Suoni dal deserto – Gruppo Tinariwen (Clara Torregrossa, Simone Andrenelli, Alba Pietrantuono, Liborio Pierciaccante)

Cielo, non vi era cielo. Solforosa, salmastra e polverosa gabbia di sabbia, e vento che spostava ogni millimetro di materia lontano. Tutto l’orizzonte si mostrava perenne come granitico blocco rossastro, totale continuità d’infinito, lasciando all’immaginazione la capacità di distinguere la città dal cielo, il deserto dalle nuvole, la polvere dalla sabbia. La città di Gao del 1962 non era dissimile dall’attuale, una macchia gialla di pennello al centro del Planisfero, ad ere di distanza dalla frenesia del mondo.
Ibrahim Ag Alhabib all’epoca era un bambino Tārgī (è la forma singolare dell’aggettivo Tuareg) come moltissimi altri, olivastro, occhi scuri e profondi in cui nascondere l’anima. Sommava a queste tipicità fisiche, echi di radici subsahriane testimoniati dai suoi ispidi e foltissimi ricci neri, che gli avrebbero offerto in futuro una certa qual somiglianza hendrixiana. Trotterellava su e giù per gli stretti vicoli della città fino a che il coprifuoco del padre o gli sguaiati richiami della madre non lo trascinavano a casa. Un bambino come Ibrahim non avrebbe dovuto avere tempo e spazio per interessarsi alle lotte tra formiche, così poco divertenti. Purtroppo però Gao nel 1962 era il più grande formicaio del Mali, e così fu inevitabile per gli Alhabib farsi tali.
Mohammed Ag Alhabib era padre prima che uomo. Era uno Ihaggaren, un nobile, e un amhgar. Della tribù da lui retta non restavano che le ceneri, famiglie sparse per la città, piccoli pastori e faccendieri, ereditari della loro grande storia di commercianti nomadi. La modernità iniziava a falciare le prime vittime, anche nel bel mezzo del deserto maliano.
Suah era la sua splendida moglie, matriarca depositaria di tutta la conturbante bellezza Tārgī. Erede Ihaggaren, progettava già la successione dei suoi beni, aspettando il giorno in cui avrebbe avuto una bambina a cui poter cedere la gravosa gestione della casa e di tutte le loro cose.
Il 17 marzo 1962 non verrà ricordato per questo episodio, certo. Quel giorno la vita fluiva con quel suo fare meccanico, ordinario e ordinato. Fluiva vagamente sonnolento per la famiglia Alhabib. Strano. Una fastidiosa inquietudine attanagliava i pensieri di Moammhed, non solo perché ad aspettarlo c’erano ore di riunione dei capi tribù, no. Qualcosa di più cupo dell’ombra serpeggiava in città. Troppi morti erano stati pianti a Gao negli ultimi anni. Songhay, Tuareg, francesi, nessuno era stato risparmiato. Gli islamisti avevano preso da tre mesi il controllo della città, ricacciando i miliziani malesi. La paura più grande veniva dalle voci dei capi che parlavano di un assembramento di truppe Songhay, raggiunte negli scorsi giorni da reparti scelti francesi. Con l’aiuto di mezzi e uomini dato dalla Francia i ribelli Tuareg e gli islamisti non avevano possibilità di difesa.
L’ombra cresceva, si spostava di vicolo in vicolo, strisciava sulle strade polverose mentre Mohammed si dirigeva a nord, per raggiungere i capi. L’ombra non faceva che seguirlo, la sua fugacità la escludeva al suo sguardo, perciò richiedeva attenzione, come il serpente che si nasconde sotto la sabbia. Volgendosi attorno si accorse che era stato troppo a lungo preda dei suoi pensieri da poter notare la terrificante calma della città. Il rombo dei carri lontano. Le voci dei soldati agli angoli, ormai troppo familiari per lui, erano scomparse.
«Dove sono i militari? I ribelli sono scomparsi?!»
Mohammed aveva troppi anni alle spalle per non darsi risposta: «Arrivano i francesi!» urlò al vento. Corse più veloce che poté, giù per i vicoli, attraversando il Suk Nord e la manciata di casupole degli allevatori, la poca strada che lo separava da casa sua. Arrivato, quasi sfondò la porta per la foga. Suah trasalì riconoscendo la paura nel volto del suo uomo. Raccolse tutto ciò che poté, senza dire una parola, prese tutti i tagelmust più belli che aveva e li usò come tovaglie per trasportare oggetti. Mohammed si accovacciò sotto il tavolo, sollevò una pietra del pavimento, più sconnessa delle altre. Aveva nascosto lì tutti i loro pochi averi.
In quel momento, osservandoli, senza saperne nulla avresti chiara la visione della loro storia. Il loro immenso bagaglio genetico di commercianti nomadi li rendeva pronti, esperti e rapidi allo spostamento. Impacchettavano le loro cose con tecnica perfetta, ed in pochi minuti erano pronti a lasciare quella piccola casa.
«Che diavolo sta succedendo!» Ibrahim arrivò in quel momento. Non aveva mai pensato di doversi preparare a questa evenienza, non ne capiva neanche il senso.
Suah le si avvicinò e gli prese la mano. Parlò con voce bassa, una voce però piena di speranza: «Ce ne dobbiamo andare, Ibrahim. Dobbiamo lasciare questa città per un po’. Non hai nulla di cui preoccuparti, andremo da dove noi tutti veniamo». Presero la via per il deserto, uscendo da Gao per percorrere la strada che portava alle oasi dove vivevano tribù Tuareg. Troppo tardi. Da ovest e da nord i soldati malesi e le milizie Songhay erano entrati nella città, mentre i francesi osservavano appena fuori. Scoperta la fuga dei ribelli, gli europei non volevano prender parte a ciò che stava per compiersi. I capi delle milizie Songhay avevano ricevuto nomi e indirizzi delle famiglie Tuareg che avevano avuto a che fare con la ribellione, soprattutto di coloro che avevano combattuto. Mohammed era tra quest’ultimi, fiero sostenitore della causa del suo popolo, aveva in passato partecipato alle prime azioni mosse dal Fronte di Liberazione dell’Azawad, per poi scegliere di dedicarsi al sostegno della sua tribù.
Ibrahim ricordava ancora bene l’AK-47 che suo padre aveva portato a casa mesi fa. Aveva visto Moahmmed smontarlo e rimontarlo centinaia di volte, lo aveva visto esercitarsi, scambiare consigli con gli altri capi sui diversi approcci all’arma. Ibrahim era anche riuscito ad eludere la sorveglianza del padre e giocare col fucile, fingendosi ribelle che spara al cielo. Un gioco, un bellissimo gioco; era stata questa la sua guerra fino a quel giorno.
Prendere la via per il deserto significava avventurarsi sulla strada polverosa che conduceva anche alla Tomba di Askia, e questo implicava dover uscire allo scoperto, attraversare la piana deserta che circonda la città senza possibilità di riparo.
Avevano attraversato la porta della città da meno di un chilometro, giusto in tempo prima che le uscite venissero bloccate, e stranamente non incontrarono nessun miliziano da quella parte. Fuggivano come forsennate antilopi, così concentrati sulla presenza del leone loro inseguitore da non aver neanche notato la marea di uomini attorno a loro. Famiglie intere correvano nella polvere nella speranza di arrivare il più lontano possibile dalle porte di Gao, trascinando con sé qualunque cosa il tempo aveva permesso loro di prendere. Bambini con agnelli in braccio, giovani armati, donne sovraccariche di sacchi, la carovana scalciava alla spicciolata, in silenzio, piangendo.
Erano fuori da più di un’ora quando Moahmmed fece cenno a Suah e Ibrahim: «Seguitemi! Ho intravisto Hassan e i suoi laggiù! Siamo stremati e dobbiamo radunarci, la Tomba non è lontana…».
La fatica stava prendendo il sopravvento mentre l’adrenalina iniziava a calare la sua esplosione, quando, provvidenziali, si diffusero nell’aria le parole più liete che si potessero udire: «Askia!» Moahmmed e i suoi avevano appena raggiunto Hassan quando lo udirono pronunciare quella benedetta parola. Ci fu un arresto simultaneo della carovana. Sparsi per la piana, quasi tutti protrassero lo sguardo verso l’orizzonte, cercando di scorgere la sagoma acuminata della tomba.
«Allah Akbar!» Il grido si levò, prima uno, poi dieci, cinquanta. Gli esuli avevano raggiunto la prima tappa del loro rocambolesco viaggio, ancora increduli di non aver nessuno alle loro spalle. Si radunarono, gli uomini e i ragazzi decisero di incamminarsi in avanscoperta verso il monumento per accertarsi che non vi fosse nessuno. Moahmmed guidava il gruppo di fuggiaschi della sua tribù, per lo più disarmati e spaventati. Il vento spazzava la piana di continuo e la polvere che alzava rendeva la visuale a distanza impossibile.
«Non vedo niente oltre i cinquecento metri… forse quella è la sagoma della piramide?!» disse l’uomo più avanti di tutti.
«Fermi!» tuonò Moahmmed. «Restate bassi, la sabbia ci darà copertura! Cercate di identificare figure in movimento, se ne scorgete levate alta la mano. A quel segnale, che cessi ogni rumore!» Niente. Proseguirono cauti. Erano a qualche centinaia di metri quando udirono il rombo indiscreto di una jeep. Le vetture divennero due, poi più di due e infine arrivarono anche le voci. Gli uomini si congelarono, impietriti come roccia nella sabbia.
Moahmmed si voltò, per fortuna le loro famiglie erano rimaste ancora indietro, troppo lontane per essere viste tra la polvere. Da giovane aveva sfruttato al meglio le poche opportunità che l’occupazione francese aveva donato al suo Paese: aveva frequentato una scuola aperta dai francesi a qualche chilometro dall’oasi dove viveva, avendo avuto così la possibilità di apprendere la loro lingua e alcune delle loro usanze. Gli erano bastati pochi secondi perciò per comprendere cosa aveva appena ascoltato: «Vite… on y a pas de temp!»
«Francesi e jeep Songhay… secondo te quanti sono Hassan?» sussurrò Moahmmed.
Hassan scrutava l’orizzonte cercando un varco tra la polvere: «Non riesco a darti un numero, amico mio. Quel che è certo è che siamo in pochi. Ci hai portati fin qui, guidati per tutti questi anni… se questa sarà la nostra tomba, io sono con te!»
Le jeep avevano chiuso loro la strada, giravano intorno, iene che puntano la preda. Fermi, immobili nella piana, gli uomini videro una ventina di miliziani Songhay venire verso di loro, coi mitra puntati contro il loro orgoglio. Dei fuggiaschi armati qualcuno mirava verso il nemico, ma la maggior parte rimase inerme. Nei loro occhi si poteva vedere la speranza tuffarsi nel più profondo abisso.
«Abbassate le armi o apriamo il fuoco! Siamo molti più di voi e non avete via di fuga. Abbassate le armi!» Le parole erano uscite da una bocca di veleno e avevano lo stesso suono delle seghe che abbattono le palme. L’uomo che le aveva pronunciate svettava sopra ai suoi compagni, altissimo, con una manciata di capelli ispidi in testa che tentavano in tutti i modi di nascondere un’immensa cicatrice che si stagliava trasversale per tutta la lunghezza del suo volto. Indossava una mimetica cachi, logora come la sua anima. Una leggenda Tārgī descriveva i miliziani Songhay come gli schiavi di Iblis, uomini privati della propria coscienza inviati sulla Terra per nutrire l’insaziabile fame di violenza del demonio.
Disarmarono tutti, privandoli anche dei loro averi, e li fecero sfilare in fila indiana fino alla Tomba di Askia. Lì erano radunati un plotone francese e due Songhay. Sapevano che chi fosse riuscito a scappare in tempo dalla città sarebbe fluito alla tomba, frontiera ultima per il deserto, e lì li avevano aspettati. In trappola e senza possibilità alcuna di resistere, Moahmmed ed il gruppo andato in avanscoperta si arresero alla volontà dei loro aguzzini. Seduti in cerchio, nudi, pregavano in silenzio che la sorte gli regalasse, almeno, la prigione. Ci fu una breve discussione tra quello che sembrava essere il più alto in grado tra i francesi ed il demone Songhay, poi il francese si rivolse ai suoi con un cenno e questi salirono ordinati sui propri mezzi e si allontanarono. Scomparvero fra la sabbia senza lasciar tracce. Moahmmed e i prigionieri più anziani si lanciarono sguardi d’intesa e di disperazione: se i francesi li avevano abbandonati ai Songhay per loro questa sarebbe stata l’ultima tappa del viaggio.
Nello spettrale silenzio dell’attesa il vento, brutale trasformatore d’orizzonti, suonava dolce come incantevole flauto, una melodia d’altri tempi, tempi berberi, tempi in cui uomini liberi sfilavano stoici attraversando il deserto. Moahmmed poteva sentire ancora il profumo di quei giorni così lontani, il fastidio costante della sabbia alzata nei suoi occhi. Orizzonti sterminati fatti di dune rosse si palesavano al suo sguardo; lì, in ginocchio assieme ai suoi fratelli, compagni di incalcolabili sventure, il tempo e lo spazio erano concetti astratti. La ragione dell’uomo soccombeva al mondo dell’immaginazione, lasciando trapelare quel che ti aspetta: un mondo fatto dei colori del fuoco, dove il cielo si abbraccia leggiadro con l’orizzonte e l’uomo aspira alla grandezza, che è lì ad attenderlo, desiderosa.
Intanto che le menti dei prigionieri continuavano il volo verso l’eterno, le iene si erano chiuse intorno a loro. Nessuna parola fu spesa, ad un cenno del capo Songhay i mitra esplosero in una selvaggia e pirotecnica danza. Moahmmed con i suoi amici giacevano a terra, i corpo dilaniati dalla raffica feroce. La sabbia si arrossava lenta intorno ai loro corpi, sempre di più, come se una sorgente sotterranea zampillasse la sua acqua vitale.
Lontano, nascosti dal muro di sabbia e polvere, Ibrahim, Suah e tutte le donne e i bambini fuggiti si erano interrogati sul perché non avessero ancora visto o udito i loro uomini. Era passato un lasso incalcolabile di tempo da quando erano partiti in ricognizione, ma da allora nessuna notizia. Ibrahim rivolgeva lo sguardo al cielo poiché, come aveva appreso da suo padre, l’azzurro è solito farsi rivelatore. Cercava di permettere allo sguardo di farsi largo tra la polvere quando vide chiaramente in cielo diverse figure nere ed alate. Volteggiavano in cerchi concentrici, sfiorandosi, creando una sorta di spirale in aria. Troppe volte aveva seguito gli adulti fuori dalla città per il pascolo delle capre, troppe volte aveva assistito a quel macabro spettacolo: la danza degli avvoltoi, premonitori di morte. Proprio mentre osservava gli uccelli sentì qualcuno stringergli la mano con forza. La pelle candida di sua madre incrociava le dita alle sue, e quel tocco lo colpì giù, nello stomaco, in un modo che non aveva mai provato prima. Nello stesso istante, o almeno così a lui apparse, udì il fragore dei mitra.
Sapeva che non servivano domande, la portata della raffica non lasciava spazio a dubbi. A quel punto il tempo era tiranno, non avevano neanche un secondo per rendersi conto dell’accaduto, men che meno per piangere i propri uomini. Dovevano scappare, in fretta, perché gli assassini avrebbero potuto sospettare della loro presenza.
Suah, allora, si rivolse al gruppo: «Veloci, andiamo a nord… – la voce spezzata dai singhiozzi – … raggiungeremo l’Algeria attraverso il deserto, oltrepassando Gao. Se ci manteniamo distanti dalla città forse avremo qualche speranza. Che Allah sia con noi!»
A passo svelto, lontane dalla strada battuta, le donne trascinavano i loro figli già esausti. Alcune di loro non avevano ancora aperto bocca nonostante fossero in marcia da tre ore, quando Suah, che comandava la carovana, levò alto il palmo facendoli arrestare: «So di essere la moglie, anzi… la vedova… del capo tribù» disse con la voce interrotta dal continuo trasalire, una goccia di lacrima cristallina squarciava il volto arido per la sabbia. La donna continuò: «Vi sto conducendo in un tremendo viaggio e voi non avete avuto nessuna obiezione. Ammiro la vostra fedeltà e vi ringrazio per questo. Voglio solo chiarirvi a cosa andiamo incontro, così che possiate decidere se affrontarlo oppure no. Siamo vicini al villaggio di Sahakam, lì credo sarete al sicuro per un po’, nascondetevi e attendete una settimana, così che le acque si calmino. Non posso garantirvi però che la vostra casa sia ancora dove l’avete lasciata. Altrimenti, seguitemi a nord, in Algeria. Troveremo aiuto in qualche modo. Non vi prometto che sarà facile, ci aspettano giorni di cammino e scarse possibilità di rifocillarci».
Le donne si scambiarono sguardi dubbiosi, nessuna aveva la capacità di ragionare, stremate e col cuore in fiamme. Aisha, moglie di Hassan, si fece avanti e, rivolgendosi alle altre, disse: «Allora, chi non riesce a camminare perché ferito o malato seguirà me a Sahakam. Resteremo lì per un po’, ci procureremo dei cammelli e poi decideremo dove andare. Chi invece riesce a camminare ancora segua Suah… e se ne vada al più presto da questo inferno!»
Aspettavano solo una scossa, qualcosa che le riportasse sulla Terra. Le donne anziane insieme a tre vecchi, quelle con i figli troppo piccoli ed una signora con delle gigantesche vesciche ai piedi crearono una colonna, tutte le altre radunarono i figli attorno a Suah.
Come un’ordinata fila di insetti, lo spettacolo della marcia Tārgī si riproponeva. Coperti da più stoffa possibile e con i soli occhi a subire il vento, Ibrahim, Suah e gli altri marciarono per dieci giorni. Rifornirsi fu tragico. Il terzo giorno terminarono ogni goccia di acqua e pezzo di pane che avevano. Le donne bevvero pochissimo, lasciando il grosso dell’acqua ai figli; non sarebbero sopravvissuti se non fosse stato per l’infinita conoscenza del popolo Tārgī. Anche se molte di loro non marciavano nel deserto da moltissimo tempo, non avevano dimenticato l’esperienza tramandatasi di genitori in figli che aiutava loro a trovare oasi nella sabbia. Il quarto giorno l’avevano scovata, una pozza d’acqua fangosa, un vero e proprio paradiso. Avevano trascorso lì la notte e parte del giorno seguente, riposandosi e riorganizzandosi.
Al riparo dal sole sotto le foglie di una grande palma, Ibrahim si rivolse a sua madre. Non aveva parlato molto durante il viaggio e lei, che sapeva cosa stava accadendo al figlio, l’aveva lasciato stare. Il bambino non poteva fare a meno di pensare a suo padre. Immaginava il suo cadavere pieno di buchi dai quali fuoriusciva la sua anima. Urlava nella sua testa l’idea che non avrebbe mai visto Moahmmed, non aveva potuto toccarlo né vederlo morto. Soprattutto lo tormentava il fatto che non riusciva a ricordare le sue ultime parole, né le sue ultime azioni. Tutto ciò che rimaneva nella sua memoria era una sagoma scura che si allontanava fra la polvere. Questo era suo padre.
«È solo un’ombra mamma! Dimmi dove sta mio padre, ti supplico!»
Suah, con la sua voce dolce ed inconfondibile rispose: «Moahmmed Ag Alabib è tornato al deserto…»
I giorni passarono e le donne attraversarono il confine senza nessuna resistenza. Non ebbero altre sfide durante il viaggio al di fuori della fame, sete e stanchezza. Sostarono per un po’ nei pressi di un paesino, prima di trovare un campo profughi organizzato dalle Nazioni Unite per far fronte al massiccio esodo dei maliani verso nord.
Il campo di Bordj Badji Mokhtar era composto da una manciata di tendoni buttati qua e là in una vallata sabbiosa e recintata. I caschi blu erano a guardia dell’ingresso e alcuni volontari bianchi prestavano ogni forma d’aiuto possibile. Non era stato facile per le orgogliose donne Tuareg accettare questa soluzione. Soffrivano il dover dipendere dagli aiuti umanitari persino per mangiare, ma per lo meno avevano una tenda e si sentivano al sicuro.
Intanto gli anni passavano, quattro per la precisione.
Alcune donne Tuareg se ne erano andate presto dal campo coi propri figli, chi da parenti e conoscenti sparsi per il Nord Africa, chi in cerca di fortuna in città. Suah sapeva che non aveva scelta. Sola con Ibrahim da crescere, aveva subito capito che il campo era la sua unica chance per il momento, almeno fino a che suo figlio non fosse cresciuto abbastanza da farsi una vita lontano da lì.
Per Ibrahim il campo era una contraddizione. In fondo si divertiva lì, aveva spazio per correre e giocare, aveva contatti tutti i giorni con donne e uomini bianchi, mai visti prima d’ora. Fece anche amicizia con un ragazzino suo coetaneo, Said Ag Ayad, fuggito da Timbuctù con la famiglia. Avevano affrontato un viaggio simile, erano entrambi Tuareg e avevano una strana passione per tutti quegli oggetti che hanno una qualche risonanza. Se ne andavano tutto il giorno in giro per il campo a cercare ogni barattolo, barile degli aiuti umanitari, latte di ogni tipo. Avevano scoperto che battendo su questi oggetti di latta, o in altri bastoni di legno, ottenevano un suono. La “musica” era una scoperta sorprendente per chi nella vita aveva avuto poco più che nulla.
Durante gli anni trascorsi in Algeria il tempo si era trasformato in una dimensione per lo più trascendentale. Senza la monotonia dei compiti quotidiani del loro passato, Suah ed Ibrahim vivevano in una sorta di limbo temporale dove tutto restava sospeso. Le giornate si avvicendavano senza differenza e l’angoscia penetrava fin dentro le ossa dei presenti. Suah si era chiusa in una sorta di eremitico isolamento: per buona parte del tempo a sua disposizione svolgeva piccoli lavori artigianali per il fabbisogno del campo, come rammendare vesti e tende, intrecciare ceste con paglia e qualunque altro materiale trovasse, come se questo potesse attenuare il senso d’attesa ed inutilità che la circondava, opprimendola. Più gli anni passavano e meno parlava con gli altri, compreso suo figlio, col quale le comunicazioni si erano fatte settiche e minimali. Ogni volta che lo osservava vedeva solo l’infinito rimorso di non avergli potuto dare nulla se non una vita di stenti, e, lentamente, si allontanava da lui per un’imprecisata vergogna. Ibrahim non comprendeva la portata del sentimento materno, anzi, si era convinto che la sofferenza negli occhi di Suah fosse causata da lui, pensando che avrebbe potuto fare scelte differenti senza il peso del crescere un figlio. La conflittuale vita nel campo e la tragedia della guerra aveva indurito i cuori di entrambi, allontanatisi troppo per potersi comprendere, si spingevano l’un l’altro verso un’inevitabile frattura.
Era una notte d’estate, di quelle in cui le stelle illuminano pallide l’aria e la notte si confonde con la sabbia e la roccia. Una brezza calda faceva danzare i teli delle tende come dervisci e il campo era pervaso del profumo del tè e della menta. Suah era stesa all’aperto, troppo stanca per dormire, si inerpicava tra oscuri pensieri e progetti futuri mentre guardava distratta suo figlio. Ibrahim, steso su un fianco nella tenda, provava invano a prendere sonno. Ogni notte fingeva di dormire per evitare di parlare con sua madre ed ogni notte finivano per passarla svegli dandosi le spalle. Lui voleva risposte che lei non poteva dargli, piani che lei non poteva fare e l’affetto che non aveva il coraggio di offrirgli. Quella notte d’estate, a otto anni dalla morte di Moahmmed, il giovane Ibrahim decise che era ora di fare qualcosa: «Mamma? Io voglio vedere cosa si nasconde oltre le alte rocce! Voglio riassaporare il vento del deserto! Cosa facciamo qui? Chi siamo ora? Ho sentito che alcuni giovani sono partiti in mare per l’Europa, cosa c’è là? Perché non possiamo andarcene anche noi?»
Silenzio. Il vento si alzò improvviso e i veli della tenda frustarono l’aria. Poco lontano si sentì il suono di vetri infranti. Suah, il volto coperto di lacrime, si levò per sedersi sulle gambe. Il suo sguardo andava oltre il volto del suo figlio impaurito, con quegli occhi neri come profondissimi pozzi d’acqua, verso le sabbiose distese del sud dell’Algeria, verso un futuro incerto, traballante, misterioso, ermetico. Provò a dire qualcosa, giustificare tanta sofferenza, ma non riuscì a dire neanche una parola.
«Rispondimi, mamma! – la voce di Ibrahim come un tuono – dove andiamo? La guerra?» Interrogativi vasti, ai quali non c’era risposta alcuna se non che il dubbio, logorante e spaventoso. Suah non aveva risposte perché risposte non c’erano. Non poteva tenere a lungo suo figlio lì, ma non aveva altro posto al mondo dove rifugiarsi. Suo figlio urlava, pregava, piangeva e la sua impotenza montava, si prendeva il suo animo come onde dell’Oceano che si schiantano sulla riva rocciosa. La sua bocca, ridotta ormai ad una secca cicatrice sul volto, non poteva aprirsi. Rimase muta a guardare inerme la disperazione cavalcare le spalle della sua famiglia.
Il vento si placò quando l’alba faceva capolino tra le rocce. Suah, stranamente, si svegliava da un sonno profondo, fin troppo riposata. Ricordava di una marea schiumosa e violenta che l’aveva quasi annegata, poi nient’altro, il sonno e la notte. Il campo si stava svegliando, con i quotidiani suoni delle donne alle prese con le stoviglie e le cantilenanti preghiere dei musulmani praticanti. Si voltò verso la tenda. Aveva passato la notte all’aperto e lasciato la tenda ad Ibrahim, così scostò il velo per guardare il figlio dormire. L’interno era in disordine, come se qualcuno vi avesse rovistato per rubare. Il giaciglio di paglia che fungeva da letto era vuoto.
In un solo istante nella sua mente si crearono migliaia di apocalittici scenari, l’uno più atroce dell’altro. Poi la paura divenne sospetto: un pezzetto logoro di carta era stato assicurato sotto una pietra. Lo prese e lo lesse: «Suah, madre benedetta. Non posso vivere in questa prigione senza futuro. E non posso costringere le tue stanche membra a restare qui per me. Io me la caverò, tu e papà mi avete insegnato tutto quello che bisogna sapere, e per questo vi sarò sempre grato. Ora sei libera di vivere la tua vita come meglio credi! Torna a Gao, sposa un uomo alto e forte. Se Allah lo vuole sopravviveremo anche a questo e ci rivedremo, in questa vita o nell’altra».
Nessun’altra spiegazione, né coordinate spaziali né piani o intenzioni, tranne l’unica, quella più chiara e limpida: Ibrahim era fuggito, forse da solo, forse no, in ogni caso non l’avrebbe potuto cercare. Il dolore tutto un tratto le lacerò il petto. Si chinò e poi si stese. Pianse per giorni, prima che il dolore lasciasse spazio alla speranza, la speranza che suo figlio potesse riuscire dove lei non aveva avuto il coraggio di tentare.
Quel pomeriggio a El-Khalil il sole stava scendendo a fatica e non tirava il vento. Lente e sparse le ombre delle case si allungavano nere verso est, come braccia di madri, tese all’addio dei propri figli. Ibrahim si allontanava svelto, stringendo nella mano sinistra le redini del dromedario appena barattato per un un chilo di miglio e datteri, mezzo di carne secca e quattro lastre di formaggio di capra. Erano quasi tutte le provviste di cibo che era riuscito a portare con se nella fuga da Bordji Badji Mokthar. Ma per almeno altri due giorni sarebbe stato più utile viaggiare svelti e leggeri.
”Un’altra cosa che avrei dovuto scegliere meglio” pensò quando, girato di poco il volto verso destra, il dromedario rientrò nel campo della sua visione periferica. Era un esemplare di hoggar dal mantello quasi del tutto bianco. La povera bestia non doveva essere troppo distante dall’ultimo dei suoi giorni: con un dromedario del genere sarebbe riuscito a percorrere meno di quindici chilometri all’ora. Ma era sempre meglio che camminare: così sarebbe riuscito per lo meno ad arrivare entro l’alba a Tessalit, il prossimo villaggio sulla strada verso Gao, lì avrebbe riposato e cercato nuove provviste. Poi a piccole tappe, avrebbe continuato ad avanzare verso Gao, dove si trovavano i pascoli e dove avrebbe trovato un modo per riscattare se stesso e la madre.
Quando ancora era in Algeria, avanzando si manteneva ad una costante distanza dalla N6, l’autostrada Nazionale che percorre la provincia di Adrar da nord a sud, l’unica strada asfaltata in tutto il distretto di Bordji Badji Mokhtar. Non che avesse paura di essere visto, è che aveva sempre nutrito diffidenza nei confronti dell’asfalto: le strade che qualcun altro ha costruito, presuntuoso di sapere dove ti porteranno, lo avevano sempre spaventato. I deserti invece sanno lasciarti andare. Ma arrivata alle porte del Mali, la N6 si dileguava in un timido e accennato sentiero, come un graffio leggero lasciato per sbaglio su un tavolo di sabbia gialla, una scheggia. Ibrahim proseguiva su quel sentiero abbozzato e si sentiva al centro del mondo.
Con il tempo alle spalle e davanti a sé chilometri di deserti, la fuga gli sembrava la scelta più ovvia e sensata. Negli anni trascorsi al campo profughi lo aveva sempre accompagnato un’ansia altalenante, burlesca, unita all’intenso desiderio di vivere in un altro mondo. Fino a pochi giorni prima però, quando per la prima volta aveva vissuto la sua tenda come una prigione e gli sterminati silenzi di sua madre come una punizione, non era mai riuscito a tradurre quel semplice desiderio nel più immediato mezzo di applicazione: la fuga. Era stata la rabbia a catalizzare. Una spinta, un attimo, era bastato un briciolo di odio per farlo scappare.
Alzò lo sguardo, del sole alla sua destra non rimanevano che gocce di luce, era ormai quasi del tutto tramontato. Ibrahim fermò il dromedario, lo cavalcò e andò più veloce incontro alla sua meta. Il sentiero per Tessalit proseguiva dritto e indisturbato. Il paesaggio che incontrò durante il viaggio era monotono, la pietra e la sabbia si davano il cambio a giocare all’imperatore del deserto, in alcuni punti la sabbia copriva del tutto le pietre, in altri la pietra riusciva a riemergere. Ibrahim continuava a pensare a Gao: ci sarebbe stato qualcuno che si sarebbe ricordato di lui e della sua famiglia? Era ancora come se l’aspettava oppure era cambiata? I francesi avevano preso il dominio della città?
Appena scorse delle case in lontananza fermò il dromedario, scese e proseguì a piedi. Senza neanche accorgersene era arrivato a Tessalit. Il sole stava già sorgendo, portando con se i colori di una nuova speranza. Tessalit, anche alle prime luci del mattino, non sembrava troppo diversa dagli altri villaggi del Sahara: piccole case in pietra, povere e secche. Ibrahim scelse un angolo vicino a quello che sembrava essere un recinto, e si distese per riposare.
Nonostante non avesse sete, sapeva che doveva bere. Cominciò a rovistare nello zaino per trovare le borracce e gli capitò tra le mani una lattina che non ricordava di aver portato con se. Ma a guardarla se la ricordava bene: con quella lattina aveva costruito la sua prima chitarra quand’era piccolo, dopo aver visto un western in cui un cowboy suonava. Ingenuo, aveva pensato che bastasse riprodurre la forma di un oggetto per ottenere la stessa qualità e aveva costruito quello che di più gli ricordava una chitarra. Aveva usato una lattina, un bastone di legno e dei freni di bicicletta come corda. Si ricordava che, per un po’ di tempo, quando nessuno lo ascoltava e nessuno voleva parlargli al campo profughi, lui si allontanava, andava ai margini del campo e faceva finta di suonare. Per quanto strano quella chitarra produceva effettivamente dei suoni, che nessun orecchio umano avrebbe potuto percepire come note, ma la sua fantasia lo portava lontano e lui riusciva a cantarci sopra.
Questo gli ricordava il padre, era uno dei pochi ricordi che aveva: la sera prima di andare a dormire si mettevano tutti e tre davanti ad una tazza di tè, e il padre intonava un canto popolare Tārgī, diceva che la musica purifica l’animo e che la sera bisognava andare a dormire con l’animo bianco. Si ricordava di quei giorni come giorni felici. Gli venne in mente in particolare una delle canzoni tra le sue preferite e, mentre si stava addormentando, la canticchiò: «Mi hai insegnato a cadere / per queste solitudini deserte / come altari ai tuoi silenzi, / al sole, alla sabbia, alla spiaggia / ma domani ricomincia la strada / ricominceranno i campi». Con questa melodia in testa si addormentò.
Si svegliò quattro ore dopo e non si ricordava i sogni che aveva fatto, ma si sentiva riposato. Si diresse verso il ruscello per fare rifornimento d’acqua e continuò il suo cammino. Fece una tappa per mangiare e per evitare le ore più calde e poi si diresse di nuovo verso il prossimo villaggio che gli avevano indicato. Così proseguì per giorni. Si fermava in un villaggio, faceva provviste e ripartiva senza perdere tempo. Dopo le prime due tappe però, non era riuscito a trovare segni di civiltà per tre giorni.
Era un pomeriggio come tutti gli altri, sfilava la sabbia sotto i suoi piedi e nella testa c’erano i campi di Gao. Per tutta la mattina il viaggio era proseguito tranquillo, ma verso le due aveva cominciato, prima piano, poi sempre più intensamente a tirare il vento. Non aveva una direzione precisa, ma cambiava spesso e questo rendeva ancora più difficile proseguire. Ibrahim decise di scendere dal dromedario e fermarsi per un po’ anche se questo avrebbe rallentato il viaggio.
Quando scese dal cammello si guardò alle spalle: era da lì che soffiava il vento. Non voleva credere ai suoi occhi: alle sue spalle un’enorme montagna di nuvole gialle stava avanzando veloce verso di lui, era una tempesta di sabbia. Non era la prima volta che ne vedeva una: sapeva che bisognava solo aspettare che passasse, che non si trattava di qualcosa di troppo pericoloso. Però questo lo avrebbe costretto a rallentare e da questa distanza non riusciva a determinarne l’intensità. Le tempeste di sabbia non si sa mai quanto durano. Salì sul dromedario e si mise a cavalcare più veloce che poté, fin quando era possibile avrebbe voluto evitare la tempesta. Ma la sabbia lo raggiunse ben presto e con lei il vento. Tutto intorno a lui sembrava diventare più fitto, più pesante. Ibrahim cercò si superarla, di essere più veloce, ma ben presto tutto diventò nero, gettando nell’oblio persino il senso dell’orientamento. Non riusciva più a capire dove stava andando.
Il dromedario lo scaraventò a terra e cadde su di lui. Il vento stava infuriando, Ibrahim aveva sottovalutato la portata della tempesta e ora non poteva fare niente per uscirne. Cercò quanto più poté di tenersi vicino al dromedario, e tenere strette tutte le provviste che aveva, ma già non riusciva più a trovare le borse. Cercò isterico le provviste a terra tastando alla cieca sotto di lui, ma non riusciva a fare niente. Bisognava solo aspettare che passasse. Così al buio e in mezzo al vento, non c’era niente da fare e lottando contro il vento per rimanere il più possibile fermo, si mise d’istinto a gridare aiuto. Nessuno poteva sentirlo e lui stesso non riusciva a sentire la sua voce. Nel buio sentì due braccia che lo afferravano dalla vita e lo tiravano verso di sé. Si mise a lottare, poi una voce gli gridò nell’orecchio: «Fermo! Sali in macchina!»
Non aveva troppe alternative o tempo per valutare se potesse fidarsi della voce. Tuttavia scoprì che quella voce era legata a qualcuno, che lo trascinò verso due luci in mezzo al buio. Riconobbe che erano i fari di una jeep. Salì in macchina guidato sempre dallo stesso corpo. Sentì lo sportello sbattere alla sua destra. Poi un altro sportello, la macchina vibrare verso di lui, il buio farsi più intenso, la macchina prendere velocità.
«Dove stiamo and…»
Calò l’oscurità.
Quando si risvegliò si trovava ancora nella macchina. Di scatto si girò verso il conducente: profilo possente e sguardo sicuro, non aveva la pelle molto scura, ma aveva la barba molto folta, che nonostante tutto non lo faceva sembrare più grande. A Ibrahim gli ci volle un pò per ricordarsi dove si trovava, ma dopo che aveva capito, scattò dritto sul sedile. Questo brusco movimento fece spaventare l’autista, il quale sbandò di poco dal sentiero che stavano seguendo.
Il ragazzo si girò verso Ibrahim: «Ehi ehi… non ti agitare, sto guidando».
«Dove siamo? E tu chi sei?» chiese Ibrahim senza scusarsi.
«Certo, non è il modo migliore per ringraziare qualcuno che ti ha appena salvato ma… fai pure». Ibrahim si ricordò immediatamente della tempesta di sabbia e domandò: «Dove stiamo andando?»
«Prego, è stato un piacere anche per me» disse il ragazzo allargando il sorriso.
Ibrahim sorrise di ricambio, solo per cortesia, anche se quell’atteggiamento lo stava infastidendo. Non trovava che ci fosse niente di divertente in tutto ciò. Voleva soltanto capire: «Che è successo? Perché mi trovo qui?»
«Scusa, fai il giornalista per caso? Una domanda alla volta» disse il ragazzo. Aveva staccato la mano destra dal volante e con l’altra stava rovistando sotto il sedile. Ibrahim lo vide mentre afferrava un cartoccio stropicciato e glielo porse: «Tieni!» ricominciò il ragazzo «mangia qualcosa». Non se lo fece ripetere due volte, erano effettivamente tre giorni che tra un villaggio e l’altro non era riuscito ad ottenere alcuna provvista. E se le riserve d’acqua non lo avevano abbandonato il cibo era già finito da un pezzo. Scartò il rotolo che il ragazzo gli aveva passato e cominciò a mangiare quello che si trovava all’interno. Per tutto il tempo che mangiava non fece più domande.
«Avevi proprio fame, eh?» chiese il ragazzo in tono canzonatorio mentre Ibrahim ingurgitava tutto il cibo che si trovava all’interno. Ibrahim rispose con un sorriso forzato.
«Io sono Hassan» disse il ragazzo. Ibrahim non parlava, continuava a fare solo cenni di assenso con la testa e mugugni affermativi.
«Giusto per ricordarcelo: ti ho appena salvato». Portò la mano destra alla bocca e simulò il suono di una folla che esulta: «Grazie… grazie, gente… sono solo uno come voi, sì lo so, salvo la gente: this is me».
Ibrahim fermò un boccone a mezz’aria, si girò verso Hassan e lo guardò male, Hassan ricambiò lo sguardo, poi si girarono ognuno dritti davanti a se. Scoppiarono a ridere.
«Ibrahim» borbottò Ibrahim.
«Cosa hai detto scusa?» Ibrahim ripeté il nome più ad alta voce.
«No, no, mi chiamo Hassan. H-A-S-S…»
«IO sono Ibrahim» lo interruppe Ibrahim con tono fermo e deciso.
«Ah! Allora anche tu ce l’hai un nome» sorrise Hassan. Ibrahim lo guardò meglio, non aveva mai visto quel colore degli occhi, tendente al verde. Indossava dei vestiti abbastanza occidentali. Per quanto i lineamenti fossero africani, doveva avere nei suoi geni qualcosa di esotico, forse turco.
«Ora che sai il mio nome, puoi dirmi dove stiamo andando?» chiese Ibrahim.
«Forse volevi dire dove “stai” andando. Io sto andando a Tessalit, tu non lo so. Ma ora vieni con me. Io devo fermarmi a Tessalit per una settimana. Farò in modo di trovare un posto anche per te, dovrai aiutarmi, ovvio. A proposito, ora tocca a me fare domande, dove stavi andando?»
Ma Ibrahim come al solito si prese la facoltà di non rispondere e passare subito alla sua prossima questione: «Aiutarti? A Tessalit? No! È dall’altra parte! Vengo da quattro giorni di cammino da Tessalit, devi riportarmi indietro, ti prego riportami indietro».
«… mi dispiace deluderti, ma è troppo tardi… Siamo già arrivati» disse Hassan.
Tessalit stava immobile davanti a loro, assopita nelle ombre del tramonto, sembrava una città calma: riposava. Ibrahim non disse niente, pensò che non era il caso di agitarsi. Avrebbe aiutato Hassan e poi gli avrebbe chiesto di portarlo indietro. Aveva bisogno di un po’ di riposo.
Si fermarono davanti ad un capannone di lamiera.
«Aspettami in macchina, faccio subito» disse Hassan.
Ibrahim annuì. Vide Hassan avviarsi verso il capannone e bussare alla porta. Poco dopo apparve un uomo che lo invitò ad entrare. Hassan e l’uomo uscirono dal capannone con un muletto carico di scatole. Le caricarono nel cofano della jeep. Poi si fermarono a parlare per un po’. Dallo specchietto retrovisore Ibrahim vide Hassan consegnare dei soldi all’uomo e dirigersi di nuovo al volante.
«Eccomi… te l’avevo detto che avrei fatto in fretta» disse Hassan.
Si addentrarono nelle strade di Tessalit. Ci furono alcuni minuti in cui non si scambiarono neanche una parola, poi la voce di Ibrahim ruppe il silenzio: «Mi hai chiesto di aiutarti a fare qualcosa… di cosa si tratta?»
«Ah già… ok, ora ti spiego tutto».
Ibrahim si incuriosì e ascoltò con attenzione.
«L’ultima volta sono venuto a Tessalit due mesi fa. Il padre di Fareeha ha scoperto che le scrivevo poesie d’amore. Mi ha impedito di avvicinarmi di nuovo a casa loro».
«Fareeha? Sarebbe?» chiese un sempre più confuso Ibrahim.
«La ragazza che amo, ovviamente! È la figlia di un ricco commerciante di cammelli. Dalla prima volta che l’ho vista non sono riuscito a togliermela dalla testa, così ho cominciato a scriverle poesie d’amore. Lei non ha mai risposto, eccetto una volta. Mi ha scritto che fin quando le invierò questi pensieri, mi amerà per sempre».
«Quindi, storia finita! Tu non puoi più scriverle e lei non ti amerà più, ti dimenticherà…» concluse Ibrahim pensando che fosse la cosa più logica.
«È qui che entri in scena tu. Dovrai consegnarle le poesie al posto mio. Ti spiego i dettagli più tardi» disse Hassan.
«Ok…» rispose Ibrahim «ma poi quando abbiamo finito qui dovrai portarmi indietro».
«Affare fatto» disse Hassan, deciso. «Anche se ti ho già salvato la vita…»
Rallentò e girò verso una piccola stradina a sinistra. Poi si fermò.
«Siamo arrivati» disse Hassan in tono entusiasta.
«Siamo arrivati dove?» chiese Ibrahim.
«Da mia sorella, ci fermeremo qui in visita per una settimana, poi io tornerò ad Adjhuck. Ti lascerò dove vuoi».
Appena scesi dalla macchina videro correre verso di loro una piccola donna col volto coperto: «Hassan! Hai fatto tardi ! Pensavo non arrivassi più!» disse questa.
«Scusami, una tempesta di sabbia mi ha rallentato parecchio!» disse. Poi indicò Ibrahim con un sorriso: «Lui è Ibrahim, l’ho trovato in mezzo alla tempesta. Gli ho salvato la vita: sì, sono anche un eroe ora».
«Andiamo, venite dentro. La cena è già pronta» disse la sorella di Hassan.
Ibrahim non sapeva cosa fare, si sentiva un po’ in imbarazzo, ma non riusciva a rifiutare una cena. Si sedettero, ad aspettarlo c’era più di quanto avrebbe mai mangiato in una settimana al campo profughi. Consumarono la loro cena senza dire niente.
«Hai già preso lo stucco per Soy?» chiese la sorella di Hassan.
«L’ho già caricato in macchina» rispose il fratello.
Ibrahim poteva sentire che la conversazione stava diventando un po’ pesante.
«Tuo marito non c’è?» domandò Hassan.
«No… è andato a Tamanrasset. Torna fra quattro giorni».
«Io non voglio più farlo, Huma. Noi siamo Tuareg. So che da quando hai sposato S. le nostre condizioni di vita sono migliorate, ma ci stanno togliendo via tutto quello che abbiamo, io e te, noi non siamo come loro, noi siamo Tuareg. Io voglio tornare a casa».
A quelle parole Ibrahim rimase di stucco. Tutto si sarebbe aspettato da Hassan tranne che anche lui appartenesse al popolo Tuareg. Consumarono la cena senza dirsi troppo altro. Poi Hassan disse a Ibrahim di andare. Si diressero verso la tende nella quale avrebbero dormito.
«Non sembri Tuareg…» disse Ibrahim mentre si preparavano per dormire.
«Lo so… i miei genitori sono morti tanto tempo fa. Da allora io e mia sorella siamo rimasti soli, e abbiamo vagato di campo profughi in campo profughi. Tre anni fa un uomo arabo si è innamorato di mia sorella, l’ha convinta a sposarla e ci ha tolto dalla miseria. Io adesso lavoro per suo fratello, ad Adjhuc. Qui a Tessalit c’è una fabbrica di stucco ed il mio capo mi ci manda una volta ogni due mesi per comprarne un po’. Lo usa per mandare avanti una sorta di impresa edile. Io mi fermo qui ogni volta per far visita a mia sorella. Vorrei convincerla a scappare per tornare a Gao e riprendere la nostra vita lì, ma lei ha troppa paura… Ma io lo so che vorrebbe scappare… è che… io non resisto più, per un po’ di danaro abbiamo dovuto rinunciare alla nostra vera identità. I miei genitori ci avevano fatto promettere di rimanere fedeli a noi stessi, ma io sento dentro di me il deserto che avanza, e non so fermarlo».
Il viso di Ibrahim si illuminò di un sorriso potente, divino. «Gao…» ripeté quasi in preda all’estasi. «Tu… tu vuoi tornare a Gao?!» stava gridando senza neanche rendersene conto.
«Si perché? Come fai a conoscerlo?»
Ibrahim sentiva di potersi fidare. Il fatto di appartenere alla stessa cultura e di avere le stesse tradizioni rendeva Hassan la cosa più vicina ad un migliore amico che avesse mai avuto. All’improvviso si sentì molto legato ad Hassan e come se non aspettasse altro che quella domanda, gli raccontò la storia tutta d’un fiato. Hassan rimase incredulo, dentro di sé cominciò a vedere la possibilità di realizzare il suo grande sogno. Entrambi stavano pensando alla stessa cosa, ma nessuno ebbe il coraggio di dirlo. Per un po’ rimasero così, sdraiati sulla schiena ad occhi aperti a fissare la tenda. Si addormentarono condividendo ognuno i propri ricordi su Gao, provando insieme a ricostruirla.
Quando Ibrahim si svegliò il giorno successivo, il posto accanto al suo era già vuoto. Non si sentiva così riposato da tanto tempo. Stropicciandosi gli occhi uscì dalla tenda e si diresse verso la casa. Dalla piccola finestra riusciva a vedere Hassan che discuteva animatamente con la sorella. Non voleva intromettersi, per cui rimase fuori, ma involontariamente sentì il motivo del litigio: «Anche lui vuole tornare».
Capì che stavano parlando di lui, pensò che fosse solo un altro buon motivo per rimanere fuori. Sentì una porta sbattersi, poi Hassan apparì da sinistra con un gran sorriso, come se niente fosse successo: «Andiamo. Vieni con me».
Lo portò su un altopiano dal quale si vedeva tutto il villaggio di Tessalit. Indicò la casa più grande che si trovava quasi al centro del villaggio. A fianco della casa c’era un grande recinto pieno di dromedari. «Quella» disse Hassan «è la casa di Feraah. La vedi quella grande palma vicino al ruscello?» Ibrahim annuì. «Quando il sole è più alto nel cielo, tu devi andare lì e lasciare questa poesia sotto la pietra più grande, la riconoscerai. Feraah esce tutti giorni prima di pranzo a stendere i panni lì vicino. Là troverà la mia lettera e mi amerà”.
Ibrahim prese il foglio di carta e lo portò con se. Quando all’ora di pranzo tornò a casa delle sorella di Hassan (non era difficile orientarsi ad Tessalit), Hassan lo stava aspettando: «Hai fatto quello che ti ho chiesto?»
«Sì» rispose Ibrahim.
Si scambiarono uno sguardo complice e dopo aver consumato il pasto in fretta, Hassan disse: «Vieni con me, voglio mostrarti una cosa». Lo portò nell’altra camera della casa. Prese un libro dallo scaffale e fianco al letto e lo porse a Ibrahim, sulla copertina c’era scritto Chants Tuareg.
«Che vuol dire?» chiese Ibrahim.
«È un canzoniere di canti Tuareg» rispose Hassan. «Un monaco francese di nome Charles De Facauld molti anni fa studiò il nostro popolo e raccolse i nostri canti popolari in questo volume. Ti piace la musica?» chiese Hassan.
Ibrahim lo guardò sorridendo. Gli raccontò la storia di come costruì la sua prima chitarra.
Hassan rimase incredulo: «Allora quello che sto per mostrarti ti piacerà» aggiunse. Da sotto il letto estrasse quella che a Ibrahim parve una chitarra: «Questo è del marito di mia moglie. Mi ha insegnato a suonarlo la prima volta che sono venuto qui» disse Hassan. Poi si sedette sul letto e cominciò a cantare alcune delle canzoni riportate su quel canzoniere accompagnandosi con il basso.
Si poteva leggere la meraviglia negli occhi di Ibrahim, deserti che cominciavano a fiorire. Rimasero tutto il pomeriggio a cantare fino a quando la sorella non li chiamò per cena. Ancora una volta, prima di addormentarsi, sentirono che avevano qualcosa da dirsi, ma nessuno dei due ebbe il coraggio di dirlo.
Il giorno seguente a mezzogiorno Ibrahim si preparò per andare a portare la poesia a casa di Feerah. Come aveva fatto il giorno prima, si diresse verso la palma a cercare la pietra più grande e lasciò là sotto la poesia. Mentre stava per andare via però vide arrivare un uomo con un dromedario. Si nascose per paura di essere visto. L’uomo scese con calma dall’animale, lo chiuse nel recinto insieme agli altri e si diresse verso casa. Quello che attirò l’attenzione di Ibrahim però non furono le vesti lussuose, né la razza del dromedario, ma quello che l’uomo aveva in mano: una chitarra.
Senza pensarci due volte gridò per attirare l’attenzione del signore: «Scusi!» gridò. «Mi scusi!» Il signore si girò di scatto.
«Quella che ha in mano è una chitarra, vero?» chiese Ibrahim.
«Sì…» rispose l’uomo guardandolo con un espressione a metà tra il furioso e il divertito.
«Farei qualsiasi cosa per averla» confessò Ibrahim.
«Levati dai piedi…» rispose con disprezzo quell’uomo e, chiudendosi il cancello alle spalle lasciò Ibrahim fuori.
Quest’ultimo non volle arrendersi. Se c’era una cosa che aveva sempre desiderato quasi quanto tornare a Gao era avere una chitarra, non si sarebbe fermato per nessun motivo. Tornò a casa di corsa e senza perdere un momento disse ad Hassan tutto quello che nessuno dei due aveva fino a quel momento avuto il coraggio di dirsi.
«Hassan. Dobbiamo andarcene di qui. Fareeh… il padre…. l’uomo bianco… lui» disse Ibrahim. Hassan non capiva: «Calmati!» disse. «Che è successo? Il padre di Feeraah ti ha scoperto?»
Ibrahim fece cenno di no con la testa: «Lui… lui ha una chitarra. Hassan, aiutami ad averla, ti prego. Potremo suonare insieme e… racconteremo la nostra storia a tutto il mondo con la musica e… perché stai ancora qui? Che cosa stiamo facendo? Torniamo a Gao, il posto al quale apparteniamo: riprendiamoci il deserto».
Hassan corrugò la fronte e lo guardò preoccupato. Dopo alcuni secondi di silenzio disse: «Ho un’idea. Aspettami qui. Se non torno prima del calare del sole, vienimi a cercare». Poi Ibrahim lo vide scomparire.
Il tempo sembrava rallentato. Dopo due ore Hassan non era ancora tornato. Ibrahim rimase per tutto il tempo nella tenda in preda al panico. Non aveva idea di dove fosse andato Hassan, non sapeva cosa avesse in mente. Pensò che avesse sbagliato, che era stato troppo egoista a proporre un ritorno a Gao. In fondo lui non aveva niente da perdere, ma Hassan era riuscito a farsi una vita nel frattempo, senza scappare. Forse non era giusto coinvolgere anche lui.
All’improvviso sentì dei passi avvicinarsi alla tenda. Uscì in fretta sperando di vedere Hassan. Quando uscì dalla tenda rimase ancora più stupito, non si aspettava di vedere una cosa simile. Hassan procedeva perplesso verso la tenda con la chitarra in mano e di fianco a lui c’era il padre di Feraah con due dromedari. Si fermarono a un centinaio di metri dalla tenda. Hassan diede qualcosa al padre di Feerah che Ibrahim da quella distanza non riuscì a identificare. Era qualcosa di piccolo. Il padre di Feerah gli lasciò le redini dei due dromedari e senza stringersi la mano si allontanò. Hassan lanciò uno sguardo a Ibrahim che li osservava dalla tenda e sorrise. Ibrahim ricambiò il sorriso, ma seguì con lo sguardo il padre di Ferrah. Lo vide avvicinarsi alla jeep del capo di Hassan, salire in macchina e poi allontanarsi. Quando la macchina scomparve dietro la curva Ibrahim corse verso Hassan.
«Che cosa è successo?» chiese Ibrahim preoccupato. «Come hai fatto a farti dare la chitarra? Perché ha preso la macchina?»
«Gliel’ho data in cambio della chitarra. All’inizio voleva darmi solo la chitarra, poi sono riuscito a farmi dare anche due dromedari. Così è sicuro che starò lontano per sempre da sua figlia» disse Hassan.
«Ma come?» chiese Ibrahim preso dal senso di colpa. «Che cosa dirai il tuo capo? E cosa ne è del tuo amore per Feraah?»
«Il mio capo non lo vedremo mai più. Stanotte partiremo per Gao. Feerah capirà, se la musica non ci abbandonerà e ci cullerà il deserto, un giorno sentirà le canzoni che ho scritto per lei, e mi perdonerà per tutte le poesie che non le ho più dato. La musica saprà amare meglio di me».
Ibrahim aveva il volto bagnato di lacrime. Si abbracciarono forte. Poi si guardarono a lungo sorridendo: «Torniamo a casa finalmente…»
Due ore dopo la sorella di Hassan piangeva sulla porta di casa. Mentre vedeva allontanarli sperò di poter riabbracciare il fratello un giorno. Sapeva di lasciarlo in buone mani.

Dopo due giorni di viaggio Ibrahim e Hassan erano ormai esausti e stanchi. Il sole continuava a picchiare forte sulla sabbia e da qualche ora era finita anche la riserva di acqua. Di tanto in tanto qualche folata di vento arido innalzava la sabbia che subito nascondeva piccole forme di vita e ricopriva le orme appena fatte dai dromedari. Ibrahim alzò lo sguardo e come fosse un miraggio vide in lontananza la lama azzurra del Niger che affondava nella sabbia tra miserabili capanne e pochi pastori. Restò per un attimo senza respiro e guardò l’amico cercando di dire qualcosa che non riuscì a pronunciare, bloccato per l’emozione. Hassan capì che erano ormai vicini e con un sorriso sulle labbra prese gli ultimi due datteri, li lanciò ad Ibrahim e iniziò a galoppare verso il fiume urlando: «Torniamo a casa!»
Gli occhi lucidi di Ibrahim gli impedivano di vedere il sole basso all’orizzonte con i suoi raggi ambrati che oltrepassavano le striate nuvole purpuree. Da lontano il fiume così calmo sembrava uno specchio in cui il cielo si rifletteva dorando l’intero paesaggio. Una sensazione di calma, pace e serenità di un ritorno a casa, un ritorno nella propria terra, invase Ibrahim. Arrivato sulla riva del fiume chiuse gli occhi e lasciandosi trasportare da quelle piacevoli sensazioni respirò a pieni polmoni il calore del tramonto, cercando di ascoltare il fiume. L’acqua era l’unica testimone, spettatrice immobile e neutrale di tutti quegli anni. Sceso dal dromedario, immerse le mani nell’acqua, lavandosi via quei pigmenti color indaco dei tessuti che indossava. I due amici risalirono lungo il corso d’acqua e finalmente la videro: lì dove il grande Niger, esausto e respinto dall’immensità del deserto piegava una gigantesca ansa verso sud e andava a morire nel Golfo di Guinea, sorgeva la città di Gao. Colori, profumi, emozioni invasero Ibrahim e Hassan appena entrarono in città. Quella mitica città che aveva sempre garantito la sopravvivenza alla sua gente e oltre la quale c’era solo l’immensità rovente del nulla aveva però qualcosa di diverso e Ibrahim fece fatica a comprendere. I due amici si addentrarono nel mercato. Non era più come quello di un tempo, ma non aveva di certo perso il proprio fascino: alcune donne erano intente a creare meravigliosi gioielli mentre, tra venditori di tessuti, di lana e pelli, di datteri, pesce e spezie, davanti una tenda alcuni fumatori di narghilè osservavano curiosi i due passanti. Uno di loro si alzò e andò incontro ai due: «Cosa vi porta qui stranieri?» L’uomo aveva quell’aria di chi ne aveva passate davvero tante, troppe forse. Gli umili vestiti cozzavano bruschi col suo fare regale.
«La voglia di tornare a casa. Veniamo da un lungo e faticoso viaggio, abbiamo deciso di rientrare a Gao perché abbiamo presto capito che non si può fuggire per sempre dalle proprie radici. Io sono Ibrahim e lui è Hassan, ci siamo conosciuti nel deserto… Ma cosa è successo qui?» disse Ibrahim.
«Hai ragione amico, le foglie di un albero, per quanto alto possa essere, cadendo ritorneranno sempre alle radici. A volte, purtroppo, queste radici vengono minacciate, diventano deboli e facili da estirpare se i suoi figli non le difendono! Io sono Eyadou Ag Leche e vi spiegherò cosa è successo, ma prima legate i vostri dromedari ed entrate a rifocillarvi».
Ben presto Ibrahim e Hassan appresero a malincuore che Gao era di nuovo teatro di conflitti. Eyadou spiegò loro che la prima rivolta, scoppiata nel 1962, era stata repressa due anni dopo dal governo di Bamako e che gli scontri ricominciarono nel 1988 con la nascita del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad, guidato da Iyad ag Ghali. I separatisti Tuareg avevano iniziato ad attaccare gli edifici governativi intorno alla città e le rappresaglie dell’esercito del Mali stavano portando ad una vera ribellione.
«È impossibile e da vigliacchi rimanere impassibili davanti a tutto ciò: bisogna intervenire subito! Siamo Tuareg, perdio!»
Ibrahim rimase sconvolto, non riusciva a credere che quella sensazione di terrore e paura che lo aveva traumatizzato anni prima non era ancora terminata. Non riusciva a credere che la situazione non fosse cambiata e che la sua gente doveva ancora subire quello strazio. Fu preso dalla rabbia, le parole di Eyadou riecheggiavano nella sua mente, e senza pensarci due volte disse: «Domani partirò per la Libia, per unirmi ai rivoltosi e liberare la mia gente. Chi è con me?»
I tre dromedari si fermarono sull’orlo dell’altopiano che si affacciava sulla valle, le tende color avorio allineate distribuite all’interno sembravano oltre che nascoste, protette dalla catena montuosa circostante. I tre avevano raggiunto uno dei tanti campi d’addestramento organizzati in gran segreto da Gheddafi, vero architetto della rivolta.
«Decisamente un bel posto, non mi aspettavo di trovarlo tra pianure e deserto» commentò Ibrahim di fronte al sole infiammatosi in un cielo azzurro e purpureo, calante dietro le montagne. La sua contemplazione fu tuttavia inaspettatamente interrotta.
«Hanno cercato di toglierci la dignità come guerrieri, e noi da uomini, ce la riprenderemo» sentenziò fiero Hassan.
Ibrahim riuscì a malapena a cogliere le parole dell’amico: la sua voce non manifestava segni di stanchezza o affaticamento, ma era lenta e profonda come il ruggito di un leone. Hassan con un rapido e deciso movimento del polso scosse le redini che imbrigliavano il volto del dromedario, e questi si volse verso destra, avviandosi verso una discesa a spirale che li avrebbe condotti al centro del campo e al tempo stesso resi ben visibili a distanza.
«Non ci spareranno, spero» sussurrò Eyadou.
«Siamo stati annunciati giorni fa, ci aspettano per oggi» rispose con tono secco Hassan.
Una volta che anche il suo dromedario si era avviato verso l’insediamento, Ibrahim ebbe modo di notare sempre più che con il calar del sole anche il campo profughi sembrava addormentarsi. Il recinto che cingeva la distribuzione circolare di qualche centinaio di tende non sembrava resistente e i suoi intrecci di fil di ferro, più spesso della norma, sarebbero stati facili da tagliare, ma la presenza dei sorveglianti all’interno e all’esterno lungo il perimetro scoraggiava i meno temerari dal farlo.
Accanto all’entrata, sotto la fioca luce di una lanterna ad olio, era seduta una figura a gambe incrociate. Era avvolta in una lunga veste che si estendeva attorno alla testa e al corpo proteggendolo dalla sabbia del giorno sollevata dalla corsa incessante del vento, e dal freddo della sera. Ibrahim socchiuse gli occhi per proteggerli dalla sabbia sollevata dal vento, e provò una sensazione di pace, ma avvertì di fronte a sé, come se stesse camminando più nel tempo che nello spazio, un futuro non più altrettanto sereno. Avvertiva la presenza di qualcosa diversa dalla sensazione di serenità che sentiva emergere ed abitare in lui.
I dromedari andarono verso la luce che segnalava l’entrata nel campo di addestramento, e, giunti a poche centinaia di metri, una domanda urlata in arabo ruppe il silenzio come un sasso nell’acqua. La voce ruggente di Hassan si fece sentire rispondendo, e la voce prima così inquirente si fece subito assai più mansueta e accondiscendente. Le briglie del dromedario di Hassan furono impugnate da quella figura meditabonda, che una volta alzatasi in piedi rivelò la sua prontezza di spirito e i suoi riflessi. Rimase in silenzio conducendo i dromedari entro il campo, e quando scesero dalle loro cavalcature Hassan sentì la punta di una pistola e Ibrahim di un coltello a contatto con le loro schiene.
«Pff! Ma che combattenti siete?» disse schernendoli il guardiano mentre abbassava le armi. «Neanche vi siete accorti di quando li ho estratti».
«Allora siamo nel posto giusto, vuol dire che abbiamo molto da imparare da te. Io mi chiamo Hassan».
«Io sono Ibrahim».
«Eyadou».
«Vi stavo aspettando, il mio nome è Said».
Si scrutarono negli occhi per qualche secondo, come per essere certi che fosse tutto tranquillo, o come per ascoltare qualcosa che si può ascoltare solo in silenzio.
«Venite, sarete affamati».
Giunti nella sua tenda, videro un debole fuoco che si stava a poco a poco consumando sopra le più ampie braci; Said dopo un’accurata preparazione delle foglie e delle tazze vi appoggiò sopra la teiera. Rimasero in silenzio mentre quel rituale si dispiegava innanzi a loro, l’atmosfera di raccoglimento si stava ricreando nella luce rossa e calda della fiamma danzante che proiettava i movimenti come un’ombra opaca sulla parte interna della tenda. Il fumo bianco esalava dal flusso del liquido cremisi e le tazze man mano che si riempivano diventavano a loro volta parte animata del silenzioso mondo degli oggetti. Sembrava si stessero per animare in una conversazione.
«Ibrahim, Hassan, Eyadou…» cominciò Said, quasi sottovoce, come per catturare la loro attenzione, o chiedere il permesso di ottenere il silenzio e di parlare. «C’è una storia che voglio raccontarvi. Quando eravamo bambini il villaggio era molto diverso da come l’abbiamo visto oggi durante il nostro passaggio. C’era il bazaar ogni giorno, si sentiva l’aroma delle spezie e del caffè mentre i turisti per strada si fermavano a guardare e fotografare gli uomini che mentre intrecciavano i fili, li vedevano diventare disegni sui tappeti. Sedute a terra, le persone mangiavano riso e verdure; i visitatori più giovani si fermavano ad assaggiare. I profumi si confondevano, ed io ero abbastanza alto per poter andare a comprare i datteri per mio padre. Riuscivo ad arrivare all’altezza del bancone della frutta, e mi divertivo sempre a trattare sul prezzo e scherzare con il proprietario, che mi regalava qualche dattero e un bicchiere di karkadé perché diceva che ero ancora troppo giovane per il tè o il caffè. Fu lì che un giorno vidi un uomo comportarsi in maniera diversa rispetto agli altri, e anche da se stesso per come molti lo conoscevano. Era molto magro, e il viso, seppur piacevole, rivelava un’insicurezza che lo rendeva impopolare tra le donne e gli uomini. Così lui stava con altre persone, i fumatori di narghilè che coltivavano tabacco e passavano pomeriggi interi sotto il sole a fumare e parlare di tecniche per aromatizzare il tabacco e venderlo agli occidentali. Quando i discorsi per lui diventavano noiosi si abituò a portare con sé un libro, e spesso lo leggeva. Poi cambiò libro, aveva una copertina diversa, e su questo ci scriveva con una penna che diceva di aver trovato vicino alle scale di casa sua. Un giorno lo vidi alzarsi e lasciare gli uomini alle loro animate discussioni. Camminava con il libro sotto il braccio, e teneva la penna tra le dita. Incuriosito, lo seguii, sembrava in preda ad un rapimento, ad un’estasi mistica che non saprei spiegare. Ad un certo punto, quasi alle porte del deserto ed alla fine del villaggio, si fermò e si sedette appartato all’angolo di un’abitazione, come per non farsi vedere dai passanti. Dopo qualche minuto riemerse, e con altrettanta naturalezza tornò a sedersi al lontano tappeto dei fumatori di narghilè. Sembrava quasi che nessuno si fosse accorto della sua presenza, ed io non avevo capito cosa avesse fatto… così tornai sui suoi e i miei passi, e fu lì ed allora che notai che non c’erano solo le mie orme che seguivano le sue, ma anche che le sue ne seguivano altre, meno profonde, meno ampie. Mi affrettai, prima di tornare a casa avrei voluto risolvere il mistero. Così quando giunsi vicino a quell’abitazione vidi del fumo che usciva dalla canna sul tetto, e oltre la finestra aperta stava una donna anziana seduta ad una sedia con le mani in grembo. Ma un’altra, molto più giovane, con un cesto pieno di panni aveva appena girato l’angolo, e io dovetti nascondermi tra le rocce, ma avevo trovato uno spiraglio per continuare a vedere. La giovane ragazza calpestò un foglio di carta, così si chinò per raccoglierlo, e sorrise, come se avesse letto qualcosa scritto nella sabbia. Lo prese con sé, lo nascose in tasca, e con un sorriso che le rese il volto radioso entrò in casa».
Eyadou, pensando che il racconto fosse finito, affermò: «Gran bella storia, quindi?»
«Quell’uomo era uno di noi. A quel tempo corteggiavamo così le donne, scrivevamo sulla sabbia per amore, ora… il figlio di quell’uomo è un bambino, ed usa la lingua del popolo Tārgī per lasciare informazioni a noi sui passanti sospetti. Le parole che sono scritte sulla sabbia sono spesso parole forti, di odio. Voglio sapere, se voi siete pronti a questo».
«Certo!» rispose prontamente Hassan. «La nostra lingua ci sarà utile anche in questa occasione».
Eyadou continuò: «Il mio inchiostro sarà il loro sangue».
Ibrahim fu l’ultimo a rispondere, e chiese quasi a fatica: «Che ne è stato di quell’uomo?»
«Ora è uno dei capi delle forze nemiche» rispose Said mentre sorseggiava il tè. Il silenzio sembrò essere precipitato con un tonfo assordante quanto impercettibile, ma tutti e quattro lo avvertivano dentro di loro.
«Se quell’uomo, un Tārgī, è dall’altra parte della linea di guerra che divide la terra e il popolo, possiamo considerarlo ancora un Tārgī? È ancora un uomo? Io non so chi vado ad uccidere. Voi lo sapete?» Tutti e tre rimasero in silenzio, e Said continuò la sua riflessione: «Cosa uccide la guerra? La guerra uccide l’interiorità dell’uomo, la guerra uccide le lettere e le parole d’amore scritte sulla sabbia, la guerra uccide noi. Il semplice fatto che siamo qui è l’anticamera della nostra morte, noi moriamo prima di andare di guerra, se decidiamo di andare in guerra. Sarà l’inferno».
«Sei solo un vigliacco!» esclamò Hassan. «Non sei un Tārgī, non sei uno di noi!»
«No! Tu non sei uno di noi! Tu non sei più neanche Hassan! Guarda la guerra come ti ha cambiato! Già il solo pensarci ti rende furioso, pensi che questo sia il modo in cui dobbiamo fuggire dalle fiamme dell’inferno? Quelle sono le fiamme dell’inferno, sulla Terra, fatte da uomini che vogliono la guerra». Said lasciò tutti in silenzio, mentre finiva il tè: «Io ho visto quell’uomo bruciare il libro che aveva scritto, e ho sentito per giorni e lunghe notti piangere quella ragazza. Ho sentito le canzoni nascondersi al rumore degli spari. Ho sentito i profumi svanire, i sorrisi e la luce sui volti delle persone eclissarsi, in una notte dell’anima del nostro popolo. Così ho scelto di essere qui, come guardiano, prima ancora che come soldato».
«Se sei un vero Tārgī, allora combatti» incitò Eyadou puntandogli il dito contro.
«Contro chi combatto? Ecco il mio fucile! Ecco il mio coltello! Vuoi vedere anche la cesta delle bombe? Chi ha fatto queste armi? Tu? Io? O qualcuno che vuole che usiamo queste armi contro di noi? Avrei potuto uccidervi appena scesi da quel cammello, e voi volete andare a combattere, voi volete andare a fare la guerra».
Le sue parole sembravano fare eco nelle loro anime, così Ibrahim, scosso, pronunciò delle parole senza rendersene conto: «C’è un silenzio innaturale qui…»
«Perché non c’è nessuno qui» rispose Said.
Tutti rimasero in silenzio, in attesa di una spiegazione.
«Voi pensate che Gheddafi sia un grande uomo, un grande leader… la sua famiglia… pensate che voglia il bene del nostro popolo. Ma il nostro popolo di notte segue le orme delle donne che hanno camminato durante il giorno, il resto ve lo lascio immaginare. Le donne hanno paura di andare a raccogliere l’acqua al pozzo, così le anziane del villaggio si fanno forza, ma vengono sputate, insultate, anche picchiate, dai soldati».
«Dai soldati nemici».
«No… anche dai nostri. Sì, anche i nostri hanno cominciato». Ci fu un silenzio che sapeva di paura. «E questo perché gli uomini del nostro popolo hanno dimenticato di scrivere, hanno sporcato le nostre lettere, la nostra cultura, le nostre radici, le nostre origini. Io non so se quelli sono Tuareg o nemici, ma non so più chi è il nemico e chi è parte del mio popolo. So per certo che il fucile non è parte di noi, e nel momento in cui lo impugni, comincia ad ucciderti lento. Tutto comincia cambiando il modo in cui si scrive, poi dove si scrive, e infine… si scrive con il sangue dei nemici».
Le cinque dita della mano di Ibrahim disposte come un rastrello scavarono cinque linee distanziate e parallele nella sabbia, sollevavano ed appoggiavano la tazza, lasciando come dei timbri, ed Ibrahim ebbe l’impressione che fosse lui quella tazza. Ogni volta che si appoggiava si creava un legame, che avrebbe poi dovuto abbandonare per muoversi altrove, lasciando inevitabilmente dietro di sé un marchio. Sentì che così era la vita, un passaggio tra diverse tappe, degli affetti, dell’amore, fino ad arrivare all’ultima destinazione finale, la morte. Ma la morte non era così terribile, se era a lungo desiderata. Lui non desiderava morire, desiderava qualcosa di sacro, qualcosa che fosse oltre tutto questo, qualcosa di universale: la musica era l’unica strada che conosceva, come gli affetti che pian piano sembravano sia ravvivarlo che ucciderlo. Gli sembrava parte dell’inevitabile processo e percorso di crescita di un uomo, ed in particolare, di un Tārgī. Quasi senza pensare, con l’indice iniziò a scrivere nella sabbia.
«Cosa sono quelle?» inquisì Hassan.
«Delle note» suggerì Eyadou.
«E queste… – Ibrahim gli prese l’indice della mano e lo passò sopra il solco delle lettere che aveva scavato nella sabbia – …sono le lettere».
«Le parole» concluse Said.
Eyadou chiuse gli occhi e cercò di leggere passando il dito sulle le lettere che erano state scritte.
«Le riconosci?» chiese Said.
«Sì. Mi sembra di ricordarle… di ricordare… quando mia madre me le aveva insegnate».
«Questo siamo noi, non i fucili» gli disse Ibrahim lasciandogli il dito, che si fermò per un secondo.
Eyadou continuò a farlo scorrere e scrisse alcune lettere dopo quelle di Ibrahim. Hassan con la tazzina stava pensando su quale riga o tra quali righe appoggiarla, sotto lo sguardo triste e un accenno di sorriso di Said, che sentiva il cuore riscaldarsi da quello che stava succedendo in quel momento. Fu così che nel cuore della notte quattro figure uscirono da una tenda, e da lì dal recinto, prima che tornassero gli altri, verso una meta ben precisa. Non sarebbero stati utili come guerriglieri. Non mancava loro coraggio, anzi. La guerra non risolve conflitti, ne crea. Loro volevano rivedere la libertà tornare fra i Tuareg, non sangue e fanatismo. La loro missione andava ben oltre l’addestrarsi a sparare ai Songhay. Erano musicisti, o almeno lo sarebbero diventati di lì a breve, perciò avrebbero lottato con i mezzi a loro favore, musica e parole. Sarebbero volati fino in Europa per cantare la disperazione del loro popolo. Si sarebbero fatti notare dal mondo intero. Nessuno, in tutto il pianeta, doveva ignorare la situazione del Mali.
Fino a quel momento il suo sguardo non era mai andato oltre la sua altezza, la veduta delle cose era ferma ad un metro e ottantasette, una buona veduta ma non abbastanza per comprendere la bellezza del mondo. Dall’aereo Ibrahim poteva vedere le immense distese ritagliate da piccoli corsi d’acqua, isolotti sparsi nel blu del mare, e poi case e strade, colori sgargianti e poi spenti. Eccitato ma allo stesso tempo intimidito dalla grigia e imponente Tour Eiffel, si separava per la prima volta dal tanto amato Tagelmust: non ne avrebbe più avuto bisogno per ripararsi dai raggi violenti del sole e dalle correnti di sabbia trasportate dal vento, la sua anima non era più in pericolo per gli spiriti maligni che si potevano incrociare nel deserto.
Ibrahim si era appena appoggiato al finestrino e stava per chiudere gli occhi quando Hassan esclamò: «Quindi adesso ci toccherà scegliere una sola moglie, eh, Ibrahim?»
«Sì, mio caro Hassan. Anzi, mi rivolgo a voi tutti: sceglietela bene perché dovrete andarci d’accordo per moltissimo tempo! Tanto scommetto che la prima Coco Chanel la sposerò io!»
«Ottima idea» rispose Eyadou che aggiunse: «Così ci presenterai le sorelle e noi non dovremmo fare il minimo sforzo».
I quattro dopo il lungo viaggio arrivarono a casa del cugino di Hassan, sul taxi si diressero verso boulevard Barbés, era lì nel cuore del quartiere musulmano di Parigi che Abdallaah Ag Alhousseyni partito dal Mali cinque anni prima, viveva. Lavorava come cameriere in un ristorante della zona, aveva imparato il francese ed aveva molti amici. Li avrebbe ospitati, sfamati e guidati, forse sarebbe stato un nuovo inizio anche per loro. L’ennesimo. Forse l’ultimo.
Eccola, la tanto attesa resurrezione, ma spiegare la libertà a chi vive nel deserto significa mostrare le libere possibilità che si offrono all’uomo dentro una città, in termini di valore e contenuto, forse significa esonerarlo dalla necessità di determinati comportamenti e abitudini primitivi. La vita a Parigi sarebbe stata piena con qualunque cosa, avrebbe avuto nuovi sensi e necessità, calcoli e pianificazioni.
Ibrahim, portava con se gioie e dolori, ogni notte nel nuovo letto rivolgeva il pensiero a quei due occhi neri, quelli che da bambino lo scrutavano accompagnandolo anche a distanza, le luminose perle nere di sua madre. La paura più grande era quella di perdere un giorno i contorni di quella immagine, così viva e nitida oggi. Non aveva più sue notizie da tempo, non riusciva a mettersi in contatto con lei, ribadiva a se stesso che sarebbe andato tutto bene, sarebbe riuscito un giorno a rivederla e a portarla con sé.
A Parigi i Tinariwen, questo il nome scelto dal gruppo, dopo solo tre mesi di permanenza, iniziarono a esibirsi per strada, prima di notte violando obblighi fiscali e amministrativi che ovviamente ignoravano, poi pian piano anche di giorno. Ogni rue riecheggiava di nuovi suoni, suoni che portavano un grido disperato e al tempo stesso di speranza. Come con gli occhi di quel bambino d’un tempo, Ibrahim osservava tutto ciò che lo circondava entusiasmato e ammaliato, e avenue des Champs-Élysées gli appariva un miraggio. Anche Abdallaah si unì a loro. Erano in cinque adesso e a Parigi iniziavano a riscuotere i primi successi.
Ed ecco la fine della festa, una mattina quel rumoroso schermo sottile a cui dopo tre mesi Ibrahim si era abituato, era li acceso davanti a lui. Un uomo brizzolato sulla quarantina si accingeva a recitare come da bravo attore, la notizia del giorno: “Attacco in Mali da parte dell’Isis: il raid delle forze speciali del Mali spalleggiate da americani, francesi e soldati dell’Onu all’Hotel Radisson Blu di Bamako in Mali si è concluso. I terroristi, ha annunciato il ministro della Sicurezza Interna maliano, il colonnello Salif Traoré, non hanno più alcun ostaggio sotto il loro controllo, ma si contano già almeno ventisette vittime (oltre ad almeno tre terroristi). Secondo fonti Onu, i terroristi sarebbero stati tutti uccisi. L’azione terroristica è stata rivendicata da Al-Murabitun, un gruppo affiliato ad Al-Qaeda e guidato dal famigerato Mokhtar Belmokhtar, ex contrabbandiere (di qui il soprannome Mr. Malboro), reduce della lotta in Afghanistan e signore della guerra nordafricana.”
Dietro le spalle di Ibrahim, incredulo davanti al televisore, vi erano anche i ragazzi, che guardandosi negli occhi restavano ammutoliti. E un istante dopo, senza nemmeno aver avuto il tempo di codificare quanto recepito, ecco la seconda doccia gelida, stavolta diretta per Ibrahim: “Rapimento di alcune donne per azioni condannate dalla Shaaria”.
Il giornalista in piena edizione straordinaria non lo sapeva, non aveva comunicato i nomi delle donne, ma quella mattina aveva mostrato che tra loro, c’era anche Suah, la madre di Ibrahim. Sarebbe subito partito per liberarla e portarla in salvo, avrebbe meritato anche lei, un nuovo e rispettoso inizio. Si catapultò a raccogliere i documenti necessari per partire.
«Cosa facciamo adesso?» domandò Said.
«Io andrò e non tornerò senza di lei» replicò Ibrahim.
«Perfetto. Si riparte, noi siamo con te» aggiunse Hassan.
Ibrahim di certo non sarebbe partito da solo, lo spirito del gruppo era rimasto uguale. D’altronde nascevano così, da una collaborazione unanime, un bisogno d’aiuto e di sostegno. Riprendevano i Tagelmust, e sarebbero ritornati a casa o quel che ne rimaneva.

Il sentimento che accompagnava il loro viaggio questa volta era paura mista a coraggio, era angoscia, ansia e apprensione. Toccata terra, ad Ibrahim raccontarono che le donne del Mali scampate alla guerra erano state vittime dei terroristi, avevano setacciato le case una a una, violentato le mogli sotto gli occhi dei figli e dei mariti. Erano poi tornati e avevano cercato le figlie, le avevano stuprate sotto gli occhi delle madri e dei padri. Avevano rapito le dodicenni per farne spose-bambine. Solo allora, erano passati a mutilare i mariti.
In casa di Moktaria, amica d’infanzia di Ibrahim, i terroristi entrati più volte, non l’avevano violentata perché era incinta. Però, ogni volta, lei nascondeva le due figlie adolescenti in una botola sotto il tappeto: «Alla fine, per la paura, ho perso il bambino. Non c’erano medici, l’ospedale non funzionava. Ho creduto di morire, ma non sono morta. Non sono morta neanche quando io e mio marito abbiamo sepolto il bambino, di notte, dietro la casa».
«Ma cosa è successo, sorella mia? Raccontaci tutto e vieni qui abbracciami. Mi sei mancata» affermò Ibrahim stringendo a sé l’amica.
Moktaria raccontò ai ragazzi e soprattutto ad Ibrahim, tutto ciò che per fortuna i suoi occhi non avevano visto, tutto ciò per cui sua madre adesso non era lì ad accoglierlo. C’era stato un’ attacco jihadista all’albergo, situato nella zona residenziale della città, cominciato intorno alle sette di mattina del giorno precedente. Gli assalitori erano arrivati a bordo di un’auto immatricolata con targa diplomatica, avevano sparato colpi di arma da fuoco urlando «Allah Akbar!»
Tutto il settore settentrionale del Mali infatti era stato occupato da milizie jihadiste, alcune con legami ad Al-Qaeda, per gran parte del 2012. Molti gruppi jihadisti furono snidati grazie a un’operazione militare internazionale su iniziativa francese, lanciata nel gennaio 2013, ancora in corso. Ma alcune zone del Paese rimangono ancora fuori dal controllo delle forze maliane straniere. E se fino a qualche tempo fa gli attacchi jihadisti erano rimasti concentrati nel nord, dall’inizio del 2015 si erano estesi al centro e, da giugno, al sud del Paese.
Dopo il breve excursus di Moktaria e qualche ora di riposo per riprendere le forze, Ibrahim e i quattro fedeli si recarono nel carcere di Gao e in un attimo si ritrovarono a dover rivivere quello smarrimento dantesco della selva oscura, ma qui non c’erano i peccatori, non c’era nessun Caronte, c’erano i dannati, sì, ma quelli maliani reali erano molto più sconvolgenti e tragici. Prima di entrare Ibrahim si voltò verso i ragazzi e, guardandoli, disse: «Andrò tutto bene, ma se dovesse succedere qualcosa, correte il più possibile e non voltatevi. Lasciatemi qui se qualcosa va storto. Non voglio che rischiate per me. Promettetelo!» Con queste parole varcavano l’ingresso nella prima bolgia, dove incontrarono dei bambini soldato ammassati in una stanzetta senza finestra, piangevano.
«Il loro destino era forse segnato? Avrebbero potuto scegliere? Che ci fanno qui queste anime pure?» si domandava Ibrahim, guardando i compagni. Alcuni avevano anche meno di dieci anni, prima schiavizzati e costretti ad usare i fucili come giocattoli, poi detenuti in prigione come adulti, benedicevano urlando i nomi delle loro madri, convinti che queste potessero udirli e andarli a riprendere.
Ibrahim andò avanti, e attraversò un’altra bolgia, dietro le sbarre qualche donna stava partorendo. La realtà delle donne in carcere era dolorosa e deprimente a causa delle condizioni disumane. Entro queste mura femminilità e maternità non erano tutelate. Se la mancanza di spazio, la scarsa igiene e il sovraffollamento appartengono purtroppo all’intera comunità carceraria, per le donne ci sono esigenze fisiche, affettive ed emotive dai connotati molto dolorosi. Un luogo di grande sofferenza nel quale, oltre alla libertà, all’intimità, alla soggettività, si viene private fin dall’ingresso delle piccole e grandi cose che sono parte della vita di una persona, che contribuiscono a renderla se stessa, a sorreggerla nell’identità. E nella femminilità.
Ibrahim riflettendo su ciò la scorse, tra i visi stanchi e tristi. Eccola lì accovacciata nell’angolo, Suah la madre delle madri, un solo figlio biologico ma tanti i bambini attorno al suo focolare. Ibrahim se lo ricordava bene, dopo la morte del padre quanto straordinaria fosse diventata quella donna adesso così piccola e impaurita in ginocchio davanti a lui.
Nel Mali si avevano tanti figli, laggiù, la media era almeno sei a testa. Ma nei vari accampamenti di sfollati erano molti di più per ogni donna, perché tutte nel loro lungo viaggio, nella loro fuga e nella lotta per la sopravvivenza, raccoglievano orfani di parenti caduti o di sconosciuti. Sentimenti e emozioni, sembravano assumere toni del tutto particolari quando a essere coinvolti erano donne e bambini.
Liberata Suah, si diressero tutti verso il fiume Niger, con i ribelli appostati sulla sponda come cecchini: un viaggio lungo cinque, sei, sette giorni, mangiando pane secco, bevendo acqua fluviale. Durante la fuga verso l’Europa, tantissimi compagni di viaggio s’erano uniti a loro ma la maggior parte morivano, o di fame, o di dissenteria, o per i colpi dei kalashnikov. Non Suah, che adesso parlava, settimane dopo quella fuga, con uno strano sorriso fisso, terribilmente incongruente, a vederlo.
«Madre, ho bisogno di sapere e tu hai bisogno di parlare. Solo così potrai dimenticare questo dolore» disse Ibrahim.
Suah stringendolo forte a sé, disse: «Figlio mio, non c’è niente da dire, ho fatto solo quello che avrebbe fatto chiunque, ho difeso quella ragazza, violata nel suo animo candido. I giorni in prigione sono un ricordo che voglio cancellare, mi allietava solo la tua attesa, sapevo che ce l’avresti fatta a tirarmi fuori da là. Tuo padre ne sarebbe fiero, lo sai».
Era ancora sotto shock nonostante fossero a Parigi, lontano da tutto quel caos infernale. Il sorriso meccanico era ancora più incongruente dei nuovi abiti borghesi e degli orecchini d’oro da regina regalati da Ibrahim, coi quali si ergeva nel cortile come se avesse davanti ancora un rudere di terra arida. L’evento era “Les rencontres de Bamako”, la biennale africana di fotografia, con un numero molto alto di artisti africani, fieri d’avere uno spazio per esprimersi e per ricordare anche loro, quei tanti fratelli partiti ogni giorno, perché purtroppo di alcuni di loro si perdevano le tracce per sempre, ma molti preferivano rischiare di morire nel tragitto che restare senza far nulla.
A Parigi questa libertà l’avevano percepita sia Ibrahim che Suah, la quale, per l’occasione,li avrebbe accompagnati come fa una madre portando i figli a scuola il primo giorno. Emozionata e felice, Suah aveva cucito con le proprie mani, i vestiti per l’esibizione dei Tinariwen. Abiti in bazin, sarebbero serviti per farli sentire a loro agio di fronte a tutto quel pubblico e avrebbero contribuito a mostrare le loro anime calde provenienti dall’Africa. sia Ibrahim che Suah, la quale, per l’occasione,
Suah li guardava orgogliosa e fiera: chiudendo gli occhi quei suoni le permettevano di veder scorrere davanti a sé tutta la sua vita, era l’inno del nuovo esordio. Il primo album discografico era già nel cuore di tutti e in molti erano lì proprio per loro. Tinariwen significa i “deserti”: il nome era nato così, spontaneo, come quelle cose che hai dentro da sempre ed escono in modo semplice, al momento giusto. Il deserto era la loro vita, la loro essenza e la loro identità, era questo quello che avrebbero suonato per sempre. Tra gli applausi dall’alto del palco i Tinariwen urlavano: «Tinariwen pour Paris, Tinariwen pour la vie!»