Prima che bruci un’intera biblioteca – Michel Musendele Alimasi, Alessandra Paparatty, Silvana Rovito

Sdraiato sul letto Amir alternava lo sguardo, dai libri alle dispense di Diritto Internazionale sulla scrivania. Sapeva che si sarebbe dovuto alzare per mettersi a studiare, ma finché l’adrenalina non gli fosse piombata addosso, a pochi giorni dall’esame, non avrebbe trovato la spinta necessaria. Era ormai una prassi consolidata, c’era ancora tempo per rilassarsi. Nello spostare lo sguardo si fermò ad osservare, allacciato ad una tracolla dello zaino, il braccialetto intrecciato con rafia blu e gialla. Da quando era tornato non aveva ancora disfatto il bagaglio né acceso il pc per vedere quali mail fossero arrivate durante la sua assenza; optò per la seconda motivazione come pretesto per alzarsi, ma invece di controllare la casella di posta elettronica aprì Google, digitò “statua della rinascita Dakar” e mentre attendeva il caricamento ripensò a Matteo e alla settimana trascorsa a Valencia.

Erano stati contenti di rivedersi dopo mesi, insieme avevano passato due intense settimane facendo le cose di sempre, quelle che piacevano ad entrambi, suonare i bonghi e ascoltare world music. Appena arrivato, l’amico gli aveva fatto sentire alcuni cd comprati nel negozio all’inizio della strada, il lungo viale pieno di aranci che portava al grande condominio che li avrebbe ospitati. Quel negozio era stato il primo posto di Valencia in cui Matteo lo aveva portato, dopo avergli fatto vedere il piccolo appartamento che condivideva con altri due studenti, Josè, brasiliano di S. Paolo, ed Efa, una ragazza di Stoccarda. Gli aveva proposto di accompagnarlo persino a lezione, ma Amir si era opposto: per quella breve vacanza non voleva sentire parlare di Diritto, di leggi e di costituzioni. In spagnolo poi…

Con un duplicato delle chiavi di casa e una mappa della città, mentre Matteo era impegnato all’Università, si era aggirato da solo per il centro di Valencia. Aveva impiegato pochi giorni per conoscere usi ed abitudini e ben presto si era adeguato; in quella città sembrava che tutti i bar preparassero la colazione molto tardi, la chiamavano l’ora del desayuno. Amir per soddisfare la fame mattutina si era attrezzato portando sempre con sè alcuni panini preparati a casa dell’amico.

Il sesto giorno, dopo la tarda colazione al bar vicino alla fermata del tram, Amir decise di non avventurarsi nell’ennesimo itinerario turistico. Josè ed Efa quella mattina erano usciti insieme a Matteo, e ciò significava poter finalmente usare la doccia con calma, curiosare in cucina e oziare sul divano letto in fondo al corridoio che di notte diveniva il suo giaciglio. Con un programma così allettante Amir si affrettò a tornare a casa. Sul pianerottolo, mentre cercava le chiavi, si sentì interpellare in francese.

Ci mise un po’ a tradurre la frase.

– Ieri sera ho sentito suonare musica africana, eri tu?

Rispolverando il suo francese scolastico, rispose all’anziano fermo davanti alla porta accanto.

– Sì, con il mio amico

– Mi è piaciuto ascoltarvi. I miei tamburi sono diventati soprammobili buoni per la polvere…
Le domande uscirono in successione, la seconda come conseguenza della prima.
– Ha dei bonghi ? Posso vederli?

Il vecchio spinse la porta di casa e Amir entrò. L’ambiente era caotico ma accogliente. I mobili coperti da tappeti e oggetti di ogni colore e stoffa erano sistemati a formare un salotto. Vicino alla finestra un telaio, o qualcosa di simile, da cui pendevano fili di diverse lunghezze. La polvere invadeva tutto. Il colore dei capelli del vecchio era identico alla patina che ricopriva gli oggetti. L’uomo prese da sopra una mensola un tamburo africano di pelle caprina, doppio. Lo accarezzò per sentirne la qualità. Le dita affusolate e callose picchiettarono con naturalezza la membrana sottile, producendo poco rumore, come se non volesse risvegliare suoni passati.

– Quando hai iniziato a suonare? – domandò il vecchio.

– Avevo 12 anni. La world music mi ha sempre preso molto, in Italia suoniamo anche in alcune discoteche.

– Qualcuno canta?

– No, in genere usiamo solo bonghi di diverse dimensioni, come i tuoi – Amir si rese conto di essere passato al tu ma l’altro non sembrò farci caso.

– Non sono bonghi, sono djembe. I bonghi sono sudamericani, questi sono africani, dovresti conoscerli, non sei del Senegal tu?

– Sono di Bologna. Italiano – aggiunse Amir dopo un istante, come per specificare.

– Bene – rispose il vecchio. Si spostò di un passo e allungò una mano verso un ripiano accanto alla poltrona. – Guarda questa.

Gli porse una chitarrina con la cassa rettangolare: – Questa è del Madagascar

– Non ho mai visto una chitarra del genere. Qua dentro hai un tesoro. E’ una collezione o li hai usati tutti, questi strumenti?

– Ho suonato, ho cantato; li ho usati. Da molti anni li ho lasciati ai suoni che hanno dentro e alla polvere che hanno sopra, ma anche così mi ricordano che il passato è rinascita e non va ignorato. A proposito, hai sentito del monumento della Rinascita a Dakar?”

– Posso provarlo? – Amir aveva già iniziato a suonare con il pensiero, mentre desiderava che il vecchio smettesse di parlare; aveva faticato a seguire l’ultima parte di quel discorso aspettando il momento buono per prendere in mano il djembe appoggiato sul pavimento.

– Fai pure – riprese il vecchio – Canterò per te.

Amir suonava in modo troppo energico, poco attento alla presenza del padrone di casa, nonostante si sforzasse di accompagnare il canto. Solo dopo qualche minuto riuscì a comprenderne la melodia, i toni e le sfumature. Aggiunse la sua voce, improvvisando parole in musica, in una lingua sconosciuta ma stranamente familiare.

Il vecchio si interruppe.

– Sembra così facile per voi. È sorprendente come i giovani riescano a mescolarsi, parlare lingue diverse, conoscere posti lontani. Le differenze non vi fermano né vi spaventano.
Amir percepì una nota di biasimo. Immaginò di avere esagerato nel cercare di impadronirsi di qualcosa che non gli apparteneva. Provò a giustificarsi: – Siamo nati e cresciuti in un mondo aperto; provare consuetudini altrui per noi non è imitare, mancare di rispetto. Siamo abituati così.

Appoggiò il djembe sul pavimento e a braccia conserte meditò sul modo di congedarsi.
Il vecchio non gliene diede il tempo: – Non sono le differenze a spaventarvi. Sono le somiglianze. Mi sembra facciate finta di non riconoscerle, preferite non sapere, per continuare a considerarvi tutti unici e diversi. Dall’ampia tasca della veste color nocciola estrasse un braccialetto intrecciato di fili gialli e blu e lo porse ad Amir.

– Cos’è? – domandò il ragazzo tenendolo tra le dita della mano destra.

– Tienilo; è un regalo che si fa per gratitudine nel nostro paese. O meglio, nel mio. E io ti sono grato, la tua visita è stata un piacere, era da tanto che non suonavo. I miei amici musicisti vivono tutti in Senegal. Spero che almeno mi mandino una foto della Statua della Rinascita Africana, vorrei tanto vederla. Quarantanove metri di statua, la più alta del mondo, l’hanno inaugurata proprio oggi, sai?
– Per vederla basta un click su Google. Se avessi con me il computer te la farei vedere.

 

Finalmente la pagina che cercava si caricò: Monumento della Rinascita Africana.

Ecco la statua. Ingrandendo la foto osservò i tratti della “Rinascita” e immaginò il vecchio presente alla cerimonia, seduto sulla scalinata a suonare i suoi djembe.

Il Monumento della rinascita Africana è una statua di bronzo alta quarantanove metri e situata a Dakar in Senegal. Si tratta della più alta statua del mondo, al di fuori dell’Asia e dell’ex-Unione Sovietica.

E bravi i miei cuginetti africani, pensò Amir, in televisione trasmettono sempre le facce dei bambini mal nutriti e dei villaggi senza pane ed invece questi fanno concorrenza alle statue della Russia!

– Spegni quel computer e vieni a tavola. La cena è pronta. – Il richiamo materno interruppe le  fantasticherie. Dopo una settimana passata a mangiare paella e hamburger una bella cena era proprio quello di cui aveva bisogno.

– Non mi hai raccontato ancora niente del viaggio. Matteo come si trova in Spagna?

– Tutto ok – Impegnato a masticare un pezzo di pollo, Amir rispose con ancora il boccone tra i denti, – Abita con un ragazzo di San Paolo ed una tedesca, l’appartamento è piccolo ma si sta bene, alla fine. Siamo andati a visitare la Cattedrale, la Lonja e abbiamo fatto un giro nel quartiere Mercat. Evitò accuratamente ogni riferimento alle serate nei pub e nelle discoteche della città.

– Faticoso camminare sotto il sole per tante ore, però ci siamo divertiti

– Ed hai anche trovato il tempo per studiare, vero? – aggiunse la madre con un sorriso accondiscendente.

– Claro che si, Yo amo el derecho! – Entrambi si misero a ridere.

– Avrai fatto qualche foto che posso vedere…

– Parecchie – Mentre ripuliva il piatto dagli ultimi pezzetti di patate, propose di mostrargliele in cambio di un caffè. Tornato in camera, frugando nello zaino rivide il braccialetto e intuì di aver tralasciato nel racconto una parte importante della vacanza. Tornò in cucina, deciso e a mani vuote.
– Senti una cosa – esordì diretto -Tu sei mai stata in Senegal? A Valencia ho incontrato un signore di Dakar che mi ha raccontato un po’ di cose sul suo paese. Anche il babbo era del Senegal e volevo chiederti…

Claudia lo sapeva, prima o poi avrebbe dovuto affrontare quel discorso in maniera adulta col figlio. Tante volte aveva provato a mettere in fila la giusta sequenza di eventi successi oltre vent’anni prima. Poi si era detta che al momento opportuno le parole sarebbero venute fuori da sole, senza tante prove. Infatti le parole sgorgarono dalla sua bocca senza ostacoli; la fatica era tutta concentrata negli occhi intenti a trattenere le lacrime tra le palpebre folte di ciglia.

Ci siamo conosciuti all’Università, qui a Bologna, frequentavamo gli stessi corsi, sebbene lui avesse due anni in più di me. A volte arrivava in ritardo alle lezioni o non veniva affatto, ricordo che addirittura un giorno, mentre esponevo la mia relazione davanti a tutta la classe, si addormentò sul banco. Finita la lezione lo cercai e gli chiesi se fossi stata talmente noiosa da farlo addormentare.  Le spuntò un sorriso. Si alzò dalla sedia e mise sul fornello la caffettiera. – La verità, come mi spiegò quel giorno, era che lavorava come operaio in un’azienda edile di Imola per mantenersi agli studi, rientrava a casa stravolto ed al posto di dormire si buttava sui libri per restare al pari con gli esami. Era nato a Thiès, una città industriale non lontana da Dakar e a diciannove anni si era trasferito a Bologna per studiare, con i risparmi racimolati da tutta la famiglia. Cominciammo a uscire insieme, alcune volte andavo io a prenderlo al cantiere, altre volte mi raggiungeva a casa mia e restava a dormire. Quando sono rimasta incinta erano quasi due anni che ci frequentavamo, io stavo preparando la tesi di laurea e lui era da settimane in fibrillazione: il suo datore di lavoro gli aveva promesso che in poco tempo sarebbe riuscito ad assumerlo regolarmente, aveva già firmato le prime carte. Le cose procedevano per il meglio.

– Versò il caffè fumante nelle tazze ed abbassò  lo sguardo. – Era un venerdì di febbraio quando se ne andò con la ditta per costruire alcune palazzine a Vicenza. Non lo rividi più. Dissero che si era trattato di un incidente provocato dalla neve. Dissero che nonostante l’opposizione del capocantiere lui era ugualmente salito sulle impalcature. Dissero che sebbene avesse preso tutte le precauzioni e fosse stato messo in sicurezza prima di salire, le travi scivolose ed appesantite dalla neve non avevano retto. Dissero infine che lo avevano messo in regola pochi giorni prima. Molto di ciò che dissero non era vero. Rimasi sola. Solo dopo la tua nascita ho dato il via libera ai nonni ed entrambi mi hanno aiutato a crescerti ed accudirti. Purtroppo tuo padre non mi ha mai raccontato molto delle sue origini malgrado le mie domande, credo cercasse di integrarsi a tal punto in questo nuovo mondo da lasciare da parte il suo passato. Ricordo però che un giorno, seduti sulle panchine del cortile dell’università, mi prese per mano e mi chiese di chiudere gli occhi. Quando li riaprii, vidi che mi aveva annodato attorno al polso un braccialetto colorato, mi spiegò che regalarlo significava donare una parte di sé ad una persona cara. Di solito erano gli anziani del villaggio a cederlo ai giovani meritevoli, confidando di trasmettere così la loro esperienza. Il tuo bisnonno gliel’aveva donato e lui aveva voluto donarlo a me.

 – Claudia prese le due tazzine vuote si alzò per portarle nel lavandino. Dando le spalle ad Amir, celò le lacrime che stavano cominciando a scenderle sul viso.

Amir si guardò nello specchio. Molte volte, seduto in salotto o passando in corridoio, aveva fissato le foto del padre, ma questo era normale per uno che il padre non l’aveva mai conosciuto. Osservandosi realizzò di aver sempre considerato il padre come un volto, una immagine senza alcun valore reale. La curiosità sulla sua morte non lo aveva mai colto nel profondo. La madre gli aveva raccontato poco e quel poco “suonava” bene, a ripensarci adesso. “Il babbo non c’è perché non può tornare dal suo lungo viaggio, anche se vorrebbe tanto farlo ed essere qua con noi”. Erano state risposte tranquillizzanti. Anche le successive, quando le sue domande di bambino cominciavano ad essere meglio articolate. “Non hai mai conosciuto tuo padre perché è morto in un incidente poco prima che tu nascessi” Questa era stata, verso i dieci anni, l’ultima e definitiva versione della storia. Plausibile, veritiera, serena. Nessuno gli aveva mai fatto sentire la mancanza di un padre, o meglio, zii, zie e nonni materni l’avevano colmata. Fino a quel momento, davanti alla propria immagine riflessa in cerca di somiglianze. La forma del naso, delle labbra, e quei ricciolini neri, tagliati cortissimi. La poca barba che si lasciava crescere non somigliava invece a quella incolta del padre. Per il resto, eccetto gli occhi nocciola adornati di lunghe ciglia, Amir era incorniciato nello specchio come lo erano le fotografie in corridoio e in salotto. Ritratti di un padre morto mentre lavorava con la promessa di un regolare contratto; una beffa per gli studi in Diritto del Lavoro di suo figlio. Faticò ad addormentarsi, malgrado la stanchezza del viaggio; sdraiato a letto sentiva, dietro la porta chiusa della camera, la madre aggirarsi in punta di piedi. Nella sua testa si sovrapponevano la voce immaginaria del padre e quella del vecchio a Valencia. I due volti si confondevano, prima tra loro e poi con il suo. La mente vagava mentre a poco a poco il sonno cominciava ad impadronirsi del corpo.

 La vibrazione del cellulare sul comodino lo fece sobbalzare. Prese il telefono, guardò lo schermo: SILVIA. Rispose cercando di schiarirsi la voce con un colpo di tosse: – Grazie per avermi svegliato, ma non occorreva. E’ domenica, il giorno del riposo.

– Dormiglione, è una settimana che non ci vediamo, preparati che tra dieci minuti scendo da te.

– Ma io ho sonno! – mugugnò Amir.

– Adesso ti rimangono solo nove minuti.

Abitando due piani sopra il suo appartamento, Silvia avrebbe impiegato anche di meno per piombargli in casa. Una settimana di assenza doveva esserle sembrata un’eternità, abituata com’era a vederlo tutti i giorni. Vicini di casa e coetanei, da bambini avevano giocato insieme nel cortile del condominio, frequentato le stesse scuole elementari e medie, e adesso si incontravano all’Università. Amir e Silvia avevano avuto anche una breve relazione, che non aveva funzionato, ma nonostante questo continuavano ad uscire insieme sentendosi legati da un reciproco affetto.

Al loro arrivo l’orologio di Piazza Maggiore segnava le quindici e trenta. Silvia era entrata e uscita dai negozi di abbigliamento per due ore buone, esaurendo la resistenza di Amir. Concordarono una tregua dagli acquisti puntando verso il più vicino kebabbaro, per mangiare e riposare le gambe. Erano seduti da pochi minuti, con l’involucro di carta, pane e carne, caldo e unto tra le mani, quando Silvia diede un colpetto al braccio di Amir e disse furtiva: – Guarda quello, è uguale a te da vecchio. Ti manca solo un po’ di barba e qualche ruga.

Indicava con gli occhi in direzione di un uomo di colore che girava tra i tavoli del Bar-Kebab cercando di vendere fazzoletti ed accendini. Di corporatura alta e possente, aveva uno sguardo luminoso e un sorriso malinconico. Ad Amir ricordò le fattezze della statua di Dakar, il monumento della Rinascita Africana, e ripensò al vecchio di Valencia, mentre parlava delle somiglianze che spaventano più delle differenze.

Guardò Silvia – E’ solo questione di casualità. Potrei benissimo esserci io al suo posto.

– Non dire stupidaggini, tu sei di qui, sei bolognese, sei italiano, studi all’università.
– Sono italiano per metà. Perché fate tutti finta di non vederlo ? E adesso non guardarmi in quel modo, riprendi a masticare, non sai quello che mi è successo a Valencia. Un vecchio senegalese mi ha riconosciuto. Riconosciuto capisci? Uno che non avevo mai visto. Io però ho preso subito le distanze, e quello mi sa che si è offeso. Poi però mi ha regalato un braccialetto, se hai voglia di ascoltare ti dico cosa ha detto. Anzi, prima ti dico cosa ho capito io, del braccialetto, una volta tornato a casa quando ho parlato con mia madre.

Silvia lo guardava chiedendosi cosa avesse scatenato con la sua battuta di prima. Amir spiegò di non voler più passare davanti alle fotografie in salotto e in corridoio considerandole quelle di un padre qualsiasi. Era suo padre, e voleva trovarle, le somiglianze. Senza paura.

 “A volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane”.

Amir pensò che la frase non lo convinceva. Chi è giovane non può attendere la vecchiaia per sentirsi completo. Ripose il libro di Calvino sullo scaffale della biblioteca e si mise a cercare quel che davvero gli serviva. Sfogliò diversi volumi finché gli occhi non si fermarono su poche righe:

Il griot (menestrello o cantastorie ) ha ancora parecchia importanza nel Senegal odierno. È insieme un musicista e uno storico specializzato in genealogia e il suo ruolo passa di padre in figlio. Si dice che in Africa quando muore un vecchio è come se venisse bruciata un’intera biblioteca.

Dopo l’incontro con Silvia, Amir aveva riflettuto molto. La settimana seguente era andato a parlare con il suo professore di Diritto Internazionale per farsi consigliare qualche lettura, spinto dalla curiosità e dalla voglia di capire se stesso. Era uscito da quell’incontro con più confusione di prima, con un elenco di saggi sul Senegal e con mille domande ad agitargli i pensieri. Una rinascita però era possibile, e con tutta la grinta e la determinazione che aveva in corpo aveva deciso di studiare da solo. Non aveva trovato molto materiale. Fino a quel momento, fino a quella frase che lo aveva colpito. In quel momento capì cosa avrebbe dovuto fare.

 Gli occhi appesantiti delle hostess, il rumore delle valigie trascinate, l’odore dei panini riscaldati per creare un’atmosfera domestica e far sentire tutti a casa. Vite intrecciate come fili di un braccialetto si rincorrevano per l’aeroporto.  Un luogo di arrivo ma anche di partenza, dove atterrano e si imbarcano persone provenienti da tutto il mondo: asiatici, africani, europei. Nel marasma generale nessuno sembrava curarsi di lui. Tutti scrutavano il tabellone luminoso dei voli. Tutti tranne Amir: gli occhi fissi sul braccialetto giallo e blu che stringeva tra le mani. Era lì per tornare a Valencia, ricambiare il dono ricevuto e ascoltare dal vecchio cantastorie di Dakar tutto quello che sapeva. Prima che l’intera biblioteca bruciasse. Solcare il cielo per rintracciare le radici della propria storia. Non era stato semplice prendere quella decisione, Silvia gli aveva detto che a vent’anni non ha senso mettersi a cercare una nuova appartenenza, soprattutto quando una appartenenza ce l’hai già. Forse aveva ragione, però lui voleva provarci. Si sentiva pronto a ripartire.

 

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