La veglia – Milvia Comastri

E ti sto a guardare, ma non ti riconosco. Non li vedo i tuoi occhi, che avevano da tempo imparato la dolcezza. E anche le labbra le vedo appena. Come se si fossero scavate una fossa fra il naso e il mento, per seppellire il sorriso.

La prima volta che mi hai sorriso è stato quando ho sbagliato  a dire una parola. Avevo detto: nella placcia c’è il mercato. E tu mi hai detto che placcia ti faceva venire in mente un posto grasso e tondo, mentre la nostra piazza è stretta e lunga. È come te, hai detto. E hai sorriso. Al tuo sorriso ho legato la parola nostra: nostra piazza, avevi detto. Ho capito che sarebbe andato tutto bene, da quel momento, e che sarebbe andata via quell’onda scura che ti riempiva gli occhi, quando mi guardavi. Ti ci erano voluti mesi, per mandarla via.

All’inizio è stata solo guerra. Ero il  tuo  nemico, da combattere con ogni arma possibile. Hai cominciato con il silenzio. Ti chiedevo, e tu, zitta. Così lo dovevo indovinare cosa volevi che io facessi. E i dispetti, poi. Quella volta che mi hai lasciata fuori casa. Tornavo dalla spesa, e mi sono accorta che non avevo le chiavi. Ed ero sicura di non averle tolte dalla borsa. Ricordi quante volte ho suonato il campanello? Ti sentivo respirare, al di là della porta.  Ho smesso di suonare e mi sono seduta per terra, la schiena contro il muro, a guardare la borsa della spesa, dove la sogliola surgelata cominciava a perdere acqua. La pazienza, sai, l’ho dovuta imparare negli anni, e anche con il rifiuto ho imparato a vivere, da quando sono in questo paese. Dopo un’ora hai aperto la porta, solo poco poco, giusto una fessura. Ho sentito i tuoi passi che si allontanavano lungo il corridoio.  Poi per tutto il giorno te ne sei stata chiusa in camera. Il giorno dopo ho trovato il mio mazzo di chiavi sotto il materasso del tuo letto.

Ma sono rimasta con te, e sono così contenta di essere rimasta. Sono rimasta con te, perché avevo bisogno dei soldi che mi davano i tuoi figli. Ma sono rimasta con te anche perché, quando mi fissavi con quegli occhi di falco, non ci vedevo solo odio, ma anche disperazione. Come di qualcuno che vorrebbe fare, ma non ci riesce.  Come gli occhi di quell’uccello, là a casa mia, a cui avevano rotto un’ala.  È per questo che quando hai deciso di non mangiare più, se io non me ne fossi andata, ho smesso di mangiare anch’io. Li avevi avvertiti, i figli. Glielo  avevi detto che cosa avevi deciso. Ma loro non ci hanno dato peso, io credo. Avranno pensato che era così per dire, un dire a vuoto di una vecchia.  Non si sono fatti vivi, niente. Tre giorni, siamo andate avanti nel digiuno. Io preparavo da mangiare, apparecchiavo, tu ti sedevi e non toccavi nulla.  Mi guardavi non mangiare, e basta, fino a quando io prendevo i piatti e li svuotavo nell’immondizia.  Sentivo la testa leggera, e sapevo che quella debolezza era anche la tua. Avevo paura, ma solo per te, che io a non mangiare mi ero abituata nel viaggio che mi ha portato qui. Poi il quarto giorno, alla mattina, mi hai detto: prepara una delle tue schifezze, che tanto tu solo schifezze, sai fare. Ho preparato un brodo leggero, ci ho grattugiato un bel po’ di formaggio. Ci siamo sedute a tavola, e tu mi guardavi prendere su il brodo, e lo prendevi su pure tu, e per farmi capire che ancora non era pace sbattevi forte il cucchiaio contro il piatto e bevendo il brodo facevi il risucchio, che non lo avevi mai fatto, prima.  È stata l’ultima battaglia, quella del digiuno.  Ci sono stati ancora piccoli dispetti, ma mi sembrava che tu me li facessi più per abitudine, come chi ha avuto un grosso raffreddore e anche quando è guarito continua a tirar fuori il fazzoletto. Poi c’è stata quella parola, placcia. E il tuo sorriso. E mi hai detto che tutto quello che avevi fatto, da quando ero arrivata a casa tua, lo avevi fatto perché volevi startene da sola, perché pensavi di non aver bisogno di nessuno, perché non ti piaceva l’idea di avere un’estranea che ti girava per casa. Una badante. Non riuscivo ad accettare che sono diventata vecchia, hai detto. Hanno deciso tutto i figli, per stare tranquilli.

I tuoi figli, sì.

Dalla cucina arrivano le loro voci. Sono ore che vanno avanti. Non sento quello che dicono, ma che stanno parlando di me lo capisco. Sono ringhi di cane, quelle loro voci. Vorrei andare in cucina e dirgli: State zitti!  Ma rimango con te, perché non so fare altro.

Erano mesi che non si facevano vivi. L’ultima visita a Natale, e già  siamo ad aprile. E tu che dicevi: Hanno tanto da fare, non hanno tempo. E stanno lontani. E poi lo sanno che ci sei tu, per me. Non sono cattivi, dicevi, mi vogliono bene. E io che ripetevo: Sì, non sono cattivi, signora.  Non trovano il tempo. Ma intanto pensavo che il tempo io, al posto loro, lo avrei trovato, e mi veniva da farti una carezza sul viso reso stanco dagli anni. Ma la mano mi si fermava, perché c’è stato sempre un pudore dei gesti, fra noi.

E continuo a guardarti, mentre ti tengo una mano, ora che il pudore non fa più muro, e dalla finestra entra l’aria  salata di mare e arrivano le voci dei gabbiani e della vita che continua. Al mare ci andavamo anche d’inverno. Mi dicevi: Copriti bene, che c’è vento, oggi. Ti piacevano quelle mattine ventose, con le onde del mare che sbattevano sulla scogliera e si aprivano in spruzzi bianchi, per poi ritornare giù, e lasciare il posto ad altre. Mi raccontavi che nell’infanzia il mare ti faceva paura, ma che un giorno hai pensato che era brutto avere paura di una cosa tanto bella, allora hai deciso di entrare nell’acqua. E il mare mi ha abbracciata, dicevi, mi ha abbracciata e io ho abbracciato lui, ma piano, con dolcezza, come due fidanzati giovani giovani, raccontavi. D’estate, alla spiaggia ci andavamo poco prima che il sole calasse. Dicevi che quello era il momento più pulito del giorno. C’erano volte che camminavamo  fino  al molo, tu con quei tuoi passi lenti, come se i piedi avessero parole da pensare e non volessero farsele  sfuggire. Io che a fatica rallentavo il passo, che sempre ho camminato veloce, nella mia vita. Sempre a rincorrere qualcosa, o qualcuno.

Stavamo in silenzio, per la maggior parte del tempo. Poi, quando era ora di tornare, cominciavi a dire: Quando era vivo mio marito… Ed era come se ti fossi ripassata una storia, dentro di te, mentre camminavamo sul bordo del mare, e, finalmente sicura, la tirassi fuori. Raccontavi con una voce incantata, sentivo note di musica felice, nella tua voce. Come se raccontassi l’Eden. Io ti ascoltavo, io, che il marito ancora ce l’avevo vivo, là, nel mio paese, ma non era l’Eden, la mia storia, pensavo. Dicevi di lui, di come fosse gentile e bello, non proprio bello, aggiungevi, un tipo alla Jean Gabin, così, ma gentile. Non sapevo chi fosse Jean Gabin. Una stella del cinema, mi hai detto. E quando siamo arrivate a casa mi hai fatto vedere una sua foto, su un giornale ingiallito e hai preso la foto del matrimonio e l’hai messa vicino alla fotografia del giornale. Sì, ho detto, si assomigliano. Anche se non lo pensavo. Per farti piacere, l’ho detto.

Chissà dove le metteranno, loro, le fotografie. E i tuoi libri, quelli che mi leggevi ad alta voce. Senti come è bella la mia lingua, dicevi, e mi spiegavi ogni parola che non conoscevo, e mi si apriva un mondo, davanti agli occhi. Li butteranno, loro, quei vecchi libri. Butteranno i libri, la fotografia di Jean Gabin  e gli asciugamani che, mi hai detto, avevi ricamato per il tuo corredo.

Continuano a ringhiare, di là. Ringhiano per  quel foglio.  Per quel foglio che hanno trovato, uguale a quello che tu hai portato dal notaio, saranno due mesi. Me lo hai letto, quel foglio. C’è scritto che mi lasciavi la casa,  quando saresti morta. E io ho detto: No, lei non muore, signora.

E invece.

Questa mattina mi hai detto: Non ho voglia di alzarmi. Dormo ancora un poco. E non ti sei svegliata più.

Ma io la casa non la voglio. Non è casa mia, adesso che te ne sei andata.

Adesso glielo vado a dire, ai tuoi figli, che non la voglio. Che stiano tranquilli. Che la casa è loro.

E che facciano silenzio, alla fine.

 

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