The border from the other side – Flora Jansen

Che cosa vedremmo se il confine lo guardassimo 
stando dall’altra parte?

(Shahram Khosravi, Io Sono Confine)

BORDER

Veniamo dalla zona della grande fabbrica, come tante Markierte che vivono oltre il confine. Dopo la catastrofe, il terreno è stato contaminato, non è cresciuto più niente non c’era più lavoro. Tutti volevano fuggire verso nord. Anche Alex, Ellen, Caro, Naji e io siamo finiti lì: a nord dell’alta catena montuosa che sin dai miei ricordi primissimi delimita l’orizzonte. Avevo sempre sognato di scavalcare quelle montagne con mia sorella. Volevamo vedere la vita dietro le montagne, dietro la Mura d’argento. Volevamo guardare il confine dall’altra parte. Con il caldo sempre più estenuante negli ultimi anni abbiamo iniziato a pianificare il viaggio. Abbiamo continuato a sognare, anche quando un giorno si è ammalata. Alla fine, però, a causa della catastrofe, tutto è successo più in fretta e sono dovuto partire senza di lei. La sua tosse era peggiorata, così non poteva affrontare le montagne. Avrei dovuto cavarmela da sola e recuperarla dopo.

Ma non sono rimasta sola a lungo. Sulla strada per il confine, ho incontrato gli altri. Come me, Alex, Ellen, Caro e Naji erano in coda al Checkpoint per passare il Grenzschleusungsverfahren, la procedura per ottenere il timbro. Ci siamo messi uno dietro l’altro, e così si siamo conosciuti. Mentre avanzavo nella coda, mi è tornato in mente il telegiornale del mattino:

“Altri 5.000 frontalieri sono stati contrassegnati da timbri. Il Parlamento approva maggiori fondi per la pratica della timbratura.” 

Il presidente parlava anche della “necessità di sviluppare nuove strategie per inserire la forza di lavoro dei Markierte che si trovano sul territorio.” 

Frontalieri, timbratura, Markierte. Sentivo la colazione del mattino risalire lo stomaco. Dopo aver passato il primo Checkpoint, siamo stati tutti, uno dopo l’altro, inseriti in un canale che era altrettanto argentato dell’alto muro che mi separava dall’altra parte del confine. Il canale era l’unica interruzione e passaggio in questa parte del Muro che si estendeva fino all’orizzonte. Poi all’improvviso, era arrivato il momento: Naji è passato e dopo era il mio turno: EURODAC fingerprintscan, biometric facial screening, anti-crime social credit biography scan, e infine un Screener che mi ha stampato il timbro sulla pelle. 5001, 5002, 5003, 5004, 5005. Altre cinque persone che fanno ora parte del gruppo dei Markierte.

Così abbiamo attraversato il confine e diverse categorie. Eravamo cittadini nel nostro paese, frontalieri qua nel mezzo e saremo Markierte dove arriveremo, oltre il confine. Da quando sono stati introdotti i Grenzschleusungsverfahren, l’asilo non c’è più. Anche gli ostacoli per i visti li sono trasformati in una risorsa dei ricchi. Noi altri possiamo migrare, ma solo se agiamo come forza lavoro. Così ci sono le persone per cui il confine è sempre presente, e altre persone che l’incontrano mai. I loro corpi non sentono mai il silenzio violente della frontiera, non vedono mai i muri argentei e non le tocca mai uno Screener. 

Essere Markierte significa essere una finzione giuridica. Il tuo corpo fisico esiste sul territorio oltre il confine, ma davanti alla legge non esiste: i Markierte non possono accedere a nessun servizio, non ricevono sussidi e non possono votare. L’unica cosa che interessa lo Stato è la loro forza di lavoro. 5001, 5002, 5003, 5004, 5005. Alex, Ellen, Caro, Naji e io siamo state classificate in categorie diversi a seconda della nostra origine e del lavoro che abbiamo svolto in passato. Anche se alla fine rimaniamo tutti Markierte. 

I primi giorni all’altro lato del confine sono stati duri: abbiamo dovuto percorrere lunghe salite, sentieri tra le vette, e non ci siamo quasi mai fermati. Finalmente, dopo una settimana, siamo scesi a valle. Da lontano, abbiamo visto i piccoli campi coltivati ai piedi della montagna.  Per la prima volta da giorni ci è venuto da ridere e siamo corsi giù, per gli ultimi cento metri di altitudine. Abbiamo raccolto zucchine, melanzane ed erbe fresche e abbiamo festeggiato, godendoci l’aria chiara. Ci siamo accorti tardi che un signore anziano veniva verso di noi con le gambe traballanti. In fretta e furia abbiamo nascosto le verdure dietro la schiena e le nostre risate sono cessate di colpo. Abbiamo capito subito che lui era il proprietario della terra, ma per nostra sorpresa, non ci ha minacciati. Ci ha invitato a mangiare. Una sera si è trasformata in giorni, in settimane. E siamo rimasti. 

HOME

Quando è chiaro che la vecchia vita è finita, ne è iniziata una nuova e non si può più guardare indietro?

(Saidiya Hartman, Lose your mother)

La vecchia fattoria era fatiscente. C’erano cose da fare ovunque. Ma la vita è tornata con noi: abbiamo annaffiato, diserbato e cucinato insieme. Eppure, ogni giorno che rendevamo la nostra casa più confortevole, la nostalgia si faceva sentire più forte. Ad ogni aiuola piantata ci rendevamo conto che non saremo più tornate al luogo delle nostre origini e che quel luogo non esiste. Quando arrivava un momento di tristezza, sui nostri volti si leggeva il dolore. Allora ci abbracciavamo, ma non ne abbiamo mai parlato ad alta voce. Finché un giorno, mentre seminavamo le zucchine, Ellen mi ha chiesto di mia sorella. Nessuno lo aveva ancora fatto e così le ho raccontato:

“Emy è nata esattamente un anno prima di me, nello stesso posto, nello stesso giorno e alla stessa ora. È la persona con cui ho condiviso la maggior parte della mia vita e per questo è l’unica persona che mi conosce davvero. I nostri genitori ci hanno cresciute allo stesso modo: la stessa educazione, gli stessi vestiti. Abbiamo giocato con gli stessi giocattoli, abbiamo frequentato la stessa classe a scuola. Nello stesso periodo abbiamo iniziato a lavorare, anche se non volevamo, avremmo continuato a giocare per sempre. La sera andavamo nella piccola casa abbandonata che avevamo occupato e restavamo lì tutta la notte. Scarabocchiavamo sui muri: lei disegnava, io scrivevo. Intanto sognavamo di poter vivere altrove, dall’altra parte delle montagne. Abbiamo cominciato a progettare la fuga, non volevamo più lavorare nella grande fabbrica. Dopo meno di due anni là dentro, Emy ha iniziato a tossire. Fino alla fine ho sperato che non fosse così grave. Abbiamo continuato a frequentare il nostro posto segreto e a fare progetti per esplorare il mondo, ma la sua salute peggiorava ogni giorno. Poi è arrivata la catastrofe e chi ha potuto è partito. Mia sorella è rimasta con i miei genitori. Loro volevano restare vicino all’ospedale della città più vicina, perché avevano paura di ammalarsi. Anch’io avevo paura e per questo sono scappata. Volevo trovare una nuova casa. Altrove.”

Con questo campo appena seminato, la nostra casa conobbe una nuova storia. È diventata la nostra.

RETURN

Vengo da lì. Vengo da qui. Non sono lì e non sono qui. Ho due nomi, che si incontrano e si separano, 

e ho due lingue. Dimentico in quale sogno.

(Mahmood Darwish, Unfortunately, It was Paradise)

È stato difficile mantenere i contatti con le nostre famiglie. Avevamo i cellulari, ma non avevamo accesso alla rete perché siamo Markierte. Di tanto in tanto abbiamo chiesto al vecchio contadino di usare il suo accesso. Ma non lo abbiamo fatto troppo spesso. Non volevamo che cominciasse a fare domande e che decidesse di mandarci via. Ma questa mattina, dopo tanto tempo glielo abbiamo chiesto di nuovo. Quando ho aperto i miei messaggi, sono apparse lettere nere su uno schermo sfarfallante:

“Ciao, Emy è peggiorato. Non credo che resisterà ancora per molto. Torni a casa?”

Il dolore mi brucia le palpebre come un incendio. Le parole e i pensieri martellano la testa, si accavallano l’uno sull’altro e mia vista si offusca. Tutto gira: il mio corpo, la stanza, il mondo. Metto le mani sugli occhi e questo mi aiuta. Il respiro si calma. Devo tornare indietro, oltre le montagne. E pure in fretta. È passata una settimana dalla data del messaggio. Chissà cosa è successo da allora? Domani lo dirò agli altri. Con le spalle appoggiate al muro, digito con mani tremanti: “Tornerò”.

Il giorno dopo ci siamo incontrati nel campo. Io avevo dormito poco e avevo già iniziato a diserbare. Alex, con voce premurosa, mi ha messo un braccio sulla spalla:

– Stai bene?

Ho dato a loro la notizia. Un pugno nello stomaco e un silenzio denso, accompagnato da respiri profondi. Ellen è stata la prima a romperlo: 

– Puoi attraversare di nuovo il confine, ma poi ti registrano come rimpatriato.

– Sei sicura di voler andare? – interviene Naji con lo sguardo triste. – Dopo non potrai più ritornare.

Le lacrime gli sono scese sul viso. Ho dovuto distogliere lo sguardo. Le parole riecheggiavano sul campo. Che cosa significa questo per noi?

– Ti darò le mie pastiglie per l’acqua, così potrai bere quella che troverai lungo la strada. E stasera facciamo il pane così raggiungi il confine a stomaco pieno, – dice Alex.

Gli altri hanno riso. Una risata disperata, perché tutto sembrava così assurdo. Ridevano anche per non ammettere che la nostra nuova famiglia stava per perdere un membro: me. 5001, 5002, 5003, 5004, ___.

FAMILY

Per me l’esilio è questo: la mia anima non è tornata in tempo. L’esilio è quando si vive in un luogo e si sogna in un altro. L’esilio è il sogno di tornare a casa. Nell’esilio si è posseduti dalla nostalgia, indipendentemente dal luogo. 

Il mondo intero diventa una prigione. 

(Sharam Khosravi, The “Illegal” Traveller)

La mattina dopo gli altri si sono chiesi perché non fossi alle sette in cucina come avevamo concordato. Hanno bussato alla mia porta e mi hanno trovato sdraiata nel letto, con lo sguardo sul muro. Avevo un terribile mal di testa. E quando ho cercato di riprendere fiato, si è sentita una tosse profonda provenire dai miei polmoni. Con sguardo preoccupato, hanno portato tisane con miele. 

– Hai bisogno di forza per il viaggio, è meglio partire domani, – diceva Ellen mentre si si stringevano intorno al mio letto. Sono ritornati a mezzogiorno, all’ora del tè e di nuovo la sera. Le mie condizioni peggioravano. Sapevo cos’era: la malattia inizia con una tosse in gola, poi si sposta nei bronchi fino a depositarsi nei polmoni. Dovevo sbrigarmi a partire.

Il giorno seguente, gli altri hanno scambiato poche parole, mentre ponevano le ultime cose nel mio zaino, e mi preparavano un sacchetto di cibo e dell’acqua filtrata. La tristezza aleggiava come un brivido freddo. Alex ha preso in spalla il mio zaino. Mi accompagnerà al confine, lo hanno concordato ieri. 

– Sei più tremolante del vecchio contadino, – hanno detto. 

Con abbracci affettuosi e passi lenti abbiamo lasciato la fattoria. Siamo passati davanti ai campi dove una volta abbiamo rubato gli ortaggi, poi abbiamo seminato per mesi. Ora mi indicavano la strada per tornare al mio vecchio mondo. Le mie gambe mi hanno accompagnato solo perché sapevo che finalmente avrei potuto rivedere mia sorella. Dopo lunghi giorni e notti con poco riposo, siamo arrivati alla frontiera. Da lontano ho potuto vedere le Mura d’argento che si stagliavano all’orizzonte. Con le poche energie rimaste, ci siamo diretti verso il Grenzschleusungskanal. Erano stati aggiunti nuovi Checkpoint, e molte persone in uniforme stavano in piedi tra noi e la frontiera. Come dice quella poesia, anche se i muri sono fissi e inerti; invece, i confini sono agili in continua evoluzione. 

Gli uomini in uniforme ci avevano già notato. Uno di loro si è avvicinato con passo svelto. Ci ha parlato in una lingua che non capivamo. Abbiamo spiegato a gesti che solo io volevo attraversare il confine. Ha capito, ha preso il mio braccio e mi ha scannerizzato. Poi ha mandato via Alex con uno sguardo sprezzante. Non c’è stato quasi il tempo di salutarsi. Alex ha posato il mio bagaglio e mi ha dato un bacio; quindi, ha seguito le istruzioni dell’uomo in uniforme ed è andato via. Dopo avermi scannerizzato, l’uomo con la divisa mi ha passato al suo collega:

– È debole, inutile, può rimpatriare.

Dopo mi ha fatto segno di seguirlo. Nonostante il peso del bagaglio, ho cercato di stargli dietro. Il dolore ai polmoni era insopportabile. Ho cerato di sopprimere tutto e di concentrarmi sulla camminata. Ma all’improvviso un attacco di tosse mi ha costretto fermarmi, piegata in due. L’uomo si è fermato, mi ha guardato e mi ha rivolto parole sconnesse.

– Tosse, check fisico necessario.

Ha preso le mie valigie e mi ha chiuso in una stanza vuota. 

– Medico domani, – mi ha detto. 

Tre giorni dopo è venuto. Per dieci minuti ha osservato il mio corpo, controllato il battito cardiaco e guardato in gola. Non ha parlato molto e se non avessi insistito perché mi dicesse cosa avevo, avrebbe scritto silenziosamente “non contagioso” nella mia cartella e mi avrebbe riconsegnato agli uomini in uniforme. Invece mi ha confermato ciò che già sapevo: la mia tosse era quella di tutte le persone che venivano dell’area della grande fabbrica. 

Dopo il check, sono uscita per entrare nel canale che mi avrebbe riportato da dove sono venuta. Oltre la luce penetrante, la vastità si è aperta davanti a me. Ho inspirato l’aria fresca, l’ho sentita fluire nei miei polmoni indeboliti. Poi, mi sono lasciata alle spalle le montagne e il confine. E non mi sono più voltata indietro.

Per mio padre, il ritorno significava l'inserimento 
di storie affinate e ricordi lontani 
nella crudezza della storia 
e un autentico confronto con il presente.

(Leila Abu-Lughod, Return to Half-Ruins)

* La traduzione dei brani citati è a cura dell’autrice.