Ubevis – Paolo Crestani, Lucia Fiorani, Celia Pascale Heath, Claudia Morganti
Gaia si svegliò di soprassalto nel silenzio della camera. Il ticchettio della pioggia contro la finestra sembrava un’eco lontana. Il sogno, invece, era ancora tanto nitido da sembrare reale.
Era sulla riva di un’isola, la sabbia disseminata di resti della civiltà umana. Le onde si infrangevano sulla riva, cariche di detriti: bottiglie di plastica, metallo arrugginito e reti che soffocavano la costa. Il cielo era grigio, oscurato da un velo di inquinamento che pesava nell’aria. Il paesaggio era dominato da cumuli di spazzatura che si estendevano a perdita d’occhio. Nel sogno si avventurava dentro il labirinto di rifiuti, lottando per respirare tra i fumi tossici. Ogni angolo, ogni dettaglio del sogno era ricco di ricordi e mistero, come se l’isola stessa fosse un manoscritto pronto a svelare i suoi segreti solo a chi avesse avuto il coraggio di cercarli. Non per niente quella terra, con i due monti gemelli che sporgevano dall’acqua, racchiudendo nel mezzo la valle di rifiuti, assomigliava per davvero a un libro aperto.
Allargò gli occhi mentre il sogno si mescolava con la realtà della camera. Non era la prima volta che sognava l’isola. Era diventata un’immagine ricorrente, a cui tornava come si torna a un luogo caro. Spesso confondeva quella visione notturna con la realtà. Di giorno conduceva una tranquilla vita da studentessa adolescente mentre, dormendo, tornava sull’isola e proseguiva le esplorazioni.
Si stirò con calma, sollevando le braccia sopra la testa e sbadigliando. Il sogno si stava allontanando, lasciandole brividi sulla pelle. Sedette sul bordo del letto, toccò con i piedi il pavimento freddo. La sua stanza era quella di sempre: ordinata e accogliente, pochi oggetti personali disposti con cura. Sopra alla scrivania, vicino alla finestra, aveva messo una serie di fotografie dentro a cornici colorate: immagini di paesaggi naturali, fiori e persone care. Le tende erano decorate con piccole stelle di plastica che si accendevano di notte, creando un’aura di magia.
Guardandosi nello specchio sul comò, si mise in bocca un pezzetto di liquirizia. Passò una mano tra i capelli, rossi e disordinatissimi. L’isola, così distante eppure così vicina nei suoi pensieri, continuava a chiamarla. Sentiva che un filo invisibile la legava a quel luogo enigmatico, come se fosse destinata a trovarlo nella realtà.
Quel giorno non sarebbe andata a scuola. Voleva portare la vecchia valigia che le aveva lasciato la nonna dall’antiquario giù in città, per cercare di venderla. Con i soldi ricavati, si sarebbe potuta permettere qualche giro in più con le amiche, magari si sarebbe comprata una bella gonna, in vista dell’estate. Certo, le dispiaceva separarsi da quella bellissima valigia di pelle, robusta e spaziosa. Ma in fondo non l’aveva usata nemmeno una volta.
Gaia si affrettò attraverso le strade bagnate della città. La vetrina del negozio d’antiquariato era illuminata dal bagliore di una lampada. Gaia spinse la pesante porta in legno. Non c’era nemmeno uno zerbino e, con la sua camminata maldestra, fece entrare rivoli d’acqua sul pavimento. All’interno, l’aria era densa di polvere e storia, un odore che la faceva sentire malinconica, ma le dava anche un vago senso di calore. Posò la valigia e si avvicinò a una vecchia scrivania.
Tra i libri antichi e la lampada di ottone, le balzò all’occhio una cartolina ingiallita. Ritraeva un luogo che le era estraneo, ma al tempo stesso familiare. Due montagne in mezzo al mare che scendevano su una vallata, verde e rigogliosa, aperte a formare la sagoma di un libro. Non ebbe dubbi: era l’isola del suo sogno.
L’uomo dietro al bancone si schiarì la voce e abbassò gli occhiali sul naso.
– Posso esserti utile?
Gaia balbettò, la voce un sussurro timido.
– S-sì, sto cercando… indizi… su questa cartolina.
Mise la seconda liquirizia del giorno in bocca e prese a masticarla con forza. Quel sapore la aiutava a mantenere un contatto con la realtà. Aveva ormai dimenticato il motivo per cui era lì: la vendita della valigia.
Il vecchio alzò un sopracciglio, scrutando la giovane con aria dubbiosa.
– Indizi? Di Ubevis? Che genere di indizi?
Gaia fece un passo indietro, col gomito sinistro colpì un vaso antico, facendolo cadere con un forte botto.
– Ragazzina! – Tuonò l’antiquario, – Quel vaso cinese aveva più di duecento anni!
La cartolina scivolò dalle mani di Gaia, cadendo sul pavimento bagnato dalla pioggia. L’indecisione durò un batter di ciglia. Raccolse la cartolina, la nascose nel taschino dell’impermeabile e fuggì dal negozio, portando con sé anche la valigia.
L’isola che cercava adesso aveva un nome: Ubevis.
Ansimando, Gaia si trovò ben presto nella zona portuale. Aveva smesso di piovere e, dopo la corsa, si fermò per rilassare corpo e mente. Di fronte a lei, una biglietteria navale mostrava la cartina dell’arcipelago cittadino. Si avvicinò e un nome colpì la sua attenzione: Ubevis.
Senza farsi domande estrasse l’abbonamento ai trasporti, lo passò sul lettore, attraversò il tornello e salì a bordo di un traghetto che attraversava le varie isole.
L’imbarcazione si staccò dalla riva e si addentrò nel fiordo coperto di bruma. Gaia si strinse nell’impermeabile giallo mentre la nave rallentava e iniziava una dolce danza di soste e passaggi tra gli isolotti. Si sporgeva sul parapetto, nella brezza pungente, cercando di intuire la caratteristica forma dell’isola che la tormentava. Passarono le prime tre fermate, alcuni turisti scesero, qualche isolano salì. Poi la bruma si diradò, quando il traghetto uscì in mare aperto. E così la vide: schiusa, scolpita dalle intemperie, con i due promontori ripidi, a picco sul mare, che scendevano verso il centro dell’isola. Spoglia nelle parti rivolte a nord, verdeggiante e rigogliosa a sud. Il traghetto, passandole accanto, le diede il tempo di studiarla bene e riconoscerla con precisione, proprio come l’aveva vista in sogno. Gaia si preparò a scendere, ma il traghetto non approdò.
– Vista da qui è un incanto, vero? – Gaia venne colta di soprassalto, guardò l’uomo che le aveva rivolto la parola e non seppe cosa replicare. – Secoli fa, era persino un luogo di villeggiatura. Si narra che, nonostante il vento, il clima fosse sempre clemente, e che fosse il posto preferito dal Re, nelle giornate di sole. Una splendida vista sul fiordo. Purtroppo non è più visitabile.
Il traghetto, nel frattempo, era arrivato alla tappa successiva, il porticciolo dell’ultimo isolotto prima del rientro verso la città. L’uomo afferrò il suo borsone, si alzò il cappuccio della felpa sulla testa, le fece un cenno di saluto e scese.
Durante il viaggio di ritorno, con il traghetto semivuoto, Gaia si perse nei pensieri, senza più nulla da attendere. Quella spedizione si era rivelata un fallimento. L’idea dell’isola le rimaneva dentro come un mistero inaccessibile e si sentiva di nuovo bambina, quando seguiva spaesata i discorsi degli adulti con l’impressione di cogliere qualcosa di incognito e importante, un segreto che le sarebbe stato rivelato, un giorno, a patto di saperlo inseguire tra le pieghe della vita.
Scese nello stesso punto in cui era salita.
Un ragazzo slegava un piccolo peschereccio, fumando una sigaretta e canticchiando. Solo quando si voltò per accendere il motore, si accorse della ragazzina goffa che cercava di intrufolarsi sulla sua barchetta.
Quando Gaia saltò sulla spiaggia di Ubevis, con la valigia ancora appresso, il ragazzo scrollò la testa in segno di dissenso, ma le augurò lo stesso buona fortuna. D’istinto seguì uno stretto percorso che si addentrava nel bosco, in salita. Arrivata in cima, tutto era roccioso e brullo, si trattava del lato esposto al vento. Scendendo, vide la grande conca pianeggiante, dove i due versanti, aperti come un libro, si incontravano. Alla sua sinistra, il mare, tra il promontorio che aveva appena superato e l’altro, speculare e gemello, a chiudere lo sguardo sulla radura.
Il terreno, irregolare, iniziò a scricchiolare sotto i piedi, quando mosse il primo passo nella zona pianeggiante. L’umidità dell’aria amplificava l’odore dolciastro, di marciume, che arrivava a ondate e le tappava il naso. Gaia tossì, mentre distingueva i contorni degli oggetti che spuntavano tra la sabbia e il terriccio puzzolente. La testa di una bambola. Lo stelo di un abat-jour. Un piatto in ceramica decorata. Spazzolini da denti. Portasapone. Lamette da barba. Questa era l’isola: una grande discarica. Un orsacchiotto di peluche senza occhi. Rottami di un’aspirapolvere dal design anni Cinquanta. Una vecchia tazza senza manico, rotta a metà, che portava un’effige nazista. Come se il passato della città, anche nelle sue sfumature più oscure, fosse stato confinato sull’isola, rimosso, ma non elaborato; in disuso, ma mai davvero estinto.
Continuò a camminare, fino all’altro promontorio, dove la vegetazione era in ripresa. Tra gli alberi, i resti cambiarono consistenza e colore. Erano oggetti più recenti, capi d’abbigliamento, borse, scarpe, lenzuola: effetti personali, brandelli di vite. Un edificio, coperto di rampicanti e diroccato, attirò la sua attenzione. Un paio di scarpe erano appoggiate su un muretto di fronte alla porta d’ingresso, come se qualcuno se le fosse tolte per rinfrescarsi i piedi durante una passeggiata. Ma il tempo vi si era incrostato sopra, si erano riempite di sabbia e polvere. Gaia sedette accanto a quelle scarpe per osservarle meglio. Dapprima fu solo una vaga impressione, come se volessero comunicare con lei. Poi, da vicino, notò che davvero quelle scarpe dicevano qualcosa. Sull’interno della linguetta di sinistra, sbiadito dal tempo, un messaggio.
Sono un fallito
Un miserabile
Gaia restò interdetta finché non trovò il coraggio di entrare nella struttura pericolante. Attraversò ambienti di non chiaro utilizzo, forse una cucina, due bagni semidistrutti e uno stanzone con mucchi di brandine arrugginite e sedie. Per terra, una scatola di legno con il coperchio appena sollevato. Si chinò per aprirla del tutto. Conteneva posate e pochi altri oggetti. Ma soprattutto: anche quella scatola conteneva parole. Ovunque, sui lati interni rivestiti di carta, sulla base e sotto al coperchio, parole. Scritte fitte, una sull’altra, in tutte le direzioni. Ci volle un bel po’ per mettere in fila il discorso e tradurlo dal francese:
Sto scrivendo per non impazzire, sto scrivendo per non tenermi tutto dentro.
Mi ritrovo qui solo, solo con i miei pensieri, paure e speranze infrante. Tutto mi sembra sospeso e senza senso, ora. Tanti anni passati a preparare questo viaggio verso l’Europa, a trovare i soldi, i canali giusti e poi… mi ritrovo in questo posto assurdo, fermo, impotente.
Sognavo di trovare un lavoro come muratore nel Nord Europa, inviare piano piano un po’ di soldi a casa per sposare Amina (come mi manca!) ed essere felici insieme. E invece… credevo che dopo la traversata del deserto e in mare, una volta arrivato qui, tutto sarebbe andato in discesa, tutto sarebbe stato più semplice, invece la salita è solo aumentata!
La cara vecchia Europa ti abbraccia solo se sei ricco, solo se hai un certo passaporto!
Gaia immaginò che tutti gli oggetti di quel luogo nascondessero messaggi. Si prese il tempo di cercare bene. Trovò uno straccio, ricavato forse da una vecchia maglietta, dove il racconto continuava:
Non sento Amina da tantissimo. Mi manca terribilmente. Ogni notte sogno di riabbracciarla e dirle che va tutto bene, ma non è così.
Nel sogno non siamo costretti alla realtà. Nel sogno può succedere di tutto. Ma non so se ho le forze per sognare ancora.
Un altro straccio lì accanto recitava:
La mia famiglia aveva riposto in me tutte le speranze di una vita migliore.
Sopra a un lavandino sfondato, un mobiletto a più ripiani custodiva altri oggetti. Un barattolo di vetro, una tazza decorata con la pubblicità di un supermercato ormai chiuso. Gaia osservava tutto come pezzi di un puzzle. Il messaggio continuava ancora scritto sui cocci di un grande vaso di terracotta rosso:
Quegli stronzi del centro non ti guardano nemmeno in faccia!
Hanno sputato addosso ad Ahmed!
In un cassetto, trovò la stessa grafia sul risvolto di una vecchia cartellina, vuota e ingiallita:
Oggi ho parlato con un anziano dell’isola, forse l’unico rimasto, ci ha portato di nascosto del pesce. È una persona gentile, umana, che non ti guarda dall’alto al basso. Mi ha raccontato che questo posto era un paradiso naturale. Poi con l’aumento dei rifiuti, la città di Ánslo ha deciso di scaricarli qui. Le proteste inascoltate. Nel giro di pochi anni è avvenuto questo scempio!
Gli ho chiesto come è nato questo Centro. Con l’intensificarsi degli arrivi il governo ha individuato alcuni luoghi remoti del paese dove spedire migranti in attesa del rimpatrio.
Mi sento come un pacco fermo al centro postale che non sa quando verrà rispedito indietro… questa attesa mi sta logorando. Tutte le mie energie sono esaurite e non so più chi sono, né cosa voglio essere.
Quei messaggi erano tasselli di un mosaico vissuto. Gaia si domandò cosa avrebbe dovuto fare.
Portarli con sé in città? Era la cosa giusta? Uomini e donne dimenticati come non fossero mai esistiti. Ma ora quella gente era tornata, almeno nei suoi pensieri. Le avrebbe fatte rivivere. Sarebbero esistite di nuovo e finalmente avrebbero trovato pace. Grazie a lei. Questo era il suo compito. Ma come poteva attestare ciò che aveva visto? Scriverne un racconto? Portare all’antiquario gli oggetti trovati, con la scusa di rimediare al guaio del vaso?
Ricordò della valigia che aveva con sé da quella mattina e decise di riempirla con tutti quei reperti narranti.
Qualche ora dopo il giovane pescatore, da vero uomo di mare, tornò a Ubevis per cercare Gaia e riportarla in città. Durante il viaggio in barca, lei non proferì parola perché troppo inquieta, e il ragazzo mantenne il silenzio per rispettarla. Gli unici rumori erano quelli delle onde, del motore, dei gabbiani che volavano sopra di loro, e il ticchettio della pioggia che ricominciava a scendere. Quella sera tornò a casa sotto il diluvio, le si chiudevano gli occhi e la vista era rallentata per la stanchezza. Però era felice e orgogliosa per l’idea di poter custodire memorie altrui. Con questa sensazione poté buttarsi a letto: si addormentò all’istante.
Gaia si risvegliò di soprassalto nel silenzio della camera. Era mattina, pioveva ancora, e le gocce picchiettavano sulla finestra come un’eco lontana. Un turbinio di pensieri la assalì.
Quella notte aveva sognato l’isola.
NOTE
L’immaginario di Ubevis è ispirato a un luogo reale. Nel fiordo di Oslo, capitale della Norvegia, vi è un piccolo arcipelago di isole. Tra queste vi è Langøyene, che un tempo fu due isole distinte, speculari nella forma e molto vicine tra loro. Negli anni ’40 e ’50 del Novecento, tonnellate di rifiuti provenienti dalla città vennero scaricati nel piccolo spazio tra le due isole e finirono per riempirlo, formando una curiosa radura. Ancora oggi, camminando a Langøyene, può capitare che dal terreno spuntino pezzi di vecchi rifiuti. Il nome scelto per l’isola fittizia, Ubevis, proviene dal termine norvegese ubevisst, che significa inconscio o subconscio.
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