Immagini di una melodia – Linda K. Gaarder

Immagini di una melodia

Quella sera c’erano dei punti luminosi dall’altro lato del fiordo; si diceva che era il fiordo più a nord del mondo, fuori da tutto. Le barche stavano tutte ballando come piume di legno nell’acqua e un vento fresco suscitava in lei una molteplicità di impressioni. Poteva respirare e ascoltare gli urli distanti dei gabbiani confusi, cercando qualcosa di non definito. In quel preciso momento in cui teneva il tempo nelle sue mani bianche, tutto quello che c’era di fronte a lei era il fiordo ricoperto da un bliss così inebriante e fuggevole che anche le vecchie donne l’avevano notato. Queste barche, che per tutta la vita erano state navigate da uomini con le rughe profonde scavate dal sole e dal sale e con gli occhi che brillavano di nient’altro che onde. Il bliss finì, il momento era passato e il rumore della città si stava avvicinando sempre di più.

Si infilò le scarpe con le mani, lasciandosi il molo dietro la schiena, camminando nel ritmo dei tacchi verso il centro della città. Era quasi la mezzanotte di un sabato sera e tutti erano per le strade. Urlavano e si dondolavano da un lato all’altro tenendo tra le mani le bottiglie di alcol e una sete che non finiva mai. Lei guardò l’ora e cominciò a correre, era già tre minuti in ritardo. Finalmente arrivò di fronte ad un edificio grigio, grande ed insignificante; se non fosse stato per tutta la gente fuori e la musica si sarebbe potuto oltrepassare senza problemi e mai rivolgergli un pensiero. Si fermò; le tre amiche avevano le facce talmente dipinte che la pelle non si poteva più vedere, erano come bambole con capelli biondi messi perfettamente in ordine. La presero sotto braccio – andarono insieme dentro ad un bar. Bevvero insieme tutti i cocktail, parlarono con altre persone, il rumore sparì.

Lei sta camminando nel bosco, la terra è umida dopo la pioggia della sera prima, si possono ancora vedere alcune gocce nel muschio verde. È l’autunno, la sua faccia è decorata dalle cascate; un’abbondanza di frutta matura, di mirtilli, bacche di rovo, funghi e foglie colorate. Solo gli abeti mantengono il loro abito; lei si siede sulle radici di uno di essi. Non si sente nessun uomo, nessuna voce, nessun’auto, nessuna creazione umana – solo linee pure della natura. Adesso guarda un alce che sta passando e che va lento tra gli alberi sapendo bene di essere il re del bosco, nonostante sia vittima degli uomini. Un fucile emerge dietro la macchia d’erica e fa un clic, l’alce emette l’ultimo grido e cade.

Ballarono senza seguire il ritmo della musica, alta, dura, intensa e dotata di un’insignificanza senza controllo. Le bambole di porcellana e lei. Si usava il linguaggio del corpo; poco dopo cominciava la caccia fra donna e uomo sulla pista da ballo. Lei si spostò fuori dall’edificio grigio,  nelle mani bianche teneva una sigaretta e nel fumo di tabacco c’erano soltanto delle chiacchiere fra visi ambigui. Con le stesse voci ambigue ci si scambiava i numeri del telefono. Le dita sulla tastiera sapevano già che questa piccola azione rappresentava il primo passo per parlare con uno sconosciuto, e forse incontrarlo in futuro. La sera continuò finchè le bottiglie non ebbero più effetto e tutti tornarono a casa, cadendo in un sonno che copriva tutti quegli eventi ambigui che erano volati un po’ nell’aria senza aver dato una percezione precisa della serata appena trascorsa. 

Nella metropolitana il giorno dopo c’erano almeno cento persone insieme nella stessa carrozza e nessuno parlava. Solo la donna nel microfono con la voce di chi sembrava aver fumato troppo.
«Neste stasjon er Majorstuen…»
Tra il sibilo elettrico, una luce fosforescente e una voce che quasi nessuno in verità ascoltava, c’era un’aria pesante perchè tutti la respiravano, erano come pesci in scatola, tutta questa gente messa insieme. Si potevano solo vedere i movimenti della donna che sfogliava la pagina del suo libro, un uomo che faceva un cenno con la testa ascoltando la canzone nell’i-pod, poi il cane che stava scodinzolando al suo padrone. Il resto della folla aveva lo sguardo vuoto di fronte a sè.
«Neste stasjon er Kringsjå…»
Lei stava leggendo la pubblicità al muro sulle novità di qualche abbonamento del telefono. Sotto il  cartello c’era un ragazzo con un sorriso diverso dagli altri, aveva capelli diversi dagli altri, scuri e ricci e mani marroni incadescenti dal caldo. Gli occhi parlavano di una vita in un posto sconosciuto, forse di un paese più a sud. Lui la guarda, per un attimo dividono qualcosa nell’aria, forse un pensiero; un desiderio di parlare. Però lei volge il suo sguardo al pavimento, la connessione è interrotta. I pochi movimenti della donna con il libro e la coda del cane continuavano e l’unico suono che si sentiva era sempre la stessa voce, lo stesso annuncio delle fermate che si stavano passando:
«Neste stasjon er Sognsvann…»
Fuori dalla finestra non c’era più il buio del tunnel, neanche gli edifici ed i grattacieli. Insieme nella carrozza avevano passato tutto il centro della capitale, dopo venticinque minuti precisi potevano vedere solo alberi e montagne. Sembrava quasi uno dei quadri dipinti dagli artisti romantici dell’Ottocento: cielo blu con poche nuvole e dovunque foglie tutte colorate delle cascate dell’autunno, sempre con le montagne sullo sfondo. La carrozza rallentò la velocità, stava per fermarsi. Lei si alzò, camminò verso la porta, un ultimo momento guardò il ragazzo. Lui alzò la voce ricevendo lo sguardo fisso di lei sui suoi capelli ricci e sugli occhi scuri. La guardò intensamente e chiese:

«Dov’è la musica di questa gente?»

Senza parole e comprensione per questa domanda, si girò e in un attimo sentì il suo sguardo nella schiena. Le parole dello straniero avevano toccato qualcosa dentro di lei che non poteva proprio definire.

Da quando era piccola pensava che gli uomini portassero un palloncino intorno alla testa, di diversi colori, diverse forme. Dentro c’erano i pensieri, i sentimenti; quasi tutta la vita delle persone. Nelle strade si poteva vedere che la gente passava ognuno con il proprio palloncino. Nei paesi più sud dove il sole brillava e si sentiva rumore nelle strade, i palloncini si toccavano tra loro. Uno straniero con l’altro, i palloncini si sfioravano e scoppiavano. 

La porta si aprì, scese e bisbigliò tra sè e sè:

«non lo so».

La metropolitana partì, lei vide tutte le facce delle persone; stavano passando con i palloncini intorno alle loro teste. Nell’angolo dell’ultimo finestrino guardò di nuovo il sorriso diverso, e l’assenza di un palloncino intorno a quei capelli ricci. 

Il sibilo della metropolitana scomparì; lei seguiva il sentiero – uno di quelli circondati dalle brughiere e dalle macchie – la luce della giornata stava sparendo. Vide due scoiattoli che giocavano nelle corone degli abeti, nell’orizzonte c’era il tramonto incipiente. Si fermò e mise la mano su un tronco rugoso e alcuni coni caddero giù per terra. Tra le linee della natura e il respiro di lei –  l’unico suono umano presente – potè ascoltare la musica dell’aria fresca che si distendeva sopra il crepusculo del bosco; era come se cadessero le note dagli alberi, come se una canzone si sparpagliasse tra le loro foglie colorate, nelle gocce del muschio, tutto in un ritmo che seguiva i passi dell’alce, fino alle montagne sullo sfondo. 

 

 

 

 

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