Era un giorno strano, diverso degli altri, con poca luce. Mi trovavo a Bergamo per accompagnare un sociologo africano che doveva tenere una lezione all’università di quella città. Ero preoccupato, perché dovevo scrivere la presentazione di un libro e fra un contrattempo e l’altro non riuscivo mai a trovare un momento per farlo. D’altra parte ero anche onorato di accompagnare un personaggio così importante: si chiama Kawniido, ha circa sessant’anni e un passato molto significativo. Nel suo Paese ha lottato contro l’analfabetismo e per la diffusione della lingua della sua etnia; ma questa è diventata lotta contro il potere, a un punto tale che è stato condannato all’ergastolo con un mandato di arresto internazionale. Ha subito anche delle aggressioni da parte della polizia, ha perso l’udito per colpa delle percosse ricevute, ma non si è arreso e ha continuato la sua battaglia. Dalla Francia, dove si trovava da qualche mese per farsi curare, era
arrivato a Bergamo il giorno prima appositamente per la lezione all’università.
Eravamo in Aula magna con una trentina di
studenti, Kawniido era molto elegante con un grande boubou a disegni e un
cappello ricamato tipico del suo Paese. Voleva che gli studenti filmassero la
lezione per portarla come testimonianza in Africa, peccato solo che non ci
fosse nessuno in grado di farlo. Il tema era «Lingua e nazione» e i ragazzi
erano molto attenti, prendevano appunti senza togliere lo sguardo da Kawniido,
che riusciva a farsi capire anche da chi non sapeva una parola di francese.
Alla traduzione provvedevo io formulando per scritto al sociologo le domande
che via via gli venivano poste. Una lezione di livello alto, in cui sono uscite
riflessioni sull’importanza della lingua, sul concetto di nazione, perfino sui
rapporti di parentela fra la civiltà egiziana e quella negroafricana.
Dopo la lezione ho accompagnato Kawniido a
Vicenza e ho preso il treno per Milano. Ero convinto che non lo avrei più rivisto
per un po’ di tempo e dovevo prepararmi a ricevere un ospite che (come ero
stato avvisato) mi aspettava a casa da quattro giorni. Per un senegalese, più
persone conoscono il suo numero di telefono, più avrà ospiti a casa.
Invece ho rivisto il sociologo solo due
giorni dopo, quando mi è stato chiesto di andarlo a prendere alla stazione
centrale per non fargli perdere la coincidenza per Parigi.
Dunque eccomi alle otto e cinquanta al
binario tredici in attesa di vederlo comparire. Di Kawniido neanche l’ombra. Mi
sposto dal marciapiede dove aspettavo il treno da Vicenza al binario dove è in
attesa il TGV per Parigi, ma neanche lo vedo. Vedo solo il treno di un bel
verdegiallo che si muove e esce dalla stazione come un serpente che sguscia
fuori dal suo buco. Sono molto preoccupato perché non so come mettermi in
contatto con il mio amico, ma per fortuna sento la voce acuta di Kawniido che
mi chiama. Mi giro e vedo che si sbraccia per salutarmi. Quando mi avvicino si
scusa e spiega che ha preso il treno dopo, così anche la partenza per Parigi
sarà ritardata al pomeriggio.
Carichiamo tutte le borse su un carrello e
ci dirigiamo al deposito bagagli, zeppo di persone che vanno e vengono,
parlando tutte le lingue. Ci sono anche squadre di poliziotti che si guardano
attorno in cerca di personaggi sospetti. Kawniido mi fa domande su tutta quella
animazione e la gente attorno viene richiamata sia dalla nostra lingua pulaar,
sia dalla sua voce sempre alta e acuta, e soprattutto dal modo con cui io gli
rispondo, scrivendo più in fretta che posso sui fogli bianchi che rappresentano
l’unico mezzo di comunicazione fra noi. Così anche gli agenti della polizia
puntano gli sguardi su di noi e ci chiamano: «Aprite le valigie». Scrivo che
cosa dobbiamo fare e Kawniido comincia a protestare: «Che cosa volete da me? Ho
solo libri e vestiti, sono un professore». Un africano con cinque borse piene
di libri? Figuriamoci se la beviamo, sembrano dire i poliziotti. Ci mettono nel
numero dei tipi loschi e cominciano ad aprire borse e disfare pacchi, passando
sopra tutto quanto una specie di racchetta da tennis che deve svelare il volto
del terrorista. La gente attorno segue la scena e ride, alla fine gli addetti
del deposito bagagli ci danno dei sacchetti per rimettere via alla meglio i
libri.
Dopo un’ora siamo a casa mia e stiamo
dividendo con l’ospite il piatto di carne al forno con cipolle. Beviamo succo
di mango e un bicchiere si rovescia a terra. L’asciugo con un fazzoletto di
carta e Kawniido mi fa notare che, se invece di un pavimento fosse stato il
terreno, il liquido sarebbe stato assorbito. L’ospite dice che secondo un
nostro detto la parola è come acqua, se la versiamo per terra non possiamo più
raccoglierla. Trascrivo anche questa frase su un foglio per comunicarla a
Kawniido e lui dice: «È verissimo, ci vuole un contenitore per custodire la
parola. Questo contenitore è la scrittura».
Ci ritroviamo così a parlare di scrittura,
di scrittori e di libri di ieri e di oggi. Gli racconto che una decina di anni
fa sono usciti in Italia alcuni libri scritti «a quattro mani» da immigrati e
italiani, romanzi che raccontavano storie e condizioni di vita, sogni e
difficoltà di inserimento. I critici di professione hanno sottovalutato un po’
questi libri interpretandoli come semplici documenti sociologici, oppure come
fenomeno letterario che le case editrici hanno sfruttato a fini commerciali. Su
questi testi adesso è calato il silenzio, solo due o tre sono ancora in
commercio. Per fortuna dopo questo tramonto è spuntato il sole di un nuovo giorno,
è spuntato sopra Rimini e Mantova, un sole caldo e gioioso che ha acceso i
cervelli e le emozioni. Kawniido vuole saperne di più, ho finito i fogli, ma
lui me ne tira fuori un pacco dalla borsa e me li mette davanti: «Continua,
prima che il sole si raffreddi».
Così mi ritrovo a parlargli del concorso
letterario Eks&Tra, dove tanti vivono il momento più bello della loro vita,
la felicità di vedere la propria storia pubblicata in un libro. Per Kawniido la
cultura è importante come il pane e nella sua vita questo pane l’ha pagato con
un prezzo molto alto. Dice che le case editrici devono promuovere i libri senza
badare solo all’aspetto commerciale, ma aggiunge anche che se la scrittura è un
contenitore, l’autore ha il dovere di dare colore e vivacità a questo
contenitore, di renderlo capace di attrarre l’attenzione anche del passante più
distratto.
L’ospite sta rosicchiando un osso, ci fa
presente che l’orario della partenza si avvicina; ci chiede se abbiamo
intenzione di passare il tempo che ancora ci rimane a scrivere e leggere
biglietti di carta senza più toccare cibo. Poi aggiunge: «Mio papà diceva che
la cosa più bella è imparare a raccontare con il sorriso». Kawniido risponde:
«È anche la cosa più difficile. D’altra parte l’umorismo e l’ironia sono gli
strumenti più efficaci per coltivare l’ascolto e favorire la riflessione».
Il tempo è scaduto e mi ritrovo di ancora
una volta sul marciapiede della stazione centrale, di fronte a un nuovo TGV. È
il momento dei saluti e l’amico sociologo sale sul treno dicendo: «Scusami, in
questi giorni ti ho fatto perdere tanto tempo. Avevi del lavoro da fare e l’hai
trascurato?». Io gli mostro i fogli con tutti gli appunti che hanno reso
possibile la nostra conversazione. «No, il lavoro che dovevo sbrigare è tutto qui,
è pronto» rispondo e gli auguro buon viaggio. Dopo un minuto vedo il treno che
si allontana come un serpente verdegiallo che sguscia fuori dal suo buco.
Da: Anime in Viaggio
autori vari
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