Nell’estate
del 1998 trascorsi tre settimane di vacanze alle Seychelles. Tornai
perfettamente abbronzato. Mesi dopo, era ormai Natale, la mia pelle non
decolorava; anzi, sembrava scurirsi ancora ogni giorno di più. Gli amici del
cenone di Capodanno non mi risparmiarono nessuna delle barzellette sulle
lampade solari. Credo che fu nel febbraio del 1999 che mi feci radere la testa
come una palla da biliardo; il mio parrucchiere sosteneva che era un rimedio
infallibile per il disordine dei miei capelli, che erano diventati
disperatamente ricci. Il risultato non fu quello sperato. I capelli tornarono a
crescere in una massa di piccoli riccioli stretti, e per giunta di un colore
nero ebano.

Il
mio mutato aspetto fisico ebbe delle conseguenze insperate sul piano sessuale.
Mi trovai al centro di un nuovo interesse da parte del genere femminile, dalla
mia ragazza alle compagne di lavoro, amiche e complete sconosciute. I miei
amici di allora davano per certo che io mi fossi sottoposto a un trattamento di
bellezza ancora sconosciuto. Diversi conoscenti mi chiesero il numero di
telefono del mio estetista, e presero a male la risposta che dovetti dare loro.

Quel
periodo d’esaltazione della mia vanità fu troppo breve. Ad aprile ebbi una
forte congiuntivite, della quale uscii con gli occhi di un intenso colore nero.
Fu come un clic nella mia vita, la goccia che squilibrò un’invisibile bilancia:
tutti cominciarono a guardarmi preoccupati. La mia ragazza e i miei amici più
vicini mi chiesero di abbandonare il trattamento estetico. Giurai e assicurai
che non c’era, e fu peggio perché corse la voce che ero vittima di una strana
malattia tropicale. Quasi tutti si allontanarono da me per paura del contagio.

Come
per confermare le voci, a maggio ebbi una specie di forte influenza, nel corso
della quale la faccia mi si gonfiò fino a rendermi irriconoscibile. Quando mi
sentii meglio e sparì la febbre mi guardai incredulo allo specchio: il gonfiore
era sparito, ma la mia faccia non era più la stessa. Il naso era diventato più
largo e meno puntuto, le labbra erano più carnose e piene, le ossa degli zigomi
si erano leggermente spostate. L’immagine riflessa non era la mia, ma quella di
un giovane maschio africano.

«So
che sei malato», disse la mia ragazza, «ma io non posso fare niente per
aiutarti. Chi lo sa se hai qualcosa di genetico, una di quelle malattie che si
trasmettono ai figli. Io non voglio figli mulatti. È meglio se non ci vediamo
per un po’ di tempo, mentre ti fai esaminare da uno specialista.» Non la vidi
più, né rispose mai alle mie telefonate e ai miei messaggini. Andai da tre
specialisti diversi, che mi trovarono in perfetta salute. Due di loro risero
fino alle lacrime quando dissi loro che un anno prima avevo i capelli castano
chiaro, gli occhi azzurri, la pelle e l’aspetto tipici dell’italiano padano. Il
terzo mi raccomandò uno psichiatra.

Ad
aprile, prima ancora degli ultimi eventi che ho narrato, mi era arrivata la
lettera che mi comunicava che ero stato escluso dalla Ronda Padana, e che la
mia iscrizione alla Lega era sospesa finché la mia salute migliorasse. Il
responsabile locale delle due istituzioni è Giorgio, il mio più caro amico
dagli anni del Liceo. Alle mie proteste rispose che i vicini non avrebbero
gradito la presenza di un nero armato di un grosso bastone nella squadra che
doveva difendere loro dagli immigrati.

Durante
il mese di maggio, come ho detto prima, ero stato malato, e dunque assente dal
lavoro. Tornai i primi di giugno. Mi sono comportato come al solito; sono
entrato, ho fatto un saluto distratto intorno e mi sono seduto di fronte al mio
computer. Un’ora dopo arrivò il capo, parlò brevemente con alcuni colleghi, e
venne dritto verso di me. Senza dire una parola esaminò il programmino in ci plus plus nel quale stavo lavorando.
Annuì soddisfatto con la testa e disse secco: «Chi è lei». «Sono Giampiero
Bianchi», risposi. «Bianchi è malato», rispose, «e non mi sembra un bello
scherzo tentare di farsi passare per lui. Se voleva lavorare, e se come sembra
sa farlo, poteva parlare direttamente con me. Si presenti con le sue carte e
forse l’assumo. Mi serve gente che programmi in ci plus plus».

«Guardi
che nei miei documenti…», balbettai. «Clandestino, ho capito. Non si preoccupi,
se quello è il suo problema, posso pagarla ad ore, in nero». E aggiunse ridendo
sotto i baffi: «Senza alludere al suo colore, ovviamente». Andava via quando
disse: «Non so cosa le avrà detto il Bianchi, ma non pretenderà che io la paghi
come un regolare…».

Due
giorni dopo il mio cambiamento di status lavorativo venne all’attacco il
padrone della casa che affittavo. «Non so che rapporto ha lei con Bianchi»,
disse, «ma non può continuare a vivere nel suo appartamento. Questo è un
palazzo signorile, i vicini protestano, e il valore della proprietà cade».
«Questo è troppo!», risposi io, «Sono Bianchi, e posso dimostrarlo con i miei
documenti». Non si prese la briga di guardarli, e fu meglio così perché nessuno
poteva riconoscermi dalle foto. «Non m’importa proprio niente chi lei sia»,
sbraitò, «qui non voglio negri, ed è meglio che sloggi con le buone prima di
domani mattina, perché se no se ne pentirà. Ho dei buoni amici in Questura».

Chiamai
un’azienda di traslochi, e lasciai i miei mobili nel loro magazzino. Quella notte
mi coricai in macchina, e mi svegliai tutto indolenzito. Il giorno successivo
chiesi un permesso nel lavoro e feci il giro delle agenzie immobiliari. Tutte
risposero al telefono che avevano diversi appartamenti in affitto, e tutte
riuscirono miracolosamente ad affittarli ad altri prima che io potessi arrivare
nei loro uffici di persona.

Nella
porta dell’ennesima agenzia trovai un congolese tanto abbattuto quanto me.
«Niente casa, fratello?», mi chiese. Qualche mese prima l’avrei guardato con
disprezzo senza neanche rispondergli. Ma anch’io cominciavo a capire qualcosa
dei colori. «Niente», risposi; «questi hanno appartamenti solo al telefono…».
«… Se non dici di che colore sei», completò lui ridendo.

«Da
dove vieni?», mi chiese. «Non mi crederai, sono italiano». «Ti credo, so che ci
sono italiani di pelle nera, e che non la passano troppo bene. Ma se hai un
cognome italiano puoi fare una procura a qualcuno, che affitti per te. Quando
appari fisicamente non possono fare più niente, tranne cercare di sfrattarti
con qualche pretesto».

Il
mio nuovo amico aveva un nome impronunciabile in italiano, mi spiegò, ragione
per la quale si faceva chiamare Tom. Aveva una faccia onesta, e io dovevo pur
parlare con qualcuno. Gli raccontai tutta la mia storia. «Brutto affare», mi
disse quando ebbi finito. «Non puoi dimostrare chi sei, quindi non puoi usare i
tuoi documenti. Anche se ti affittano… come fai a firmare il contratto. E se ti
prende un poliziotto sei perduto, crederanno che sei un clandestino e che i
documenti italiani li hai rubati».

Vieni
a dormire da me, e domani ci verrà qualche idea. Sono andato da lui, in un
rudere in aperta campagna che condivideva con altri otto immigrati, tutti
lavoratori. Mi hanno fatto posto al loro tavolo, abbiamo mangiato e poi abbiamo
parlato e riso un po’. Ero sorpreso, parlavano di calcio, di donne, del lavoro
e di quel che si vede in tivù, né più né meno che i miei vecchi amici leghisti.
Inserivano qua e là nella conversazione delle parole in dialetto. Se uno non
faceva caso alla pronuncia, questi sembravano giovani padani.

Mi
spiego, io ero leghista, ma non è che mi bevessi tutta la propaganda sugli
immigrati, sapevo che erano delle persone normali e non dei diavoli. Quel che
mi sorprendeva era la loro mancanza di diversità: non c’erano strani rituali,
né sottintesi tribali, né grottesche abitudini. Sognavano le stesse automobili,
usavano gli stessi telefonini, e scarpe, e giubbotti, e stereo. Si svagavano
nelle stesse discoteche, con le stesse musiche e le stesse ragazze.

La
differenza si riduceva all’aspetto fisico (che io ormai condividevo) e alla
minore padronanza della lingua, caratteristica quest’ultima destinata a sparire
con il tempo. Sembravano semmai più maturi della media degli italiani della
stessa età, sapevano qualche lingua in più, e avevano un pochino più di mondo;
ma niente di sorprendente. Per il resto si comportavano come avrebbe fatto
chiunque.

Alcuni
erano musulmani, altri protestanti o cattolici. Ma la cosa aveva un’importanza
tanto scarsa nella vita quotidiana che mi fece capire quanto poco contasse la
religione nella nostra vita sociale. Le diversità alimentari non potevano
sorprendere chi aveva amici vegetariani, patiti di fast food, tradizionalisti,
amanti del sushi, anoressici.

Voglio
dire, non è che non fossero diversi, è che la loro diversità dagli italiani non
era maggiore della diversità tra gli italiani, o tra gli immigrati. La
multiculturalità, che come leghista avversavo, non era in loro, era
dappertutto, era nel nostro mondo.

Il
mattino successivo, prima di andare al lavoro, riparlai con Tom del mio
problema, «Prima di tutto», mi disse, «devi tentare di dimostrare la tua
identità. Trovati un buon avvocato, ti serviranno testimoni, la tua ragazza,
gli amici, la tua famiglia. Fatti fare un certificato medico, che ne so io. Poi
ne riparliamo».

Andai
a vedere un avvocato che conoscevo dalla Lega, e fu un disastro. «Lei è amico
di Giampiero?», mi chiese sorpreso. «No, sono Giampiero, lascia che ti
spieghi», risposi io. L’avvocato schiacciò tre volte un campanello sotto la sua
scrivania, e mi disse: «Ormai la mia segretaria ha chiamato la polizia. Vi
consiglio di allontanarvi subito». Finii per consultare un avvocato del
sindacato, io che odiavo la triplice.

Spataro,
l’avvocato sindacale, trovò la mia storia molto divertente. Io gli chiesi
subito se mi credeva. «Noi hai capito», mi rispose, «La verità e la giustizia
non sono affari di avvocati, forse non sono roba di semplici mortali. Non ha
importanza se ti credo o no. Io ti difenderò, se ci riesco, con le leggi che ci
sono e con la mia esperienza che non è poca. Il resto non conta niente».

Con
i testimoni feci cilecca quasi subito. La mia ex-ragazza continuava a non
rispondermi. Spataro riuscì a parlare con lei, ma la sua risposta fu
sconvolgente. Si rifiutò di dichiarare alcunché in Tribunale. Minacciata da
citazione coercitiva, rispose che era meglio che non ci provassimo, perché lei
avrebbe dichiarato che non sapeva se era vera o no la storia della malattia, e
che da quanto poteva vedere io ero una persona diversa.

I
miei ex-amici risposero che non potevano affermare sotto giuramento che non ci
fosse stato un cambiamento di persona in alcun momento. A quel punto mi decisi
ad andare da mia madre, coltivatrice diretta in proprio dopo la morte di papà.
Fu qualcosa di penoso. Si mise a gridare dalla porta di casa che era tipico di
Giampiero inviare un extracomunitario a parlare a nome suo, invece di visitare
di persona la madre, come ogni buon figlio dovrebbe fare regolarmente. Ho
capito allora che l’istinto materno è una balla.

Io
non avevo precedenti, e dunque non mi avevano mai preso le impronte digitali.
La mia dentatura è sempre stata perfetta. Rimaneva solo l’esame grafologico;
Spataro, prudentemente, volle farlo fare prima in forma privata da un esperto qualificato.
Serviva un testo manoscritto da me in precedenza, la cui data e identità dello
scrivente potessero essere provate legalmente. Spataro trovò una lettera
inviata da me al Ministero delle Finanze quattro anni prima. Io lavoro al
computer, e non faccio quasi mai lettere manoscritte, meno ancora se sono
dirette a istanze ufficiali. Il risultato della prova fu negativo. Forse in
quattro anni la mia grafia si era modificata; forse la mia malattia aveva
lievemente alterato la forma della mia mano e delle mia dita.

Spataro
non fece una piega. «Signor Bianchi», mi disse, «non so ancora se lei è un
italiano molto sfortunato o un immigrato clandestino che tenta un’insolita
tecnica per farsi legalizzare. Nell’uno e nell’altro caso devo dirle la stessa
cosa: non ho modo di dimostrare la sua identità. Non ha testimoni, non ha
certificato medico, non ha prova grafologica. Dovrà farsi una ragione».

Tom
e gli altri ragazzi mi abbracciarono molto solidali, tranne Ahmed che mi disse
in faccia che io ero forse un clandestino un po’ tocco che tentava di fare il
furbo, immediatamente zittito dagli altri. L’uscita di Ahmed, che era un po’
brillo e che poi mi chiese scusa al suo solito modo («deve essere vero quel che
dici, farsi passare per un italiano per avere la cittadinanza con la faccia che
hai o è vero o dimostra che sei pazzo come un cavallo, altro che un po’ tocco»)
fece venire un’idea sensazionale a Tom.

«Senti,
e se ti comporti fino in fondo come se tu fossi un clandestino senza nessun
documento?». «E che dovrei fare, darmi alla macchia?», risposi io. «Ma no, che
dici, hai un lavoro, qualche soldo in banca, e noi che ti siamo amici. Puoi
comprarti un’identità». In banca avevo una trentina di milioni; tardai quasi
tre mesi in prosciugare il conto con il Bancomat. La macchina l’abbandonai, e
bruciai i documenti di Bianchi.

I
ragazzi trovarono un immigrato ecuadoriano che tornava in patria. Anche in
Ecuador, sulla costa del Pacifico, ci sono persone di pelle nera. Comprai il
suo passaporto, permesso di soggiorno, tesserino fiscale, libretto di lavoro e
perfino la patente per cinque milioni. Da allora sono Serafino González, nato a
Esmeraldas, Ecuador, figlio di don Anastasio González, pescatore, e di doña
Hermenegilda Biche, i due di pura razza afroamericana. Feci un corso di
spagnolo nell’Associazione Italia-Cuba, e d’allora viaggiai almeno una volta
all’anno in Colombia, per fare pratica e anche per piacere. Ovviamente evito
l’Ecuador, dove vive il vero Serafino, al quale sarò sempre riconoscente.

La
mia vita qui nella Padania ha preso un ritmo soddisfacente. Ho comprato una
nuova macchina, con il mio «vero» nome. Sono riuscito ad affittare a un prezzo
scandalosamente alto un appartamento con i tre immigrati più amici, incluso
ovviamente l’astuto Tom. Ho confessato la «verità» al mio datore di lavoro, e
lui mi ha assunto in regola. «Sei meglio del Bianchi», mi disse; «in azienda mi
serve gente come te, che lavora sodo e non ha grilli per la testa. Certo che
non ti farei sposare mia figlia, ma tanto è brutta e di cattivo carattere, a te
non piacerebbe». Qualche giorno dopo lo vidi nella manifestazione contro la
costruzione della Moschea. Ma tutti abbiamo dei temi sui quali non siamo di
accordo con noi stessi.

M’includo,
certamente. Sono ancora di idee leghiste, penso che la Padania dovrebbe essere
indipendente, che quelli giù ci succhiano il sangue. Ma anche se potessi non
voterei Lega; il razzismo e la xenofobia mi sembrano ormai delle stupide
scorciatoie. Gli stranieri sono una risorsa, opporsi a loro è rifiutare la produttività
e la ricchezza che fanno della Padania quel che è. Avere una piccola patria
piena di vecchi e con le fabbriche chiuse per mancanza di operai mi sembra da
fessi. Comunque ho chiuso con la politica. Adesso lavoro, vado in discoteca con
i miei nuovi amici, mi sono iscritto come fuoricorso all’Università, e torno
tutti gli anni in Colombia. A Cali ho conosciuto una ragazza dolce come
nessuna. Forse finisce che mi sposo e faccio il ricongiungimento familiare, da
buon extracomunitario quale sono.

Ieri
ho letto sul giornale che le Seychelles sono tornate di moda, e che
quest’estate sono andati là il segretario di partito **, gli onorevoli **,** e
**, i sindaci ** e **, i famosi giornalisti ** e ** e il politologo **. La
notizia mi ha provocato un’allegria selvaggia. Vuoi vedere che il virus del
colore colpisce ancora?

Da: Anime in Viaggio
autori vari

© Edizioni Eks&Tra 2002
e-mail: redazione@eksetra.net www.eksetra.net


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