Era nata femmina, la prima. Dio aveva, con la sua nascita, deciso di benedire per prima sua madre, donandole una figlia che lavrebbe aiutata nelle
faccende domestiche e nel crescere i fratelli. Avrebbe trasmesso, ai più
piccoli arrivati dopo di lei, ciò che apprendeva dai genitori, con grazia e
gentilezza, sarebbe stata contraddistinta da un comportamento responsabile e
moderato. Per ricordarle questo onorevole ma arduo compito, sua madre la chiamò
Turunesh, che vuol dire «sei buona», e Turunesh di buono aveva il cuore,
grande, accogliente, che però non andava d’accordo con la sua lingua tagliente
e un certo temperamento focoso che ogni tanto, dimprovviso, spuntava e se la
portava via. Del resto era già abbastanza che avesse un cuore meraviglioso,
perché quando un bambino riceve un nome con quel genere di richieste implicite,
il minimo che possa fare è essere il contrario di ciò che ci si aspetta.
Sin da piccola il suo temperamento si mise in mostra esibendosi in
picchi di selvatichezza che lasciavano perplessi gli abitanti del villaggio.
Nessuno pensò che fosse un difetto di educazione, in quanto la sua indole buona
e gentile le era compagna per la maggior parte del tempo. Ci si poteva
rivolgere a lei per qualsiasi aiuto, commisurato alle sue forze e alla sua età
e lei si mostrava sempre felice di rendersi utile, a parte i momenti in cui
spuntava il temperamento. Poteva essere una parola brusca a provocarlo, oppure un
rumore. Nessuno riusciva bene a identificare ciò che lo faceva scattare.
Gli anziani del villaggio cominciarono a studiarla, dissero che, per
certo, uno spirito albergava in lei. Bisognava scoprire di che tipo fosse e
come era entrato, per poterlo gestire ed eventualmente, se era uno spirito
nocivo, cacciarlo.
Il vecchio Jusef propose che la bambina e sua madre fossero trasferite
nella sua abitazione per il tempo necessario a smascherare l’intruso. La tenne
venti giorni nella sua capanna. Controllata in ogni minimo gesto. Il vecchio
Jusef studiava persino la sua mimica facciale durante il sonno, aspettando un
passo falso del nemico. Ma lo spirito non mostrò nessun segno che permettesse
il suo riconoscimento.
Non riuscendo ad acchiapparlo, gli anziani, pensarono di passare alle
varie ipotesi e pratiche per scacciare i possibili spiriti: forse Turunesh era
infastidita da una dikkhddrtnta.
Più o meno qualche anno dopo la sua nascita, un giorno Sara, una
giovane donna del villaggio, era tornata dal fiume urlando.
«Ci sono le dikkhddrtna! Ci
sono le dikkhddrtna al fiume».
Raccontò, concitata, che sul sentiero aveva trovato un braciere e una brocca in
cui bolliva del latte. «Ho chiesto: cè qualcuno? Non ho avuto risposta, ho
tolto la brocca dal fuoco affinché non si rovesciasse il latte. Ho atteso sotto
un albero
non si è fatto vedere nessuno». Le donne cominciarono a farsi il
segno della croce. «Sicuramente si sono nascoste dietro a qualche cespuglio,
loro non si mostrano a noi adulti, riescono a vederle solo i bambini». «Meno
male che hai tolto il loro latte dal fuoco. Se si fosse rovesciato sai quanti
dispetti avresti dovuto sopportare da quelle, nel futuro?».
«Forse», disse il vecchio Job alla madre di Turunesh, «proprio in quel
periodo, mentre andavi con tua figlia al fiume per il quotidiano rifornimento
d’acqua, avete incontrato una dikkhddrtna
che lha spaventata e attraverso lo spavento è entrata in lei».
«In tal caso servono le fumigazioni con l’incenso di chiesa», disse il
vecchio Jonas.
Turunesh fu costretta a passare ore in una stanza, nuda, a cavallo di
un braciere dove veniva bruciato l’incenso, con un cerchio di donne attorno che
recitavano i nomi dei santi.
Per un po il suo temperamento si quietò, e gli anziani respirarono
tranquilli!
La mattina si alzavano e come prima cosa, dopo i saluti, indicavano la
casa di Turunesh e poi il cielo: «Finalmente è finita la tempesta!». Scuotevano
il capo e un sorriso di soddisfazione si dipingeva sui loro volti.
Ma così come si era quietato, il temperamento, rispuntò.
Dunque non era un dikkhddrtna.
Qualcuno poteva averle lanciato addosso il malocchio. Ma chi? Di sicuro
non gente del villaggio, qualcuno di passaggio.
«Un Dancalo!».
«I carovanieri del sale!».
«Quelli! Fanno malocchi molto potenti che solo i Defterà sono in grado di sciogliere», disse preoccupato il vecchio
Job. «Per fortuna, ne abita uno nel villaggio del vecchio Zadik».
La portarono dallo studioso, il quale prima fece alcune preghiere poi
si rinchiuse in uno stato meditativo. Dopo qualche tempo sollevò il capo e
chiamò la bambina. Le guardò gli occhi, le unghie delle mani e dei piedi e
sentenziò: «Nessun segno di malocchio. Forse questa creatura ha un’Ukabè e il suo temperamento non è altro
che la trance provocata dallo spirito insoddisfatto».
«Già», dissero gli anziani, «che stupidi a non averci pensato prima».
«Vi ricordate Hailèghirma?».
«Oddio! Il suo Ukabè amava il
miele. Lo mandava in trance e cominciava a urlare: fatemi leccare il miele,
altrimenti lo torturo. Sua moglie aveva sempre il miele in casa». Qualcuno
ridendo aggiunse: «
E le formiche! Quasi bruciava la casa per cacciare le
formiche dal miele dell’Ukabè».
«Povero Hailèghirma!».
Avere un Ukabè non è un
bell’affare. Nessuno al villaggio considerò positiva l’ipotesi, anche davanti
alla possibilità di facili predizioni del futuro. Un Ukabè è, in ogni caso, uno spirito non positivo in quanto la sua
natura viziosa schiavizza il posseduto. Averlo in un villaggio non è
confortante, implica attenzione e impegno economico. Di solito ama il caffè,
tutti i giorni, cerimonia e incenso compresi. Vuole profumi. Odia la carne di
pecora e ama vestiti luccicanti, in tinta unita, rossi o verdi o blu.
Certo, un buon esorcista può liberare un corpo posseduto dall’Ukabè, ma è un lavoro lungo e tortuoso.
Aspettarono i segni che avrebbero confermato che il corpo della bimba
era stato scelto dall’Ukabè. Se il
temperamento non era altro che un momento di trance dovevano attendere un suo
manifestarsi, avvicinarla e chiedere all’Ukabè
cosa desiderava. E lui avrebbe parlato.
Ma così non fu! Al primo cenno di avvicinamento, durante uno dei suoi
momenti, Turunesh si fece ancora più agguerrita, e cominciò a scagliare, contro
i temerari, i coperchi di terracotta che trovava in giro per casa.
Dunque non era neppure un Ukabè.
Provarono trattamenti per ogni possibile spirito
senza risultato. Alla
fine decisero di consultare il prete. In altre occasioni sarebbe stato il primo
gesto di anziani saggi e coscienziosi, ma il loro villaggio era così distante
da quello del prete che il solo pensarci fiaccava le membra.
All’alba di una delle tante giornate di sole, gli anziani, caricarono
Turunesh e la madre su un mulo e partirono.
Partirono con solo dell’acqua nelle borracce di pelle di capra. Il cibo
sarebbe stato offerto loro nei villaggi che avrebbero attraversato strada
facendo. Dopo tre giorni di cammino giunsero al villaggio del prete.
Era un villaggio molto più grande del loro, quasi una cittadina, con
una strada centrale ai cui lati crescevano delle acacie dai fiori lilla, una
piazza, dove, una volta alla settimana, si svolgeva il mercato e alcune
botteghe. La piccola chiesa stava alla fine della strada. Furono accompagnati
da uno stuolo di bimbetti mezzi nudi, incuriositi nel vedere dei forestieri in
un giorno senza mercato.
Turunesh sapeva pregare.
Al suo villaggio lo facevano tutti, ogni mattina. Conosceva le regole
dei digiuni, i giorni dedicati ai diversi santi e le varie feste religiose
, ma
una chiesa, non l’aveva mai vista.
Era semplice, una struttura circolare, con i muri imbiancati a calce,
l’entrata per le donne a sinistra, per gli uomini a destra e nel centro la
porta da dove usciva ed entrava il Tabot
durante le cerimonie e le feste sacre. Lungo la cornice di legno, che ornava il
tetto di lamiera, sottili stecche di alluminio tintinnavano mosse dal vento.
Nel centro, sul tetto, una croce molto semplice. Dentro immagini dei Santi,
della Madonna, San Giorgio il protettore d’Etiopia e Gesù Sacro Cuore.
Turunesh guardava rapita. Quando il prete arrivò, chiamato da qualche
bambino, lei infilò la mano nella sua e alzando il viso disse: «E qui che abita
il signor Gesù, quello che prego ogni mattina!», conquistandosi subito il cuore
del prete.
«Come mai siete qui?», chiese il prete agli anziani.
«Temiamo che la piccola sia posseduta dal demonio
». e raccontarono la
storia di quella strana bambina. Certo, le prime parole che aveva sentito in
bocca a Turunesh facevano presupporre tuttaltro, ma la lunga esperienza gli
aveva insegnato che il maligno poteva camuffarsi sotto abiti morbidi e
insospettabili.
«Venite qua domani, allalba. Le faremo il bagno con l’Acqua Santa e
l’Olio Sacro e vedremo cosa succede».
All’alba, sull’altipiano, fa freddo. Un freddo che brucia la pelle.
Turunesh si sedette, nuda, sopra una panchetta di legno. Qualcuno versò
dell’acqua, fredda come il vento, in un secchiello di ferro. Il prete vi
immerse una croce di legno e, rimestando l’acqua, pregò. Poi versò qualche
goccia di Olio Sacro e alzò il secchiello per rovesciare l’acqua sulla bambina.
La madre di Turunesh chiuse gli occhi, tesa. Se davvero il diavolo
possedeva la sua primogenita, di lì a poco, sarebbe successo il finimondo.
Sentì lo scroscio dell’acqua e attese gli urli demoniaci
invece la vocina di
Turunesh pronunciò: «Nel Tuo Nome, di Colui che hai Creato e dello Spirito
Santo». Quando aprì gli occhi la sua bimba sorrideva e si ciucciava l’acqua che
le colava sul viso dalle ciocche di capelli».
«Macché demonio», disse il prete. «Questa bambina è stata fatta così da
Dio! E se Dio l’ha fatta così avrà i suoi buoni motivi».
Gli anziani, Turunesh e sua madre tornarono al villaggio.
Da quel giorno la comunità accettò il suo temperamento. Quando Turunesh
aggrottava la fronte e le arcate sopraccigliari si avvicinavano formando quella
brutta V, tutti avevano imparato che bisognava celermente spostarsi dal suo
campo visivo. Persino le galline scappavano, starnazzando e svolazzando senza
meta nei prati a fianco alle case. La terra, percossa da tanti piedi e zampe,
sbuffava, sollevando strati di polvere e terriccio.
A chi, nei campi, dimentico, chiedeva: «Che succede?», qualcuno,
alzando le spalle, rispondeva «Turunesh
! L’avranno fatta arrabbiare». Dopo un
tempo lungo e sospeso, in cui la gente passava davanti alla sua casa in punta
di piedi, lei usciva! I pugni appoggiati ai fianchi e lo sguardo di sotto in su
e tornava la normalità.
Passarono gli anni e lei crebbe, divenne una ragazza veloce nei lavori
e nellapprendere le tradizioni. Nonostante il suo temperamento e la sua lingua
tagliente molti giovani mandavano gli anziani a chiederla in sposa.
«Conosce bene le tradizioni
si, ha quel difettino, ma in compenso è
una gran lavoratrice», dicevano di lei i giovani.
Lavoratrice
difettino
! L’animo di Turunesh scoppiava davanti a quelle
parole e i pretendenti venivano spazzati via come foglie secche spostate dal
vento. Senza fatica, al primo soffio.
Sua madre cominciava a dare segni di sconsolante preoccupazione
quella
figlia, a chi avrebbe detto si?
Ma nella vita tutto ha una soluzione e Dio aveva previsto quella giusta
anche per Turunesh.
Un giorno, al villaggio, arrivò una famiglia numerosa, rumorosa e
allegra: madre, padre, sette figlie e cinque figli. Ci misero un po ad
amalgamarsi al villaggio. Pur avendo legato con tutti, venivano considerati «i
nuovi», e si sa, in un villaggio solito, dove nulla cambia, ma tutto cresce
lentamente, trovarsi all’improvviso una nuova famiglia in seno è come
svegliarsi una mattina e vedere un grande sicomoro in una radura fino al giorno
prima deserta. Negli anni a venire il sicomoro diventerà a tutti gli effetti un
albero del villaggio, ma un albero strano, con una storia particolare che lo
distinguerà sempre dagli altri e sul quale nasceranno tanti aneddoti. Così era
anche per quella famiglia. Una famiglia strana, speciale, di buon auspicio per
il villaggio, in quanto discendeva dalla stirpe di Teklaimanot. «E poi», bisbigliava la gente, «era stata benedetta da
Dio». Uno dei figli era diventato eremita in seguito alla visione della Madonna
e se ne era andato in meditazione nella foresta.
Le ragazze della famiglia legarono con Turunesh e presero l’abitudine
di scendere assieme al fiume, per il quotidiano rifornimento d’acqua. Anche i
maschi, a modo loro, legarono con lei. Uno, in particolare: Hailè.
Spuntava sempre quando lei faticava a issarsi sulla schiena la brocca
piena d’acqua oppure quando doveva spostare i sacchi di tief. Spuntava con quell’aria di uccello che mette in mostra le sue
piume più belle.
Mai Hailè, guardando Turunesh, si accorse di quanto fosse veloce nei
lavori
!
Lei aveva quella fossetta sulla guancia destra, quando sorrideva. Si
passava con delicatezza la mano sul collo, era soave e profumava di spezie.
Dalla scollatura delle sue vesti fiorate si intravedeva un seno succoso e il
suo fondoschiena ben si adattava a sgabelli molto concavi.
Qualcuno aveva notato il percorso degli occhi di Hailè quando Turunesh
appariva allorizzonte. Gli anziani sperarono che potesse essere lui luomo al
quale avrebbe detto sì, anche se
Anche se Hailè non aveva mai assistito al
«temperamento».
Quell’anno, il giorno tre del mese di Puagmè non piovve abbastanza. Le goccioline striminzite furono
appena sufficienti per macchiare lo strato di polvere che ricopre la terra
quando è secca.
Solo un acquazzone di pochi minuti.
Giusto il tempo di uscire fuori, inumidirsi la pelle, sistemare i
catini e aveva smesso. Gli abitanti guardarono il cielo interdetti. Il sole era
riapparso e se ne stava appeso al cielo, sciogliendo inferocito le poche nuvole
che tentavano di oscurarlo.
«Brutto affare !», dissero gli anziani.
Nessuno mangiò il nufrò
bollito durante la notte e il villaggio stette in silenzio.
Puagmè è il mese di cinque giorni che chiude l’anno di tredici mesi del
calendario Etiope. Il terzo giorno è il giorno dell’Arcangelo Raffaele, il
messaggero della Madonna e dello spirito della terra. Custodisce i raccolti e
le donne incinte, e l’acqua piovana raccolta nel suo giorno pulisce il corpo e
l’anima da qualsiasi macchia ed è di aiuto nei parti. Quel giorno piove sempre
e la gente se ne sta allegramente sotto il tamburellare dellacqua. Cè chi
prepara le sedie e gli sgabelli per un vero e proprio salotto nella pioggia. Le
donne, sedute, si raccontano fatti e storie come se fossero attorno al braciere
di casa, i bambini fanno pupazzetti di fango e, per l’intero giorno, ci si ciba
solo di nufrò bollito.
L’acqua dell’Arcangelo Raffaele lava lanno trascorso. Da lì a tre
giorni, necessari alla rinascita, si festeggerà l’anno nuovo e nel nuovo anno
bisogna entrare puliti.
Se quel giorno non piove vuol dire che la terra, nellanno entrante,
non darà un buon raccolto, le donne già incinta avranno doglie molto dolorose e
poche gravidanze intraprese durante l’anno avranno buon esito.
E così fu. La terra rigettò i semi e ritrasse la sua linfa rendendo
inaccessibile lo strato morbido dove si radicano le tenere piantine di tief. Come se non bastasse, le giovani
rimaste incinta quellanno non portarono a termine le gravidanze. Le nuove
anime promesse al villaggio se ne andarono con il sangue. La terra si riprese
quel poco che si era formato e le nuove anime tornarono alla loro dimora
celeste, sperando di poter rintraprendere il viaggio da lì a poco.
Solo una donna, protetta da non si sa quale santo, riuscì a tenere
nascosto il suo bambino allira della terra e dei cieli e condurlo sano e salvo
fino al parto. Si trattava di Sennait, la sorella piccola di Hailè.
Le donne del villaggio la accudirono come se il grembo in cui fioriva
quella nuova creatura fosse il loro. Ogni mattina qualcuno le massaggiava e
lavava i piedi, preparava il pranzo per lei e il marito, curava l’orto e le
galline.
Sennait passò la gravidanza allombra del vecchio sicomoro vicino al
fiume, lalbero dove da decenni i contadini tenevano il loro consiglio.
Era sempre allietata dalla brezza e dalle melodia dei racconti delle
donne anziane, che cercavano di rinforzare con il ritmo delle parole la
struttura fisica sua e del nascituro.
Quando arrivò il momento del parto, le donne del villaggio si
mobilitarono. Lunica nascita dellanno meritava unattenzione particolare.
Il parto fu lungo e difficile. Sennait passò ore tra i dolori. Le fu
data da bere tutta lacqua di San Raffaele che le anziane erano riuscite a
racimolare recandosi nei villaggi vicini, ma le doglie continuarono impietose
per più di trenta ore.
La testa del bambino spuntò che già brillava il sole del secondo
giorno. Finalmente Sennait urlò e spinse per lultima volta e i due corpi si
separarono. Prese immediatamente in braccio la sua creatura. Lessenza della
vita forte e piena scorreva nelle sue vene. Il bimbo urlò, un vagito di
presentazione che zittì il villaggio. I buoi che aravano i campi si fermarono e
gli anziani subito capirono che era nato un capo.
Come si sa, il fiore che riesce a germogliare in un campo secco è
sempre il più bello e il più forte.
Gli fu dato nome Michael, dall’Arcangelo Michele, il pacificatore,
affinché la capacità di pacificare gli animi fosse la sua qualità più evidente,
qualità indispensabile per essere un buon capo.
Dopo quaranta giorni esatti, come esige la tradizione Cristiana Copta,
Michael fu battezzato.
La mattina si annunciò nel trambusto. Uomini, donne, bambini e animali
da cortile facevano la spola tra il villaggio e il fiume.
Il vecchio sicomoro abbassò le fronde incuriosito.
Mosob e sgabelli stavano
allineati sotto ai suoi rami, aromi di sughi permeavano laria e un mastello di
metallo, usato come fonte battesimale, troneggiava sopra due cavalletti di
fortuna.
Quello era proprio uno strano anno!
Per decenni, sul suolo protetto dalla sua ombra, avevano posato i piedi
solo i contadini facenti parte del consiglio degli anziani, e ora, in un solo
anno, assisteva a due eccezioni di non poco conto. Prima, per mesi, lodore dei
corpi di donne, un odore fino ad allora sconosciuto, si era sparso tra i suoi
rami.
Poggiate contro il suo tronco possente avevano raccontato storie
cullate dal rumore dellacqua del fiume che in quel punto scorre placida e
ipnotica. Le loro risate avevano mosso le sue foglie e attirato i mangiatori di
api che svolazzavano stupiti dalla novità.
Aveva visto la pancia di Sennait crescere giorno dopo giorno e ora il
bambino nato dal suo grembo veniva battezzato sotto la sua ombra sacra.
Certo, da buon vecchio saggio, lui sapeva che le tradizioni nascono da
motivi pratici e spirituali e non sono fini a se stesse. Quindi se esistono i
presupposti possono subire eccezioni e modifiche, e in quellanno senza
raccolto, quella nascita era un evento straordinario e prezioso al punto da
creare le condizioni per una temporanea modifica della tradizione. Però questa
consapevolezza non affievoliva il senso di confusione e di disorientamento che
gli procurava quella faccenda.
Il movimento di gente durò per qualche
ora. Quando ogni cosa e ogni persona trovarono collocamento, arrivarono il
prete, Sennait e Michael.
La gente, disposta in semicerchio, li avvolse.
Al cospetto dellintera comunità il prete chiese a Sennait: «A chi dai
questo bambino? Chi sarà la sua madrina?». «Kidane Meheret», rispose
Sennait.
Un’immagine di Kidane Mehert
fu posta accanto al bambino e il prete iniziò la liturgia.
Tutto procedeva secondo i ritmi e modi stabiliti.
I bambini giocavano, le galline becchettavano gironzolando tra i piedi
dei presenti, gli adulti e il prete intonavano i canti.
Fu nel momento in cui il prete sollevò Michael al cielo per poi
immergerlo nella fonte battesimale che Turunesh si scatenò in tutta la sua
possanza.
Qualcuno, accanto a lei, disse qualcosa e dopo alcuni secondi succedeva
un pandemonio: nuvole di polvere, cocci, pentole rovesciate, sughi che
scorrevano sulla terra, animali che scappavano, urla dei bambini.
Sennait strappò Michael dalle mani del prete e si mise al riparo. La
gente si sparpagliò nei campi. Solo il prete rimase immobile cercando di capire
cosa fosse quellinferno. Quando la polvere tornò a sedimentarsi e i cocci
smisero di volare, la gente si riavvicinò allalbero.
Il prete era ancora fermo, nella stessa posizione. Solo dalla sua
tonaca nera imbiancata dalla polvere e nei suoi occhi allucinati si leggeva ciò
che era successo. Turunesh, con uno sguardo ancora agguerrito e i pugni chiusi
appoggiati sui fianchi, scrutava attorno. Davanti a lei Hailè. Nessuno se lo
sarebbe mai immaginato! La sua reazione allo scatenarsi di Turunesh aveva
dellincredibile. Estasiato, la guardava, continuando a ripetere, «Come sei
bella! Come sei bella!», l’aria persa, da innamorato. Un uomo che, tra la
moltitudine di donne, ha riconosciuto la sposa promessagli dai cieli.
Turunesh era cresciuta con quell’arduo compito. Non aveva potuto essere
se stessa, aveva dovuto essere solo buona.
La vena selvatica, che vive in ciascuno di noi, le era rimasta sepolta
nellanimo, soffocata dalle aspettative della madre e non aveva trovato uno
sbocco naturale. Le esplosioni del temperamento ne erano state le conseguenze.
Ora, per la prima volta da quando era nata, qualcuno le diceva «sei
bella» invece di «sei buona». Aveva accolto e ammirato il suo temperamento
facendosene infiammare invece che cercare di aggiustarlo. Con quelle semplici
parole Hailè la liberava dall’incantesimo.
I loro occhi si incontrarono e il viso della giovane si aprì in un
sorriso invitante: «Grazie, anche tu sei bello».
Gli anziani gioirono in silenzio: «Guarda! Guarda! Il mortaio ha
trovato il suo pestello!».
La cerimonia riprese da dove era stata interrotta, in unapparente
normalità, anche se la gente, invece di seguire il prete nei canti, prese a
sbirciare maliziosamente i due ragazzi.
Non poteva attendere, la passione gli aveva incendiato l’animo e quella
sera stessa, quando i colori della notte cominciarono ad allungarsi sul
villaggio, Hailè mandò gli anziani a chiedere la mano di Turunesh.
Due settimane dopo Turunesh e Hailè mischiavano il loro sangue,
diventavano uno nello spirito e nel corpo, davanti agli uomini e Dio. Marito e
moglie.
Turunesh e Hailè, come si conviene a una coppia benedetta da Dio,
ebbero figli: per esser più precisi, nove figli.
Per evitare, un giorno, di dover combattere contro qualche strano
temperamento e per riparare al danno subito con quel nome carico di
aspettative, Turunesh, appoggiata da Hailè, chiamò il suo primo figlio
Shiferraw cioè «mille hanno paura di lui».
Del suo temperamento non si sentì più parlare. Tranne quella volta,
tanti anni dopo, nel quartiere Afinciò Berr di Addis Abeba.
Parte II
Si erano trasferiti ad Addis Abeba durante un lungo periodo di siccità
che aveva mietuto buona parte della gente del villaggio.
Nonostante la differenza di ritmi e abitudini, si ambientarono
velocemente. Molti dicevano che la loro strada era lastricata dalle benedizioni
dei loro anziani, che quelle benedizione li precedevano, pianificando ogni
difficoltà.
Vivevano ad Afinciò Berr, il quartiere dei i tessitori di cotone, dove
al tramonto il rosso del cielo si trasferisce sulle matasse bianche, appena
filate, appese ai muri esterni delle case.
Accanto a loro lo zio di Hailè che, oltre alla casa, aveva procurato al
nipote un lavoro degno: operaio a cottimo presso il Ministero degli
interni/risorse idriche/rete di Addis Abeba. Solo il nome era sufficiente a
riempirlo dimportanza.
Turunesh aveva stretto amicizia con le cugine e la zia di Hailè e un
numero imprecisato di vicine.
Per contribuire alleconomia domestica aveva imparato da Haimanot, una
donna silenziosa, alta ed esile come un giunco, a filare e tessere il cotone;
farne gabi, bulukko, nezelà da
vendere, la mattina, al mercato di Shirò Meda.
All’inizio avevano affittato una casa grande quanto un guscio duovo.
Una sola stanza, dove a malapena, la sera, riuscivano a trovare lo spazio per
sdraiarsi tutti, due lamiere in croce per tetto e un piccolo pezzo di terreno,
per la gioia di Turunesh. Vi aveva fatto germogliare i semi delle verdure ed
erbe curative portate dal villaggio.
Quando, con il tempo, cominciarono a raccogliere i frutti della loro intraprendenza,
affittarono una casa quasi grande, due stanze, cucina, bagno, un bel giardino e
terreno per le erbe di Turunesh.
Purtroppo, a fianco, abitava una tal Witzerò Zem Zem, che aveva delle
pecore, le quali, la mattina, nel loro pellegrinaggio in cerca di cibo,
finivano sempre per calpestare e smangiucchiare le erbe di Turunesh, con suo
grande patimento.
Le discussioni tra le due erano continue. Turunesh accudiva alle sue
piante come fossero persone. Della vita del villaggio, oltre i ricordi, tutto ciò
che le era rimasto era il sapore di quelle verdure e le proprietà curative
delle sue erbe, con le quali scacciava i mali di mezzo quartiere.
Per mettere fine alla continua invasione del gregge indisciplinato,
fece costruire un recinto attorno alla casa, lasciando visibile solo la
facciata anteriore.
Nel quartiere viveva una donna di nome Hlfnesh, che significa «sei una
moltitudine», come dicevano molti, una moltitudine di spiriti cattivi. Vestiva
sempre a lutto. Le erano morti due mariti.
Le sue labbra serrate, in cui non scorreva sangue, erano nere come le
sue vesti. Essere colpita dalla sua invidia significava assaporare il veleno
della sua lingua. Era temuta e osannata come fosse un dittatore.
Hlfnesh, dal primo giorno, aveva provato astio verso Turunesh. La
infastidiva la sua intraprendenza e quel cuore generoso e accogliente che
l’aveva resa tanto popolare nel quartiere. La fiducia che le donne riponevano
nelle sue erbe curative e nei suoi consigli era, per lei, fonte di dolore. Una
fitta costante che aspettava di essere placata con la vendetta.
Aspettò anni per trovare un punto in cui colpire e ora era arrivato il
momento!
«Quella!», disse alle sue fedeli amiche durante un caffè. «Chi si crede
di essere!». Serrò ancor di più le labbra in una smorfia di disprezzo: «Mi
ricordo quando passava con la sua fila di marmocchi e andava a vendere a Shirò
Meda. Era talmente povera che non portava neanche le mutande e i suoi bambini
giravano scalzi. Ha messo insieme quattro soldi e ha cominciato a riempirsi di
altezzosità!». Fece una pausa per sottolineare il fatto. «Si è costruita un
recinto attorno alla casa in modo da separare la sua ricchezza dalla nostra
povertà»; e ancora: «Se è diventata tanto ricca da non sopportare di vederci,
perché non va a vivere a Bole, nel quartiere dei bianchi!».
Le sue amiche fecero il resto. Cominciarono a spargere veleno.
Le parole su Turunesh, che uscivano dalle loro bocche, odoravano di
marcio come i gas delle cose putrefatte. Era lodore dei loro pensieri che
usciva dalla bocca invece che dal fondoschiena. Misero in giro tante
chiacchiere cattive, riuscendo a istillare il dubbio sul buon animo di Turunesh
in parecchie persone.
A causa di Hlfnesh, Turunesh subì la sorte più temuta da un Etiopico:
essere silenziosamente allontanato dalla comunità.
Non riusciva a capirne il motivo. La gente si mostrava distante, la
salutava a malapena. Neppure le sue erbe, un tempo tanto richieste,
riscontravano linteresse del vicinato.
Ci doveva pur essere qualcosa che avesse provocato una tal reazione.
Torturò Haimanot e le cugine finché le loro parole non si versarono sul
fuoco del caffè, come un sacchetto di ceci secchi che viene rovesciato, con lo
stesso rumore. «Però non dire niente, se no quella piglia di mira anche noi».
La rabbia la invase. Doveva tenere le redini alla sua bellicosità, non
mettere in pericolo Haimanot e le cugine ma nello stesso tempo impartire una
lezione a quella.
Appena Haimanot e le cugine se ne andarono si recò dal vicino. Da poco
la sua cagna aveva avuto una cucciolata. Prese un cucciolo e tornò a casa.
La sera raccontò ad Hailè «
e ho preso un cane da Atò Gebrè». Hailè la
guardò senza capire «Eh
quindi?».
«Gli darò nome Bttr Kennù», che significa hanno invidia di me perché mi
do da fare, «e urlerò il suo nome ogni volta che Hlfnesh passerà davanti alla
nostra casa».
«Turunesh! Sii superiore! Non metterti sul suo stesso piano. Ti faccio
una proposta, chiamalo Semtò Me Cial, che significa avere la pazienza e la
forza di ascoltare. Lei capirà lo stesso!».
«No! Io voglio farle la guerra! Sul suo stesso piano! Bttr Kennù!».
«Ti prego, sii buona».
Il vecchio temperamento, a quelle parole, si risollevò, riemerse dalle
profondità della terra.
Turunesh corrugò la fronte, le arcate sopraccigliari si avvicinarono a
formare la V.
Era tanto bella. Hailè si ricordò di quel giorno, sotto al sicomoro. La
passione gli fece un guizzo nelle vene.
«Va bene! Va bene! Vada per Bttr Kennù!».
Quella notte la rete del loro letto cigolò a lungo.
Nella stanza accanto, i figli, fecero finta di non sentire.
La mattina Turunesh si mise di vedetta alla finestra. Appena scorse
Hlfnesh in lontananza, uscì nel giardino e cominciò a chiamare «Btter Kennù!
Bttr Kennù!».
Hlfinesh si fermò. Pietrificata dentro. Nessuna parola uscì dalla sua
bocca. Solo l’indice della mano fendeva l’aria avanti e indietro, in segno di
minaccia. Voltò sprezzante il viso dalla parte opposta rispetto alla casa di
Turunesh e barcollante per lattacco proseguì la sua strada.
«Bttr Kennù! Bttr Kennù!», Turunesh continuava, ogni giorno.
La moltitudine di spiriti che nutrivano la sua cattiveria si
spaventarono davanti alla forza di Turunesh e smisero di suggerirle parole.
«Bttr Kennù! Bttr Kennù!». Hlfnesh
divenne lo zimbello del quartiere.
La gente ridacchiava quando lei passava. I bambini le correvano dietro,
dispettosi. Anche loro urlavano «Bttr Kennù! Bttr Kennù!». La sua lingua non
faceva più paura a nessuno.
Stette qualche tempo in casa, ma non era possibile nascondersi per
sempre.
Una sera, sfinita dall’isolamento, si recò dagli anziani del quartiere,
a chiedere aiuto. «Fatemi fare pace con quella donna!», pregò.
Turunesh, come si sa, aveva un cuore buono e accogliente.
«Accetto le sue scuse e ritiro il mio attacco, per il bene del
quartiere e affinché la pace si ristabilisca!».
Gli anziani tornarono a casa con una Hlfnesh sollevata e dimessa.
Quella stessa notte Bttr Kennù scomparve per sempre, assieme al
temperamento di Turunesh.
Alcuni raccontarono di aver
visto gli angeli, quella notte. Erano venuti a riprendersi il cane.
Cominciarono a dire che Bttr Kennù non era proprio un cane. Era un aiuto
mandato dal cielo. Un sostegno per Turunesh. L’unica in grado di separare la
lingua di Hlfnesh dal veleno della moltitudine di spiriti maligni.
In seguito, su quel cane, nacquero tante storie.
Dedicato a quegli uomini che
sanno accogliere i temperamenti di certe donne.
Da: Anime in Viaggio
autori vari
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