occhi.
Eppure il contenuto ritorna proprio negli occhi che vorrebbe chiudere,  negli sguardi che ingloba, filtra e separa come le trebbie in fondo alle cisterne del birrificio. Rimane l’amaro.

***

Ossigena, ammosta, regola la temperatura, pulisci le cisterne, scarica il grano e macinalo con cura, ogni tanto una pausa però, girati verso la Mecca e prega: nel nome di Dio, il Misericordioso, il Compassionevole…
Movimenti seriali e calcolati, metti la griglia, immergila, muovila in verticale, alto e basso, prepara il bollitore, travasa tutto, disinfetta, purifica, ogni tanto rifiata però, inginocchiati sul tappeto e prega: Te noi adoriamo, a Te chiediamo aiuto. Guidaci sulla retta via…

***

Il primo piano è tutto per Azhar, che parla, si confessa, prova a raccontarsi, anche se le sue labbra sono quelle di un automa: boccheggiano per spinta inerziale parole vuote, sintagmi pilotati. Sullo sfondo i compagni fanno la birra e, a intervalli regolari, rifiatano appoggiati alle cisterne. I tappeti sembrano ricoprirsi di polvere ogni volta che uno sguardo, per caso, li intercetta.
«Non prego di fronte a quelle telecamere, non sono un buffone» sbotta tra i denti Whaleed, allontanandosi dal set.
«Ehi ehi ehi, dove vai?», lo riprende Roland distogliendo per un attimo l’attenzione da Azhar.
«A fare una pausa, vado anch’io», replica Ahmed.
«Siamo d’accordo, pausa per tutti allora e poi finiamo con le ultime riprese!», concede Roland.
Fuori, Whaleed e Ahmed si allontano di una ventina di metri. Azhar vede Husein e Arif raggiungerli. Si dimena per capire, per muoversi, ma quando Roland gli è vicino, si scopre immobile. Roland non aspetta un cenno d’intesa per cominciare il suo monologo: «È proprio vero che solo l’Italia sa offrirti queste sensazioni! Nemmeno in Francia si respira questa pace. Figuriamoci in Afghanistan! L’aria, i monti, il cielo di un azzurro… sono le cose semplici che ti fanno dimenticare un po’ la famiglia e la distanza, no?».
Venti metri più in là, gli occhi non si perdono nel paesaggio ma in altri occhi. Otto pupille sillabano tanti perché: perché lo fa perché lo facciamo perché lo fa perché lo facciamo perché lo fanno perché lo fa perché lo f
«Ma la natura, per quanto importante, da sola non basta. Ci vuole anche… una visione, qualcosa che la valorizzi, un’idea… E qui, Azhar, te lo devo proprio dire, qui avete un sindaco che ha saputo valorizzare questo posto e ha saputo valorizzare te…».
perché perché lo facciamo perché lo fa perché lo fa pe
«L’abbiamo intervistato prima».
perché lo fanno perché lo fa perché perché perché lo fa
«All’inizio volevamo riprendervi insieme, ma poi abbiamo pensato che era meglio mettere ognuno nel proprio habitat, dove lavora».
Whaleed nutre di sillabe sonore le sillabe visive: «Non bastava rischiare così tanto? Pure i pagliacci?».
Nessuna risposta, solo il dilatarsi delle pupille.
«Lo sapete tutti quanti rischi corriamo. Qualcuno sa dirmi perché non rispediamo quei francesi in Francia?».
Ahmed e Arif non trovano la forza per aprire la bocca. Husein invece sì: «Non esagerare. Nessuno in Afghanistan guarda la tv francese».
«Husein, non mi prendere per il culo, lo so anch’io che nessun afghano guarda la tv francese in Afghanistan. Ma in Francia?».
«Pensi che Azhar rischierebbe così? È come un fratello, per me».
«Anche i fratelli uccidono i fratelli. Anche i figli uccidono i ge–».
«Smettila!», prova a zittirlo Arif.
«Smettetela voi. Azhar è impazzito! Volete dargli la corda con cui impiccare le nostre famiglie?».
«Se il servizio ha successo, non escluderei qualcosa di più grande, magari un documentario…».
«Io non ci sto, me ne vado. Fate quello che volete», conclude Whaleed. Invece di prendere il sentiero verso casa, seguito dagli occhi di Ahmed, Husein e Arif, torna davanti al birrificio, davanti ad Azhar.
«Svegliati!», gli dice. E le pupille chiosano: ti prego.

***

Si spengono i fari, si chiudono gli obiettivi, si smontano i microfoni, si sgombera il set: fine delle riprese.
Roland si aggira soddisfatto anche se uno è scappato durante le riprese senza dire nulla. Pazienza risolviamo col montaggio
«Bene, signori, è stato un vero piacere e dobbiamo ringraziarvi per la vostra disponibilità. Un ringraziamento speciale però va ad Azhar, il vostro pioniere».
Applausi, ma timidi. Strette di mano, ma incerte.
Il van è riempito da Charles e da Pierre, Azhar è abbracciato da Roland, e il sentiero è calpestato dalle scarpe di Ahmed, Husein e Harif.

***

WHALEED

Non voglio restare un altro anno qui. Volevo essere come Azhar, prima. Ha imparato un’altra lingua per farsi capire dagli italiani. Ha imparato un lavoro che non potrebbe neanche fare. E così io. Ma non voglio essere come Azhar, adesso. Ricordati, Whaleed: fermati un passo prima. Un passo prima di disconoscere gli occhi dei tuoi compagni. Quelli che come te sono fuggiti da casa. Avete visto le stesse fiamme, lo stesso sangue. Le stesse case consumate lentamente dagli spari, o cancellate in un secondo da un missile. Vi deve bastare uno sguardo, Whaleed. Il dolore, la morte, gli urli, è tutto nei vostri occhi. È tutto quello che siete. Con Azhar gli sguardi non bastano più. Non so più chi è. Forse non lo sa neanche lui. Ricordati, Whaleed: fermati un passo prima. Un passo prima di dimenticarti chi sei.

50, 80, 100, e oltre: a questa velocità la sua testa sarebbe irriconoscibile tra le ruote di un Tir, quello del suo ingresso clandestino in Italia. Ma questa volta sono io a guidare.
Quando Fabio grida: «Gajardo l’inseguimento!», Azhar può fermare un attimo il tempo che sbanda, rimettere in ordine gli eventi che incalzano: la Panda presa d’assalto, le portiere sbattute in rapida successione, i trafficanti di Herat, metà gomma lasciata a terra per la partenza brusca. Gli occhi temperati dall’insistenza che li fissa all’orizzonte, in cerca del van, dell’Iran, sopportano male i continui sballottamenti. Eppure ho fatto di peggio.
«Tira dritto fino a quando te lo dico io, poi svolteremo a destra per una stradaccia che taglia i valloni» dice Fabio: la risposta di Azhar è un piede incollato all’acceleratore. La macchina fila in discesa, divora l’asfalto, rincula sui tornanti scortati dalla corona d’ombra degli alberi. Così veloce sarei morto. Più veloce, questa volta devo andare più veloce, più veloce di me. Così veloce li avrei ammazzati, Whaleed, Husein. Così veloce li salvo, questa volta. Fabio, i piedi puntati sul cruscotto, salda le mani al sedile quando la svolta annunciata si palesa, poi urla: «Rallenta arabo! È qua, subito a destra!».
Azhar pigia sul freno, scala la marcia e sterza bruscamente il volante. Il pandino slitta sulle ruote posteriori ma la doppia coppia motrice lo tiene ancorato alla strada. La via sterrata lo accoglie ancora integro.
«La strada, Fabio! Dimmi la strada!» replica Azhar, occhi sgranati sulla prospettiva che fugge ai lati del parabrezza. Ora che la strada posso vederla dal lato di chi guida. Ora che davanti agli occhi non vibra il nero di un motore.
«Vai dritto di qua, tagliamo tutta la valle e poi, quando c’è il fiume, ti dico!», dispone il copilota.
«Il fiume?» inorridisce Azhar.
«Sì sì il fiume, tranquillo che lo so io dove si passa», lo rassicura Fabio.
«Mi fido? Se sbagli finiamo in acqua!», rimbrotta lui cercando di tener saldo il volante che gli vibra tra le mani. Non finiremo in acqua, lo so. Abbiamo pagato bene. Solo il mare ci può tradire. Solo il mare da Patrasso a Bari. Il minuscolo mare. Qualcuno, prima di salire a bordo, cantava una canzone sull’Adriatico. Nella lingua dari, uno dei miei. Cantava che l’Adriatico è come una donna.
«Del proprio compagno di carte ci si fida sempre, arabo! Tu pensa a schiacciare che te li faccio riacciuffare io quei francesi!».
All’orizzonte il fiume si stende lungo e trasversale come una linea di frontiera.
«Là a sinistra! Sul quel ponte!» urla Fabio con l’indice puntato verso un ponticello di legno.
«Ma regge?» gli fa eco Azhar allarmato.
«Regge dieci vacche!».
«Guarda che se non regge…».
«Vaiii!».
La macchina fende l’ultimo tratto di strada sterrata e prontamente deviata assale il ponte tra gli scongiuri di chi guida e l’esaltazione di chi gli sta accanto. La passerella legnosa scricchiola sotto il carico dell’automobile. Per l’intero tragitto sostiene al di qua della caduta l’impressione di finire nel fiume.
Ha retto! specula Azhar in un misto di ammirazione e sollievo. Magari un giorno gli spiego anche che non sono arabo.
«Sei grande Fabio! E adesso?».
«Adesso siamo a valle, accorciamo ancora per i campi e li riprendiamo sulla provinciale» risponde il ragazzo, per una volta fiero di non aver mai abbandonato la provincia.
Ora che la strada è meno accidentata, Fabio toglie i piedi dal cruscotto e stende le gambe, mentre Azhar può rifiatare, infilare la quinta e proseguire a tavoletta. Come una donna. Che ti dice sì con gli occhi, e nel frattempo si allontana.

***

La macchina affronta senza tregua le rustiche vie che costeggiano e incrociano i campi.
Ad un tratto Fabio si accovaccia sul sedile e sussurra al pilota: «io qui mi abbasso che non devo esistere, tu prosegui dritto fino all’incrocio e poi gira a sinistra, dove sta svoltando anche quel trattore laggiù».
«Perché devi sparire?» lo interroga Azhar.
«Questo qua è il campo dei miei. Se mi vedono in macchina con te che sfrecci come un matto e pure arabo, mi corcano».
«Va bene, ricevuto. Allora giro là e poi quanto manca?».
«Poi ti trovi davanti a un sottopasso, ti ci infili e sei sulla provinciale», risponde Fabio affossato nello spazio cavernoso davanti al sedile. 50X70. Qualcuno l’ha fatto in un trolley. Nemmeno lo spazio per un kurta. Venti centimetri più indietro e una mina ti faceva saltare in aria. Venti centimetri e una pietra ti apriva il cranio.
«Da lì dovremmo riuscire a incrociarli prima che imboccano la super-strada», continua il giovane copilota.
Azhar segue le indicazioni con perizia assoluta, ripete la svolta del trattore ormai vicino, si immerge nel sottopasso e, uscito di lì, si trova sulla strada provinciale.
Bastano pochi attimi a far strabuzzare gli occhi del pilota: «Il van! Lo vedi anche tu? Laggiù!». E il piede affonda l’acceleratore a oltranza, quasi volesse conficcarlo nell’asfalto.
«Lo vedo lo vedo! Te l’ho detto che li prendevamo!».
Il pandino procede a tutta birra e ormai a separarlo dalla preda sono solo poche centinaia di metri.
Ci siamo, ancora un pelo e mi riprendo quello che mi spetta, comincia a rimuginare Azhar con gli occhi che divorano la carreggiata, la mia immagine, senza accorgersi dell’ostacolo che gli si para davanti, la loro fiducia e
«Frena Azhar! Frenaaa!», grida Fabio con le mani spianate in avanti come a volersi riparare da una valanga imminente.
Il sussulto di Azhar nel vedere il gregge di pecore è fulmineo e sconquassante.
Con le orbite spalancate a vulcano e le braccia tese sul volante schiaccia il pedale del freno e prova a scalare quante più marce possibile nel breve tratto, ormai brevissimo, che separa i due dalla catastrofe.
Le gomme del pandino fanno tanto attrito da autografare la strada con due lumaconi nerissimi. A un paio di metri dagli ovini, la macchina riesce a inchiodarsi.
Dopo un lungo sospiro e un istante di immobilismo scultoreo Azhar si rivolge a Fabio: «Tutto bene?».
«C’è mancato poco, arabo, ma sto bene».
Mentre si controllano a vicenda di non avere nulla di rotto, sopraggiunge il pastore. Il bastone stretto nella mano, l’aria ostile di chi è pronto a vibrare il colpo.
«Aspetta ci parlo, è Agostino, lo conosco, abbaia ma non morde», dice Fabio mentre è già sceso dal veicolo e va incontro al minaccioso contendente.

I due si incontrano e cominciano ad urlarsi addosso, attorniati dalle pecore. Nelle rispettive dimensioni di Davide e Golia, sembrano un quadretto biblico. Dopo un ultimo sguardo intimidatorio in direzione di Azhar, il pastore sgombra il gregge dalla carreggiata e Fabio si affretta verso il pandino. «Oh! Rimetti in moto che li raggiungiamo!», intima.
Il pandino ancora non si muove. Le parole di Azhar si stagliano pesanti come montagne, i suoi occhi si perdono all’orizzonte, verso la preda che non c’è più: «Niente da fare, abbiamo bucato, tutte e due le ruote davanti».
«Cavolo …», anche Fabio ora esala rassegnazione. Il suo entusiasmo si affloscia come le gomme dell’auto.
«Non importa ragazzo, sei stato bravo, abbiamo provato e ce l’avevamo quasi fatta. Grazie comunque. Chiamo un carroattrezzi per la macchina ora», conclude Azhar.

***

«Torniamocene a casa».
«Sì, a casa. Sono seimila chilometri. Ma guidi tu».
«Non è possibile!».
«Hai ragione, bisogna prendere anche una nave. Almeno una».
«Cosa hai capito? A casa, qui, a Cittareale, non in Arabia!».
«Te lo ripeto. Sono seimila chilometri. Se non vuoi guidare puoi metterti sotto l’asse di un camion. All’ultimo momento però, perché controllano».
«Tu sei matto. Non pensare di aver fatto seimila chilometri con una panda, in mezz’ora!».
«Con una panda non lo so, ma con una nave e un camion ci vogliono almeno sei mesi. Se non ti respingono da Patrasso».
«Patrasso? E dov’è? In provincia di Viterbo non ci sono mai stato».
Azhar rinuncia a spiegare. Azhar, pensa. È il mio nome. È una vasta piazza musulmana che riunisce il nome della sua gente. Hazara.
Per raggiungere le città, i villaggi, le campagne, i paesi, i continenti dove gli hazara sono esiliati, un muezzin dovrebbe salire sul minareto più alto del mondo, spostare lo sguardo in ogni direzione e richiamare i fedeli con un acutissimo grido mentale. Per raggiungere anche chi ha legato il proprio corpo al penultimo asse di un camion. O all’ultimo, con una preghiera.

***

Roland e Pierre cantano Tombe la neige come fosse l’inno nazionale, con una stonatura d’entusiasmo. Pierre guida il van ed esibisce le dita in un tip tap sulla pista dura del volante. Il van incede lungo l’autostrada producendo un rumore talmente libertino che gli altri automobilisti, nel riquadro dello specchietto, si aspettano di trovare alle spalle un Volkswagen T1 iper-colorato.
Charles ha finito di montare il video e ha messo a caricare i file sul programma che gli permetterà di mandarli in onda. Chiavette e dispositivi sono ancora collegati ai pc che li hanno lavorati. Ora è seduto accanto a Roland che lo sprona ad unirsi al karaoke di “fine missione”. È in questi momenti che Charles ringrazia i moralisti francesi per avergli fornito una quantità considerevole di motti sull’accettazione dei difetti umani.
Al contrario suo, Pierre si fa coinvolgere dall’entusiasmo festaiolo, alza sempre più il volume. Nonostante il repertorio si concentri sugli episodi più drammatici del cantatautorato francese anni Sessanta, Roland e Pierre fischiettano con quanto fiato hanno in gola, si scambiano sguardi complici e assistono senza fare nulla allo scontro tra una notevole buca al centro della carreggiata e il loro van.
Tutto l’interno ne è scosso. Un sobbalzo breve e deciso, insignificante ai sensi di chi si trastulla, ma decisivo perché il ripiano che supporta la cassa di birre ceda, rovini in basso e con un tonfo prima sordo e poi fragoroso di vetri che vanno in pezzi si arresta sugli strumenti più delicati della troupe.
La birra ora esce furiosa dalle gabbie cilindriche, come liquido animale rimasto in cattività per troppo tempo. Dimentica in un attimo il contatto umano che voleva addomesticarla, recupera la sua forza selvaggia, si avventa su tutto ciò che trova di istintivamente ostile al suo essere naturale.
Tra le intercapedini della tastiera e nei circuiti, sulle bocche d’aria e fin dentro lo schermo che ha subìto breccia dai suoi fratelli di vetro, la birra percorre tutte le tratte clandestine a sua disposizione.
Nel van, soltanto un disco che si incaglia per qualche secondo. Roland e Pierre sono costretti ad allungare ad libitum la “e” di Monsieur.
«Mais il est tarde Monsieur», ignari del servizio che va in fumo, accompagnano Jacques Brel verso uno sconsolato e raggiante finale.
Cantano tutti tranne uno. Il sussulto del van ha agitato un sospetto in Charles. Si volta e in un paio di secondi riceve conferma: davanti agli occhi, lo spettacolo idro-tecnico messo in scena dalla birra sui circuiti consuma colpi irreparabili.
Il primo istinto è di urlare e intervenire. Charles si trattiene dal farlo soltanto per un attimo. Il tempo di sorridere, trovare la tonalità giusta e cantare a squarciagola: Il faut qu’ je rentre chez moi, bisogna che torni a casa.

***

 

 

Gli autori di questo scritto ringraziano il professor Pezzarossa, Wu Ming2 e i compagni del laboratorio di scrittura, senza i cui preziosi suggerimenti e corrispondenze sarebbe stato tutto più noioso e meno stimolante.

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