Corrispondenze al femminile – Michela Cagossi, Carla Gorini, Terry Migliori, Patricia Quezada
Cara Anna, sono al grigio.
Da un anno la regola quotidiana mi porta qui fuori, al freddo.
Non c’è il sole, non c’è mai.
Provo a ricordare il colore del mattino, tenue e pallido; gradazioni gialle che battevano alle finestre delle case intorno alla mia, quel terzo piano con vista sui tetti e rami intrecciati.
Mi sforzo di immaginare l’odore della pioggia nelle sere d’estate; gocce che solleticavano i miei piedi nudi e li facevano scivolare nei sandali durante le corse in cerca di un riparo.
Chiudo gli occhi, fino a provare un leggero bruciore, e trovo lo sguardo della gente che incrociavo nei pomeriggi d’aprile.
Anche le stagioni mi hanno abbandonata. Le ho dovute lasciare in contenitori di plastica, insieme agli effetti personali, il giorno che hanno chiuso una porta alle mie spalle. Giro di chiavi, impronte digitali, dentro.
Il solito oggi mi ha svegliata. Incontri obbligati in orizzonti ristretti. Ho allungato le mani tra le sbarre delle innumerevoli porte che mi dividono dalla realtà; l’agente mi ha schiacciato il cinque. Nessuna voglia, poca energia. Freddo nelle dita. Lei è l’unica tra le divise blu che mi regala un buon giorno sorridente. Percorro questo buco senza soffitto lungo il perimetro, costeggiando il muro. Conto i passi e ritorno alla base.
«É ora di tornare in sezione» Un’altra divisa, anonima, mi ricorda che la mia ora d’aria è terminata.
Mentre rientro, noto che l’assenza di orologi mi rilassa. A cosa mi servirebbero queste lancette in un luogo che non è mio e nel quale fare è sintomo di impotenza?
Percorro corridoi spogli, freddi. I pensieri ballano durante il tragitto che mi riporta in cella. La noia e il panico si stringono a braccetto in una normalità che mi impedisce di non essere me stessa almeno per un giorno.
Ti scrivo, Anna, perché sento il bisogno di informarmi che ancora esisto. Ancora ho un corpo, una mente, un cuore, un ricordo. Ancora ho tempo.
Non ci sono errori, Anna, ci sono scelte. Solo affrontando le pesanti conseguenze della mia, mi darò un domani. Mentre appunto queste parole osservo lo spazio nel quale dormo, leggo, aspetto, parlo, vivo ormai da un anno. Guardo le uniche cose che posseggo disposte sulla piccola mensola sopra il letto. Qualche libro, fazzoletti, un pacchetto di sigarette vuoto, una mela. La disposizione casuale è ancora frutto del rifiuto a crearmi un mio spazio qui.
Noura invece ha fatto ordine. Le coperte del suo letto sono ripiegate con cura, come gli indumenti che possiede. Vorrei chiederle se anche lei a volte ha paura di non andarsene mai più e se in questa meticolosa attenzione agli oggetti e alla loro posizione, si nasconde, in realtà, la necessità di ricostruire casa.
Se penso a casa la malinconia mi divora. Quante notti a mordere il cuscino per non farmi sentire, quanti pomeriggi al grigio, il volto basso, con l’intento di non incrociare sguardi curiosi. Ho passato mesi prima di pronunciare un saluto e invece amavo sorridere alla gente per strada, in autobus, mentre andavo a comprare il pane.
Ormai, ogni volta che penso di oppormi all’Istituzione, o semplicemente cerco altre strade per contrastarla, non mi riconosco più: dov’è sparita la mia personalità? Ero una politica, un’attivista senza peli sullo stomaco, consapevole di essere destinata allo scontro, alla lotta, alla vittoria. Ho perso il coraggio.
Ho abbozzato il ritratto di Paolo: ho marcato le sopracciglia, insistendo con la penna sul foglio, bucandolo. Ho dimentico il colore dei suoi occhi e capisco il perché, li teneva stretti, contratti. Stavo con un uomo che amava la lotta e la politica, poi, forse, amava me. Ho provato tante volte a controllare la gelosia. Un rapporto a tre difficile, snervante: dovevo vivere con lui e imparare a stare da sola. Non ho mai pensato di essere qui per colpa sua. Non gli ho mai scritto. Tante volte avrei voluto che lo avesse fatto lui.
É buio. Oggi la sera ha avuto l’audacia di arrivare prima. Una canta lenta una nenia. Non so chi sia, forse la napoletana arrivata qualche settimana fa.
La tristezza invade la sezione. C’è chi si ribella e batte pugni al muro e insulta questo canto amaro. C’è chi ascolta e piange; le più forti canticchiano anche loro con sorrisi maturi e coscienti.
Concentro lo sguardo sulle miei mani, tremanti e bianche. Libere di esprimere paura e sconforto. Le lascio fare ma rimango ferma.
Muovo il collo con delicatezza e mi sfioro il volto. Non sono più abituata ai gesti morbidi, alle carezze.
Mi sistemo al meglio, consapevole che sarà la solita notte infernale, fatta di eterni risvegli, di sogni scomposti e rumori metallici. Ci sarà sempre qualcuna che piange, che cerca di sfogare le paure del giorno. Poi mi riaddormenterò sapendo che oggi sarà domani, come è stato ieri.
Questa sono io, ora.
Anna
***
Cara Anna,
è passato qualche mese dalla prima lettera e i pensieri hanno preso forma. Oggi, al grigio preferisco l’ordine della biblioteca. Mi sono sistemata in un angolo del tavolo vicino alla finestra, così, ogni tanto, mi permetto di credere che sono lì con te, a casa, tu prepari il caffè e io, seduta alla scrivania, mi diletto con le parole.
Da alcuni giorni non sono più nella solitudine che mi ha tenuto doppiamente prigioniera per tanto tempo. Mi sono concessa di scambiare parole con le donne della sezione, e Noura, la marocchina compagna di cella, non è più un’ombra.
Il suo sguardo è sempre stato su di me, ma io non la vedevo. Non volevo. Ero convinta del fatto che vedere significasse accettare questo luogo. Quanto tempo Noura ha dovuto aspettare prima che incontrare i suoi occhi smettesse di infastidirmi: « Quella lì, con le sue preghiere a capo coperto, come le bigotte di quand’ero piccola, chissà di quanta sottomissione l’hanno imbottita. Cosa può aver mai combinato? Cosa può avere in comune con me? » pensavo.
Grandi occhi scuri, pelle olivastra, capelli nerissimi marcavano un volto pieno di sofferenza.
Dieci giorni fa, si è svegliata col broncio. Dopo essersi affaccendata nel poco spazio della nostra stanza, per creare il suo religioso ordine, si è seduta sul letto con le gambe tirate su, le braccia avvinghiate alle ginocchia, lo sguardo smarrito chissà dove.
« A chi penserà? » mi sono domandata.
I suoi occhi si sono fermati su di me e mi hanno avvolta in un abbraccio desideroso di tenerezza. Ho fatto finta di niente. Lei non si è arresa e, con voce mite, ha cominciato a raccontare:
« Sono venuta in Italia con un permesso di soggiorno turistico. Mio marito mi aveva telefonato Ho un lavoro, una casa, raggiungimi. Voglio stare con te. Ti amo. Lascia Mhedi ai nonni. Torneremo a prenderlo. Al mio arrivo, però, non c’era nessuna casa, nessun lavoro, che disperazione! Prima dell’Italia non mi aveva mai mentito. Non potevo parlare con nessuno, ero una donna sola, lontana dai miei. In Marocco, lui, come tanti mariti, pretendeva che gli ubbidissi senza protestare: il mio compito era essere moglie e madre. Era gelosissimo di suo figlio, il mio Mhedi, nato otto anni fa ».
Noura sorrise dolcissima e strinse ancor di più le ginocchia al petto.
Non sapevo perché, ma, nell’ascoltarla, provai il desiderio di chiamare un’agente. Oggi lo so, invece: non volevo essere coinvolta, volevo farla tacere. Quell’avvinghiarsi a se stessa mi aveva bloccato.
«Mhedi, il mio piccolo tesoro, è con i nonni paterni. In Marocco i bambini stanno con i genitori del padre, se i loro sono lontani. Mi è difficile guardare la sua foto, ma non riesco a resistere. I suoi occhioni mi ricordano il momento in cui si erano riempiti di lacrime al nostro addio. Però Mehdi non ha pianto, come un vero ometto. Ma io l’ho tradito».
Colpo forte. Una madre non può tradire suo figlio. Il pensiero mi ha fatto pulsare le mani e ho cominciato a strofinarle a scatti disordinati. Intanto lei continuava:
«Quanta gioia avere tra le braccia il mio bambino appena nato. Subito mi ha stretto un dito, e mi sono sentita mamma. Hai freddo? »
Mi ha preso le mani e, con un movimento lento e deciso, le ha fatte smettere di pulsare.
«Allah mi aiuti» ha riattaccato «devo dirti il peggio. Ne ho bisogno».
Taci, ho supplicato in silenzio.
«Per fare soldi, lui voleva che diventassi puttana. A fatica ero stata una moglie obbediente, ma questo no! Passava da lusinghe e gesti gentili a botte e insulti. Più di una volta sono stata al pronto soccorso dicendo che mi ero fatta male in casa. Però un giorno, all’ospedale, una dottoressa mi ha convinto a denunciarlo. Lui, con minacce di uccidermi, mi ha costretto a ritirare la denuncia. Ho cominciato ad avere molta paura. Una sera, ero in cucina, mi ha picchiato con più cattiveria del solito e ho visto la mia morte nei suoi occhi. Sulla tavola c’era il coltello della carne, l’ho preso e l’ho infilato dentro al suo corpo. Per mia fortuna, la ferita non è stata tanto brutta. Quella denuncia, anche se ritirata, si è aggiunta alla testimonianza della dottoressa delll’ospedale. Per questo la condanna non è stata tanto pesante, anche se è duro stare qui. Dopo, sarà peggio: lui non mi permetterà di vedere il mio Mhedi, è questa la vera punizione per la mia colpa».
«Non dirlo mai più» sono scattata «Non esiste la colpa di essersi difese da un uomo violento che considera una donna come oggetto di proprietà. Stai solo pagando un debito a una legge. Riuscirai a vederlo, tuo figlio».
Non so se è stato perché avevo le mani calde e leggere, il fatto è che sono andata ad abbracciarla.
Scalpiccio, chiacchiericcio, porte aperte e richiuse segnarono il rientro dall’ora d’aria, che noi avevamo saltato. Un urlo e delle grida d’aiuto zittirono ogni rumore. L’attimo d’immobilità fu seguito dalla frenesia. Passi in corsa, una porta vicina – quale? – che sbatteva, l’ordine di far venire subito l’infermiera, sollecitazioni alle donne a rientrare nelle celle e intimazioni a tutte noi, che volevamo sapere cos’era accaduto, di star buone e non cercare guai: Una si è fatta male, tutto qui. Chi? La Bruni. Basta!
Come si era fatta male Annarita? Quanto?
«Erano brutti quegli urli. Troppo brutti». Continuava a ripetere Noura scuotendo la testa.
«Dai!» dissi accendendomi una sigaretta, il fiammifero che tremava un po’ tra le dita « Angela è così impressionabile. Quando ha visto la compagna…»
«Perché Annarita non ha chiamato? Non eravamo tutte fuori».
«Forse ha battuto la testa ed è svenuta» dissi stringendomi nelle spalle «O forse ha paura di mamma Lina. È convinta che lanci il malocchio. Vedrai che darà la colpa a lei per quel che le è accaduto». Noura sorrise.
Mamma Lina era una signora di cinquantotto anni, sempre vestita di nero, sempre con una vecchia bibbia tra le mani, il sorriso dolcissimo e modi gentili. Era in carcere per complicità in omicidio. Secondo i giudici, aveva venduto a una cliente la pozione velenosa con cui la donna aveva ucciso il marito.
Annarita sosteneva che era stata una famosa fattucchiera; lo sapeva bene, lei, perché i loro paesi erano abbastanza vicini. Annarita, molto persuasiva, aveva fatto il vuoto attorno a mamma Lina.
Quanto a sé, si dichiarava innocente. La condanna era stata per collusione con la camorra, ma le visite regolari, che faceva come fisioterapista, a don Ferdinando erano servite soltanto a dare sollievo a una gamba azzoppata.
I mozziconi di sigaretta erano una decina, quando sentimmo passi pesanti e affrettati arrivare alla cella di Annarita e tramestii nel corridoio. Però non riuscimmo a sapere niente sino all’ora della cena. Era morta suicida, impiccata.
La forchetta mescolò a lungo la purea di patate nel mio piatto, e Noura formò un piccolo Everest nel suo, ma nemmeno un briciolo di cibo scese nelle nostre gole. Più tardi, Noura si avvicinò al mio letto e mi si sdraiò accanto; la lasciai rimanere: anch’io avevo bisogno del calore di un corpo accanto a me. Come si muore qui dentro, perché ci si ammazza è molto difficile capirlo fuori.
Due giorni dopo, al grigio, Angela mi avvicinò:
« Eri una attivista politica, vero? Ti conosco poco, ma devo fidarmi ».
Mi raccontò che, mentre faceva la scopina, aveva origliato una conversazione tra l’infermiera e una educatrice. Le loro frasi erano di rabbiosa sconfitta.
Ci sarebbero state probabilità di salvezza per Annarita, se il medico fosse arrivato subito, ma era occorso troppo tempo per rintracciarlo. I fondi erano sempre meno del necessario e dottori, psicologi, educatori insufficienti.
« È vero che Annarita non sembrava così giù. » concluse Angela « Curava molto i suoi bei capelli rossi, si truccava e si vestiva al meglio. Però alla sera cantava canzoni tanto tristi. In principio le chiedevo di smettere, ma lei rispondeva che non poteva. Mi ero rassegnata a tapparmi le orecchie con fazzolettini di carta, anche se non bastava. Dì, puoi raccontare a qualcuno tutto questo perché finisca sui giornali? No? Allora potrai fare qualcosa quando uscirai? »
Avrei potuto? Avrei voluto?
« Non lo so. Forse. Manca parecchio. »
« Molto meno che a me ».
Scappai in cella. Noura capì che stavo male e volle il perché.
Raccontai. Piansi per la richiesta che Angela mi aveva buttato addosso, perché era giusta, ma non ero più io la persona a cui rivolgerla.
«Chissà» disse Noura «Del tempo per capire ne hai un bel po’». Mi porse la metà di una mela e proseguì: «Guarda come è bella la stella a cinque punte piena di semini che è al centro. L’avevi mai tagliata orizzontale? Se non si pensa di provare, non si scopre la stella».
Mentre mangiavamo la nostra mezza mela, capii quanto era importante avere Noura con me.
Adesso siamo davvero in due. Percepisco una dimensione familiare, nel nostro spazio stretto, le sbarre della finestra velate dalle tende a fiori con frappine fatte da Noura, al corso di cucito di cui non aveva bisogno: è un’arte che ha appreso da ragazzina. Tuttavia per lavorare le servono aghi e forbici e solo al corso può trovarli.
I nostri vissuti sono differenti, le nostre culture anche, ma siamo due donne e, qualunque sia il paese in cui siamo cresciute, da millenni, in modo elegantemente subdolo o brutale, siamo soggette al patriarcato, sia che ci lapidino per immoralità o ci brucino come streghe. Il femminicidio pervade secoli e continenti. Come posso essere stata così stolta? Concionavo contro le ingiustizie e per la parità: di chi? Guardavo Noura, vedevo uno stereotipo e dimenticavo tutto il mio sapere. Ora la riconosco come compagna.
Un raggio di sole ha trapassato le nuvole e mi inonda di luce. Ho voglia di prenderlo come buon augurio.
Anna
***
Cara Anna,
dopo la morte di Annarita, la tristezza ci appannava.
Un mattino hanno portato nella nostra cella un’altra donna. Una latina. Le agenti l’hanno sospinta dentro dicendole:
«Basta con gli insulti, ragazza, questa è la tua nuova cella e vedi di calmarti, la prossima volta chiamiamo il sovrintendente!»
« Vayanse a la mierda, perras! » ha bisbigliato con disprezzo la sudamericana mentre rovesciava le sue poche cose sul letto vuoto e continuava a ripetere come un mantra «perrasperrasperras» senza degnare Noura e me di uno sguardo.
La nuova si butta sul letto, la testa coperta con il magro cuscino della branda. Impercettibili brividi le percorrono le spalle. I lunghi capelli, lisci e neri, si riversano sul bordo del letto.
Noura e io ci guardiamo, lei inarca le sopracciglia come a chiedermi cosa fare, ma l’altra, rapida, si alza in piedi e ci urla: « Cosa guardate, puttane?! Lo spettacolo è finito! Chiuso! Terminado! Non c’è più nulla da guardare! » e, mentre comincia a intrecciarsi i capelli, con voce amichevole chiede: «Avete qualcosa da mangiare? Esas perras… ho una fame da lupo!» poi abbozza un sorriso, lascia i capelli e si prende a colpetti sulle anche generose, appena coperte dalla felpa sgualcita.
Muta, osservo questa donna dall’energia irruenta e indecifrabile. Occhi neri, quasi orientali, il naso piccolo. Il dolce disegno delle labbra contrasta con il suo comportamento. È più giovane di me e di Noura: venti, ventidue anni, non di più. Ha pomoli alti, tratti indubbiamente indigeni. Quali indios? Forse viene dal Perù, o dalla Colombia.
Mi guarda divertita e esplode in una risata: “Oooh, che hai Chicaaa? Non mi dire che sei spaventata! Sei bianca come un lenzuolo. Dai, non fare così! No soy tan mala, solo un poquitico cosi!” e, sorniona, unisce appena il dito indice con il pollice proprio davanti ai miei occhi.
Mi ha frainteso: purtroppo per lei ho smesso di aver paura. È che la sento come una disgrazia che mi devo tenere appiccicata al fianco chissà per quanto tempo. Le sue parole, però, mi stanno facendo salire dallo stomaco un bollore che vuole sputare imprecazioni come lei. Noura, ormai giù dal letto, tranquilla come sempre: « Salam aleikum – dice – Sono Noura, abbiamo dei dolcetti e saremo felici di mangiarli insieme a te».
« Muchas gracias! Bueno, inizio da capo. Hola! »
Con un buffo saluto circense, si toglie il cappello immaginario, lo agita davanti a noi in invisibili ghirigori e, inchinandosi, dice: «Mi chiamo Dilma, soy de Colombia, studio antropologia, faccio la danzatrice per passione e soy una maldita mula per amore».
Puoi crederci Anna? È successo: ci siamo guardate e siamo scoppiate in una risata.
A modo suo, Dilma ci aveva detto che è qui con la sua storia, come me, come Noura. Cronache di vite diverse, ma simili nella sostanza: fregate tutte dall’amore per un uomo che voleva usarci e dalla nostra volontà ingenua. Ora capisco l’amaro in bocca che mastico da più di un anno.
La voce di Paolo sapeva giocare così bene con l’aria, anche densa di fumo, che le parole ti entravano nel petto come le più giuste e i dubbi svanivano; tutti, sempre, finivano con l’approvare le sue proposte.
Parole di uno che lottava, da maschio, contro lo stesso potere dominante che anch’io volevo abbattere, perché, diceva, sacrificava anche molti uomini.
Il giorno della manifestazione contro i fatti di Genova è terribilmente vivido nella memoria.
Usare ira fredda, aveva detto lui, essere lucidi e razionali al momento dell’attacco, un attacco dimostrativo di come la violenza delle forze di polizia non possa che chiamare violenza.
Ma l’ira furiosa di altri ci ha preceduto ed è cominciata la battaglia. Potevo dare loro torto? Come non essere arrabbiati e sconvolti dopo il massacro alla Diaz? Ho stretto il coltellino che avevo nella tasca del giubbotto, lo tenevo lì da giorni, a volte lo accarezzavo, ma in quel momento il contatto mi ha fatto salire in bocca un sapore metallico, nauseante, e ho lasciato la presa.
Ricordare è doloroso, ma mi costringo. Sgomitavo nella ressa per cercare di vedere i miei, quando un poliziotto ha buttato a terra una ragazza accanto a me, che urlava il suo terrore, e ha alzato il manganello su di lei. La mia gamba è scattata e il piede lo ha centrato facendolo piegare in due, le mani all’inguine. Un suo collega mi ha colpito sul collo mi ha fatto cadere e mi ha imprigionato le braccia dietro la schiena con un dolore fortissimo. Adesso sono qui e l’ho finalmente scritto e ancora scrivo che non potevo vederli i miei compagni perché, quasi tutti, Paolo compreso, se l’erano filata subito. E scrivo anche che il mio calcio non è stato guidato dall’Ideale, ma dall’ottimo addestramento al corso di autodifesa per donne, e se mi sento vittima non ho torto: i violentatori vengono quasi sempre assolti e le vittime quasi sempre mostrate come colpevoli.
Sai, cara Anna libera, cosa penso del gesto di Noura? Che ha fatto bene a usare il coltello contro il marito e non contro se stessa. Anche se, anziché finire in galera, sarebbe morta onorata. Con quella lama ha reciso il passato e, pur qui dentro, ha cominciato una nuova storia che – sono assurda? – è un inizio di libertà. Me ne convinco sempre di più. L’ho persino sognato, credo: di notte, un uomo mascherato e vestito di nero mi insegue sotto un portico dalle lampade rossastre. Il suo coltello, largo, ben appuntito, è per me. Invece di scappare gli vado incontro. Nella lotta riesco ad afferrargli il polso e a voltare la lama contro di lui. Vederlo morto, provoca una euforica felicità. Mi sono svegliata contenta per quel sogno, e sono rimasta accovacciata nel letto almeno un’ora, a sentirmi bene come una gatta che fa le fusa. Sto tentando anch’io un nuovo inizio? Noura avrà colto questo aspetto della sua azione? Ne dubito, ma cercherò di mostrarglielo. Suo figlio è la leva giusta. Scommetto che Dilma sarà un ottimo supporto.
Dilma…
Quel primo giorno, dopo la risata di tutte e tre, ha dormito a lungo, poi si è messa a fare ginnastica perché “ La mierda che ci danno da mangiare ingrassa ma non nutre. I dolcetti sono finiti, che altro avete?” ha battuto il pugno sul tavolo e imprecato quando le abbiamo fatto vedere le mani vuote.
L’indomani a mezzogiorno, la pasta, condita con olio e formaggio, è volata dal piatto al pavimento:
«Perché?» ha domandato Noura, allibita.
«Quel formaggio è plastica».
«Adesso pulisci» ha sgridato Noura.
Dilma si è voltata verso di me: «Lo fai tu. È formaggio italiano».
« Un cazzo».
Mi si è avvicinata a pugni pronti e io, anche se sono più brava con i calci, ho preparato i miei.
Noura è schizzata tra di noi: «Niente guai, o è male per tutte. Pulisco io. Se vi picchiate una di voi può essere trasferita e io non voglio perdere Anna».
Dilma ha fatto nuovamente finta di scappellarsi, un inchino fino a terra e, con un risolino, ha detto:
«Oooh, scusate signore, non avevo capito che siete amanti».
« Che Allah mi protegga. Sei cattiva».
«In gabbia succede».
«Io me ne frego di quel che pensi – ho detto secca – ma lei no. Siamo amiche».
Dilma, intanto, s’era appropriata del mio pacchetto di sigarette; ho preteso che me lo rendesse: «Quante storie. Sei sicuramente più ricca di me». Ha sfilato una sigaretta e mi ha lanciato il pacchetto. Dopo il primo sbuffo di fumo, si è gettata sulla sua cuccia sfatta e ha detto:
«Ditemi chi eravate prima e perché siete qui. Dopo lo farò io. Tre amiche, no?» ha buttato indietro la testa ridendo a bocca larga. Sono stata contenta che il fumo l’abbia fatta tossire.
«Ah, un’attivista» mi ha detto dopo i nostri brevi racconti. «Conosco delle italiane che ne fanno un mestiere. Tutte con assegno di ricerca e soldini dalla famiglia. Masticano e rimasticano parole, le sputacchiano nei convegni, le urlano in corteo, ma hanno mai provato a faticare? No, la durezza della vita è solo di chi vogliono salvare e non si accorgono di pensare come qualsiasi colonialista, che per di più si crede buono».
Ne aveva incontrate a Rio, a una convention internazionale; erano nel giro di Raffaele, quello pulito. La stanza aveva roteato, quando l’aveva visto.
«Gli angeli dei pittori sono come lui. È così che si presenta, ma è uno spirito del male e mi ha posseduta. Solo qui, quando la polizia ci ha messo a confronto, gli ho visto negli occhi la luce di fiamma malvagia e ho saputo di essere con il culo a terra».
Aveva gridato la verità, ma lui, calmo, gentile, l’aveva fatta passare per una pazza conosciuta a Rio, niente di più. Nel suo lungo discorso, la convention e blabla blabla, aveva infilato più di un nome di persone che, dopo, Dilma aveva saputo potenti e, con buona probabilità, partecipi ai suoi affari di droga.
Dilma era stata la capra perfetta da sacrificare, la ragazza povera, scappata dal suo paesino per studiare e capire meglio noi esseri umani, la nostra storia lungo i millenni, e che si guadagnava la vita come cameriera di bar o lava pavimenti. Ma ecco la valigetta, chiusa a combinazione, che lui si dimentica a casa sua. È importante, le telefona, deve portargliela a Milano. Le dice a chi chiedere i soldi, rimborserà lui. Staranno finalmente insieme anche in Italia.
«Ero felice. Sono scesa dall’aereo e subito arrestata. Usa così: far pescare pesci piccoli per far nuotare più sicuri i grossi. Gli italiani, cosa aspettarsi da voi? Niente di buono da chi viene dall’impero romano che ha voluto dominare il mondo. Ma ormai siete gente piccina, puah» e ha sputato.
Noura si è alzata dalla sedia, ha preso il mio pacchetto di sigarette, mi ha guardata e l’ha allungato a Dilma. L’ho lasciata fare.
Non pensare, Anna, che i nostri caratteri abbiano smesso di scontrarsi, e che, a volte, anzi spesso, non ci troviamo insopportabili, però abbiamo anche i nostri momenti di bellezza. Dilma, con la sua insistenza a battibecco, è riuscita a farci fare ginnastica, a rilassarci i muscoli con l’aiuto dei massaggi di Noura, e dormo meglio. Ha anche iscritto Noura alle selezioni per il coro del carcere. Noura ama cantare e ha una bella voce, ma non osava proporsi. Adesso torna dalle prove felice e con una forza che le fa gli occhi brillanti.
Bellezza, incredibile trovarla qui, ma un pomeriggio…
Noura, nel suo angolo pregava, Dilma la guardava strana. Si è alzata di scatto e, nell’angolo opposto, ha messo a terra una tazzina con acqua e sale, ha imbrattato il rovescio di un’altra con il rossetto rosso, ha acceso una sigaretta, l’ha lasciata fumare nella scatola che fa da posacenere e ha detto:
«L’acqua è l’acqua, il sale la terra, il rosso il fuoco, il fumo l’aria. Qui non ho altro, l’accetteranno gli spiriti dei quattro elementi». Si è messa a ballare intorno a quegli oggetti, battendo le mani e cantando parole incomprensibili.
Una a saltellare e l’altra a borbottare inginocchiata come in una moschea, io in mezzo a quella scena paradossale «Smettetela!» ho ruggito e a Dilma «Cos’è questa recita?».
«Recita? È invocare gli spiriti e la Dea, la Madre Terra e il Dio. Danzare è una grande preghiera e voi l’avete persa».
Noura le ha dato ragione: «È vero, c’erano tante belle danze e le abbiamo abbandonate o rovinate. La Danza del Ventre, per esempio».
«Quella che si fa per il piacere degli uomini e i turisti?» ha sogghignato Dilma.
«Tanto tempo fa, le donne la danzano per se stesse, perché facilita il parto. Era una danza per la nascita» e Noura si è messa a ballare.
Dilma l’ha osservata per un po’ e ha cominciato a imitarla.
Mi sono sentita un pezzo di legno a starmene ferma, sono entrata anch’io nel gioco. Mi piaceva, stavo bene. Abbiamo continuato a lungo e quando abbiamo smesso ero piena di vita.
«Buono» ha detto Dilma, serena come mai: « Ci sono tante danze che muovono bella energia. Le faremo».
La bellezza di buona energia. Era questo che Dilma ci aveva portato, energia e forza. Non dovevamo dimenticare mai più che l’avevamo. L’ho detto.
Dilma ha annuito: «Finché ci servirà ce lo ricorderemo a vicenda. Se me ne ricordo, non ho bisogno di infuriarmi».
Anna che danza ☺
***
Cara Anna di Fuoco e di Vento,
quando sarò nella nostra casa, questo tempo, tanto lungo, lo vedrò nella sua vera misura, non per la distanza dello sguardo, ma per il respiro che comincia a essere meno soffocato.
I muri della cella, dei corridoi, del grigio ancora mi stringono, ma i muri della mente si stanno allargando e la porta rimane aperta. Adesso comincio a riconoscermi e so che lo devo soprattutto a Noura e a Dilma. Da qualche settimana, loro due non sono più con me, ma la loro presenza rimane: nei miei gesti, negli spazi, in quel tempo trascorso qua dentro, io che pensavo che il tempo non potesse passare qui.
Ho come compagna Elena, una donna definita borderline notevolmente intelligente e creativa, ma scombinata. Dice che sua madre detesta Vasco Rossi perché è convinta che sia stato il suo cantare voglio una vita spericolata piena di guai a rovinare la figlia. Il rapporto con Elena è faticoso, ma non cedo, non mi accovaccio più su me stessa.
Mi sono guida i gesti di Noura, dalla calma ordinata, malinconica, inarrendevole. Le sue lacrime che scivolavano verso la bocca sorridente mentre stringeva a sé la foto del figlio. La scintillante irruenza di Dilma. I litigi con lei. Le parolacce che ognuna aveva imparato nella lingua dell’altra. Il far pace, chiarirci e capirci.
Le risate di noi tre, il cantare a tono abbassato per evitare l’intimazione a smettere e la ritorsione su Noura di non farla partecipare alla prova del coro. I pranzetti che ci concedevamo con le nostre spesine, e il beffarci di tutti quei scopina, domandina… usati per renderci bambine che possono solo obbedire. Aumentavamo enormemente il numero dei rimpicciolimenti: scodellina, bicchierino, scarpine, pisciatina.
Sono convinta, mia cara, che, passettino dopo passettino, diventerò l’Anna di Acqua e di Terra.
Ho iniziato a scrivere pensando che tu eri lontana, un ricordo di quello che ero. Adesso mi accorgo che siamo la stessa persona, il passato e l’oggi coraggiosamente presenti.
Penso a Dilma e, tramite lei, respiro il senso del sacro, il rispetto dell’ecosistema che hanno i popoli abitanti la sua terra da prima che arrivassero arroganti colonizzatori con la volontà di ridurli ad esseri puerili.
Non smetterò di lottare contro le ingiustizie, ma non sarò più vento nel turbine di voci stordenti, né fiamma rabbiosa che incenerisce. Comincio a essere il ruscello che ogni giorno accoglie nuova acqua e ne mantiene il ricordo nel solco che incide lungo le sponde, e la terra in lento passaggio da una memoria lontana a un futuro quasi presente.
Non so se saprò cosa accadrà a Noura e Dilma. Ciò che conta è che proprio qui, in questo dentro, abbiamo creato assieme uno spazio in cui semplicemente esistere, e così ognuna ha iniziato a riconoscersi.
Immagino Noura in Marocco, mi ha detto che contatterà un gruppo che lotta per i diritti delle donne. Sarà una battaglia durissima riuscire a rivedere suo figlio perché la potestà è dei padri, ma non si arrenderà.
Dilma ha smesso il rancore, soprattutto verso se stessa, per essere caduta nel fascino e nelle lusinghe di un italiano. L’hanno trasferita in un altro carcere, non ci hanno certo detto perché, ma non le mancano molti mesi alla libertà. Poi tornerà dal suo popolo indio e, con la pazienza che impara a concedersi, inizierà il lungo tirocinio ai saperi di quella cultura. Antropologa e donna medicina: « Diventerò una Saggia o farò un gran casino? » mi ha detto nell’abbracciarmi quando ci siamo salutate.
«Non mollerai» le ho risposto.
«Puoi scommetterci, Chica».
Non molleremo. È questo che abbiamo capito. E non saremo mai sconfitte. Forse non vinceremo, forse diranno di noi che non ce l’abbiamo fatta, ma finché ci proveremo, perché nel profondo sentiamo che lo dobbiamo a noi stesse, non saremo sconfitte. È questa la serenità. Questo è sapere di essere donne.
Anna
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