Relazione di Serge Vanvolsem

DIECI ANNI FRA EKS&TRA
NUOVE VIE PER LA LINGUA E LA LETTERATURA ITALIANA

Con l’edizione 2004 del premio, il concorso Eks&Tra compie il suo secondo lustro: il neonato riminese del ’95 ha quasi dieci anni e, come spesso succede nella vita, si è trasferito: grazie all’interessamento del Centro di Educazione interculturale della Provincia vive ormai da parecchi anni qui a Mantova. Vi sono più modi per guardare indietro a quest’arco di tempo e portare un giudizio su questo decennio. Anzitutto i fatti: dieci anni significa in primo luogo oltre 500 autori e più di 1600 testi letterari presentati, di cui, dopo le necessarie selezioni, circa 200 testi occupano oggi le pagine delle nove antologie già pubblicate: un centinaio di poesie e quasi altrettanti racconti. Gli autori, un buon centinaio fra poeti e prosatori, provengono da una quarantina di paesi diversi che si potrebbero distribuire in quattro blocchi: l’Africa occupa il primo posto con una quindicina di paesi, fra cui emergono soprattutto l’Algeria, il Marocco, la Tunisia, il Senegal e il Togo; poi vengono, ognuna con una decina di paesi rappresentati, l’America Latina con l’Argentina, il Brasile, e il Messico, l’Asia con soprattutto la Siria, e l’Europa dell’est con l’Albania e la Romania. L’insieme costituisce una ricca tavolozza multietnica, immagine fedele della presenza straniera in Italia. E poiché l’insieme dei testi pubblicati è disponibile anche tramite internet, sul sito di Eks&Tra, l’associazione può vantare giustamente di avere realizzato il primo archivio in Italia della memoria della letteratura della migrazione, disponibile on line.

In dieci anni la letteratura dell’immigrazione è cambiata parecchio e ci ha costretti a guardarla con occhi diversi. È cambiata perfino la terminologia con cui si parla del concorso, perché sul risvolto di copertina della prima antologia, Le voci dell’arcobaleno (1995), si può ancora leggere che il premio era voluto “per favorire l’integrazione razziale” e che la giuria aveva un carattere “multirazziale”. La parola razziale sparirà ben presto, sin dalla seconda edizione, a favore di termini storicamente meno carichi e culturalmente più giusti come multietnico, interculturale, e multiculturale. Quali sono stati, quindi, i cambiamenti più vistosi? Direi anzitutto che oggi la letteratura dell’immigrazione esiste, e che ha ricevuto un volto. A metà degli anni ’90 Vincent Depaul, poeta ivoriano e vincitore della prima edizione, gridava ancora:

 

Voglio urlare, ma ho paura!
Mi zittiranno per sempre.

Oggi queste grida, non dico che sono state accolte in pieno, ma almeno sono state sentite: dopo un inizio piuttosto timido, di scrittura a quattro mani, ora la biblioteca della letteratura dell’immigrazione contiene decine e decine di titoli, ed il fenomeno è diventato argomento di studi critici, di tavole rotonde, di cicli di conferenze e di congressi. L’Italia segue in questo un movimento che si è manifestato anche in altri paesi occidentali e negli Stati Uniti o in Canada. Ognuno si ricorderà il premio Goncourt del 1987 per La nuit sacrée di Tahar Ben Jalloun. Quest’anno, il 20 marzo 2004, il più prestigioso premio letterario per l’area neerlandofona, la Civetta d’oro (25.000 euro) è andato ad uno scrittore di origine marocchina, che vive in Olanda da quando aveva sette anni, Hafid Bouazza, per un romanzo, Paravion, in cui parla di migrazione e di sensualità. E proprio in questi giorni, in cui qui a Mantova si svolge il nostro 4° Forum internazionale sulla letteratura della migrazione, si è concluso a Ferrara un convegno nazionale, già il terzo della serie, su Culture e letterature della migrazione (25 marzo), con, fra l’altro, la partecipazione, ormai come scrittori riconosciuti, di autori che ai concorsi di Eks&Tra hanno fatto i primi passi. Alcuni scrittori hanno anche preso parte a manifestazioni all’estero, in Europa e negli Stati Uniti. Nel novembre scorso in Belgio, p. es., durante il festival di Europalia, si sono svolti tre incontri, a Marcinelle, a Winterslag e a Bruxelles, che, per la prima volta, hanno riunito degli scrittori di quest’immigrazione in Italia e degli emigrati italiani scrittori del Belgio. Con Gëzim Hajdari potrei dire quindi:

 

cosa voglio di più dalla vita
una studentessa mi scrive
che ha letto le mie poesie
e le sono piaciute
(…)
oggi mi sento felice
e non ho nessun motivo per essere triste

 

Non si deve, tuttavia, essere troppo trionfalistici: la strada è ancora lunga. Gli autori che pubblicano le loro opere, o che partecipano a pubblicazioni collettive e a riviste sono appena un centinaio; su oltre due milioni e mezzo di stranieri è relativamente poco. Se poi si guarda la provenienza geografica in Italia, si vede che domina il centro-nord, con soprattutto la Lombardia e il Veneto, meno il Piemonte; il sud è poco rappresentato, anche se è vero che contiene appena il 10% degli stranieri.

C’è poi un altro problema su cui vorrei attirare l’attenzione. Qualcuno ha affermato che io sarei contrario a questo premio, perché l’anno scorso ho dichiarato, da questa stessa tribuna, che premi e forum sulla letteratura della migrazione non possono che essere delle tappe intermedie, da superare. Lo scopo del concorso deve essere quello di attirare l’attenzione, di far conoscere, di stimolare, di aiutare, di spingere, di lanciare e finalmente di far volare con le proprie ali. Si deve tuttavia ad ogni costo evitare di compiacersi della situazione attuale o di volerla istituzionalizzare. Parlare di letteratura femminile, gay, postcoloniale… o dell’immigrazione è, certo, offrire a queste scritture dei canali privilegiati per esprimersi, ma privilegiati significa anche riservati, protetti. Nel passato anche gli indiani sono stati rinchiusi in riserve… per proteggerli! Parlare di queste letterature settoriali è quindi sempre una forma di marginalizzazione, è ammettere che se ne parla e che se ne deve parlare perché la letteratura tout court ancora non lo fa, ignora o trascura il fenomeno, o comunque lo giudica tuttora inferiore rispetto alla produzione letteraria comune. È quindi accettare la tradizionale distinzione fra una letteratura canonica, che conterrebbe solo gli autori veri e propri, ed un’altra, per gli scrittori di serie B. Ecco perché il Goncourt di Ben Jalloun (1987), la Civetta d’oro di Bouazza (2004), e aggiungo volentieri per l’italiano, il premio Montale di Hajdari (1997) sono così importanti, perché sono stati conseguiti non in un’area protetta, ma su un terreno aperto ad ogni forma di concorrenza, comprese, purtroppo, anche le regole di una crescente monetizzazione della letteratura come di tutta l’arte. La vita letteraria vera e propria comincia fuori delle ‘riserve’. In questa prospettiva i concorsi di Eks&Tra sono forse più importanti per il loro valore socio-educativo o antropologico che non per quello strettamente letterario, anche se si deve riconoscere che il successo letterario di alcuni suoi autori al di fuori del concorso prova che la giuria ha sempre avuto di mira la qualità letteraria dei testi.

Un discorso troppo ampio per quest’intervento richiederebbero le tematiche della letteratura della migrazione, però mi ci vorrei soffermare lo stesso qualche istante. E comincio subito con una citazione che riassume bene la concezione tradizionale di uno sviluppo che procede per tappe successive:
La nostra scrittura è, prima di tutto, un grido che fa conoscere le condizioni in cui vivono i nostri popoli. La lontananza dei nostri paesi ci dà una più profonda consapevolezza dei problemi, diversa da quella che avevamo prima di partire. (…) Lo scrittore migrante, quando arriva, respira ancora il vento della propria infanzia, vede l’Italia con i suoni del suo paese di origine, sente con i colori del cielo che ha lasciato. Scrive dei suoi ricordi distanti. Crea una letteratura nostalgica. È inevitabile: fa parte della prima fase della nuova letteratura migrante. (…) Entriamo nel secondo momento della letteratura della migrazione, quando esiste già la possibilità per i migranti di formulare una visione critica della società che li ha accolti; Cambia, pertanto, la tematica. Se viviamo in Italia, dovremo per forza parlare anche dell’Italia, delle sue contraddizioni, del suo popolo, delle nostre attuali esperienze.

È una divisione corretta da un punto di vista tematico, anche se forse eccessivamente schematizzata, ma che sul piano cronologico certamente non regge. Percorrendo i dieci anni di testi raccolti nei volumi di Eks&Tra si vede che i vari temi si intrecciano lungo tutto l’arco del tempo e che i grandi temi tradizionali della letteratura sono presenti sin dall’inizio. Certo nei primi anni l’immigrato parla più di se stesso, e quindi dominano le considerazioni sulle sue condizioni di vita (“Qui sono meno di una bestia/ e non merito neanche una grazia,/ dicono che capisco solo il linguaggio dei cammelli” si lamenta il marocchino Aziz Bouzidy) , sui suoi sentimenti: la solitudine, la tristezza, il dolore, la nostalgia, l’amicizia e l’amore, ma non mancano i testi che superano questa fase della memoria e della testimonianza per toccare i grandi temi della vita e della morte. Viceversa, l’evolversi della letteratura della migrazione non ha affatto cancellato i temi dei primi anni: rimangono sempre attuali e ricorrono anche nei testi di quest’anno. A metà strada troviamo un’infinità di riflessioni sull’identità: crisi di identità, conflitti interni, conflitti generazionali, incomprensione (comprese le difficoltà della comunicazione), fedeltà alle proprie tradizioni (sì o no legate alla religione) o ribellione, doppia identità… Una delle spiegazioni per queste tematiche così diverse e nello stesso tempo intrecciate può essere certamente la grande eterogeneità del gruppo. L’originalità di questa letteratura sta probabilmente nel punto di vista nuovo che questo “diverso”, come viene sempre considerato chi viene da fuori, ci apporta. Non per nulla l’antologia della settima edizione porta come titolo Il doppio sguardo, perché questi scrittori “vedono al di là dello specchio riflettendo immagini non di se stessi ma di più mondi. Sono caleidoscopi di esperienze racchiuse in una dimensione che allarga lo spazio e il tempo rallentando il ritmo della vita”. Un esempio concreto, lo troviamo nel volume stesso, nella poesia Habemus tempo del colombiano Tarsicio Matheus Rocha che “analizza, o meglio viviseziona il tempo, trasformando parodisticamente le strutture socioculturali della società contemporanea, così frenetica, in categorie grammaticali: modus utopicus, modus indecisionalis, modus sindacalis…”.

Vorrei anche fare qualche considerazione sulla lingua, perché mi sembra più importante di quanto non si pensi. Da moltissimi anni sono coinvolto negli studi della lingua e la letteratura dell’emigrazione italiana nel mondo, un campo che secondo me permette molti parallelismi con quanto facciamo qui, e uno dei temi che mi sta a cuore è proprio il possibile apporto linguistico di questa letteratura che viene da fuori. Se l’italiano vuole essere una grande lingua, o se vuole continuare a esserlo, deve urgentemente cominciare a tener conto di quanto ho chiamato l’italiano oltre frontiera. Molte altre lingue mondiali come l’inglese, lo spagnolo e il portoghese lo fanno già, e oggi sono addirittura impensabili senza quest’apporto che viene loro dalle realizzazioni ‘estere’. Se finora in Italia non si è ha mai presa in considerazione la lingua italiana fuori del paese come fonte di arricchimento lessicale e sintattico, era soprattutto a causa del basso livello, e del carattere più che altro dialettale della lingua della maggior parte degli emigrati, ma credo di avere dimostrato che oggi un tale atteggiamento non è più giustificato, che in vari ambienti all’estero si usa ormai un italiano elegante e di alto livello. Questo sviluppo è dovuto certamente alle profonde trasformazioni verificatesi nel mondo stesso della migrazione che oggi è tutt’altro che omogeneo. Ora molte delle riflessioni che riguardano la letteratura dell’emigrazione italiana all’estero, si applicano anche benissimo al mondo dell’immigrazione qui in Italia. I primi immigrati saranno stati ugualmente, per la maggior parte, degli alloglotti, dialettofoni illetterati o semianalfabeti, proprio come i primi emigrati italiani, ma sarebbe un errore usare ancora indiscriminatamente una tale etichetta per tutti quelli che in questi ultimi decenni sono arrivati in Italia. Infatti, la situazione linguistica del gruppo è molto eterogenea, e c’è anche chi, con tanto di diploma, ha potuto imparare presto e quasi alla perfezione, la lingua italiana. Fra gli immigrati scrittori, quindi, troviamo chi ha dovuto faticare per impadronirsi della nuova lingua, ma anche chi conosceva già benissimo l’italiano prima di approdare qui, e c’è perfino chi, arrivato in tenera età, ha fatto in Italia tutte le scuole al punto di conoscere meglio l’italiano (e il dialetto della zona in cui si muove) che non la lingua del paese di cui è originario. Queste situazioni linguistiche così varie costituiscono anche, al di là delle analogie e dei parallelismi che pure si possono verificare, una differenza fondamentale fra questa letteratura e quello che da qualche anno si comincia a chiamare la letteratura postcoloniale, perché questa analizza soprattutto autori che hanno scritto nella lingua imposta loro dal sistema scolastico dei paesi colonizzatori (ad es. africani che scrivono in francese o in inglese perché vivono o provengono da paesi ex colonie della Francia o dell’Inghilterra). Rispetto alla migrazione storica degli italiani nel mondo, oggi si sono modificate anche fortemente le condizioni della formazione intellettuale degli immigrati, perché ormai sono rappresentati quasi tutti i ceti della società. Mi limito ad un esempio, della mia città, ma vi sono moltissimi casi analoghi anche qui in Italia. A Lovanio conosco un immigrato ucraino che per vivere fa il giardiniere nelle villette dei dintorni della città. Al primo contatto mi aveva subito colpito la sua voglia di conversare e di imparare il neerlandese; poi ho scoperto che in realtà era medico, specializzato in chirurgia maxillofacciale, ma tuttora senza permesso di esercitare la sua professione da noi, perché doveva ancora superare un esame di lingua, e poi fare dei corsi integrativi ed accumulare un certo numero di ore di stage onde ottenere l’equipollenza del diploma. Per l’anagrafe e per i servizi comunali, però, è un immigrato con permesso di lavoro provvisorio… mentre per vivere continuerà a fare ancora un bel po’ il giardiniere. Il nostro non scrive né poesie, né racconti, ma è lo stesso un intellettuale di primo piano. Siamo quindi lontani dall’immagine dell’emigrato bracciante senza lavoro, che nel migliore dei casi poteva vantare un certificato di quarta o quinta elementare.

Per chi da adulto deve ancora imparare la lingua straniera i problemi sono naturalmente grandi, ma di solito l’immigrato non si mette a scrivere subito, salvo se, come l’albanese Gëzim Hajdari, era già poeta in patria. La prima preoccupazione è normalmente quella di sopravvivere, non di dipingere o di scrivere versi o racconti. La letteratura della migrazione, come pure le altre forme di espressione artistica, si manifestano pertanto sempre in qualche modo sfasato rispetto all’arrivo dei migranti. Per il Belgio, per es., nasce solo alla fine degli anni ’60, allorché la storia dell’immigrazione italiana comincia vent’anni prima con la firma dei primi accordi bilaterali del 1946. In Italia questo periodo di studio e di tirocinio linguistico è stato molto più corto, gli autori dei primi testi importanti, usciti all’inizio degli anni ’90, sono tutti o quasi tutti arrivati solo negli anni ’80: Pap Khouma, per esempio, arriva in Italia nei primi anni ’80, e passerà ancora per la Francia prima di stabilirvisi definitivamente, nel 1990 pubblica Io, venditore di elefanti (Garzanti); Saidou Moussa Ba è arrivato nell’ ’88, nel ’91 esordisce con La promessa di Hamadi (De Agostani); Mohamed Bouchane è in Italia dal 1989, nel ’91 pubblica Chiamatemi Alì (Leonardo); Nassera Chohra arriva nell’ ’89, nel ’93 esce Volevo diventare bianca (Edizioni E/O); Gëzim Hajdari vive in Italia dal ’92, e appena un anno dopo dà alle stampe Ombra di cane (Dismisuratesti, 1993), ecc. La qualità dell’italiano e della scrittura dipendono logicamente dalla durata del soggiorno in Italia, ma le incertezze linguistiche di chi è nel paese solo da poco si possono facilmente superare con la cosiddetta scrittura “a quattro mani” di cui vi sono anche in Italia più esempi. In genere, però, per chi arriva, o viene ammesso allo stadio della stampa non vi sono più problemi linguistici, anzi vi sono molti esempi di scrittura di ottimo livello linguistico, proprio come affermavo prima anche per l’italiano oltre frontiera e per la letteratura dell’emigrazione italiana nel mondo.

Ovviamente non è così facile valutare l’influsso linguistico vero e proprio, ma è evidente che la lingua si sviluppa con l’uso scritto e parlato che se ne fa. Più i testi circolano – e qui il ruolo dell’insegnamento, delle biblioteche pubbliche, degli operatori culturali, e dell’editoria mi pare fondamentale -, più lasceranno delle tracce. La Divina Commedia, I Promessi Sposi, ma anche libri più recenti, molto popolari come Cuore o Le Avventure di Pinocchio, sono testi che in epoche diverse sono stati decisivi per la formazione e per lo sviluppo dell’italiano. La fisionomia dell’italiano di domani, però, sono naturalmente gli autori di oggi e le persone che oggi parlano che la stabiliranno, inconsciamente e no. E gli scrittori della migrazione fanno parte di questo mondo, perché partecipano sempre più a manifestazioni pubbliche e perché i loro testi circolano e vengono letti. Le novità lessicali, p. es., come ha osservato proprio da questa tribuna Christiana de Caldas Brito, non devono necessariamente provenire dai settori tecnologici o economici: “Dove la forza della letteratura? Dove la forza della poesia? Parole scaturite dai nostri testi potrebbero accompagnare le già logore parole tecnologiche. Per una brasiliana, sarebbe bello se accanto alla parola computer fosse capita anche la saudade”. La posso rassicurare, saudade fa parte del lessico italiano, e la parola figura in tutti i vocabolari moderni: Zingarelli, Sabatini-Coletti, il Grande dizionario italiano dell’uso di De Mauro. Nel Vocabolario della lingua italiana dell’Istituto dell’Enciclopedia Treccani addirittura con una definizione bellissima: 1. Sentimento di nostalgico rimpianto, di malinconia, di gusto romantico della solitudine, accompagnato da un intenso desiderio di qualcosa di assente (in quanto perduto o non ancora raggiunto), che permea la poesia lirica portoghese e brasiliana dell’Ottocento e che, rivendicato nei primi del Novecento da alcuni letterati fautori di una rinascita della cultura portoghese come atteggiamento tipico del carattere nazionale, si è diffuso come stereotipo dell’animo portoghese e, per estens., brasiliano. 2. In musica, danza strumentale basata su ritmi del folclore brasiliano.

Devo precisare, però, che gli scrittori immigrati possono tutt’al più avere contribuito a ricordare la parola saudade, e magari a farla circolare di più, perché era già entrata nella lingua nel 1959, cioè più di trent’anni prima della pubblicazione delle prime opere della letteratura dell’immigrazione.

Non posso terminare senza un accenno alle scuole, specie qui nel mantovano. Ne ha già parlato Corrado Giamboni nel suo rapporto dell’anno scorso. La giuria del concorso ha una lunga esperienza di contatti con le scuole, portando in classe direttamente sia gli autori sia gli altri membri della commissione. Non so esattamente cosa abbia rappresentato per i giovani questa forma di dialogo, ma per la giuria è stato molto significativo constatare che questi incontri erano sempre stati molto ben preparati. Vi sono dunque in queste scuole degli insegnanti motivati ed entusiasti che riescono ad entusiasmare anche i propri allievi. Questo lavoro con e per i giovani è molto importante, perché sono loro che dovranno realizzare la società multiculturale di cui noi ora viviamo solo gli esordi. Ed è tanto più significativo che questo avvenga proprio qui, in una zona in cui molte scuole rispecchiano già questa futura società multietnica e multiculturale. Proprio per quest’impegno vorrei esprimere un sentito grazie a questi insegnanti, perché costruiscono davvero il futuro. Devo concludere: in un decennio Eks&Tra ha fatto un gran bel lavoro, perché ha contribuito ad inserire la letteratura della migrazione sia nella società, sia nella letteratura tout court. Nella grande Storia della letteratura italiana che Enrico Malato sta pubblicando per la casa editrice Salerno la ‘nostra’ letteratura della migrazione costituisce un ampio paragrafo del volume XII dedicato alla letteratura italiana fuori d’Italia. È la prima volta, credo, che una collana di storia della letteratura italiana includa, accanto ai grandi classici, anche autori come Pap Khouma, Saidou Moussa Ba, Mohamed Bouchane, Nassera Chohra, Fitahianamalala Rakatobe Andriamara, Rosana Crispim da Costa, Ron Kubati, Gësim Hajdari, Mohamed Ghonim, Christiana de Caldas Brito, Jadelin Mabiala Gangbo e molti altri ancora. E non è un mero elenco, ognuno viene brevemente analizzato. Faccio quindi mie le parole con cui il collega ed amico Ermanno Paccagnini conclude il capitolo:

 

È quindi forse possibile adesso riossigenare, rinvigorire la nostra odierna stanca e spesso sclerotizzata espressività letteraria non solo o non tanto a livello tematico, quanto piuttosto di immaginario narrativo, e anche di soluzioni stilistiche, tramite questi contributi che possono concorrere a scomporre e fors’anche a sgonfiare diversi stereotipi (…). La multiculturalità può infatti condurre in tali casi, attraverso un percorso di ibridazione, a un profitto espressivo: che mira non solo a una nuova espressione linguistica in quanto meticciato lessicale, ma piuttosto alla produzione di una lingua italiana che si piega, più che al lessico, soprattutto alle strutture sintattiche, e in particolare alla sintassi mentale delle nuove provenienze culturali.

Se aggiungo a questi arricchimenti linguistici e letterari anche tutto il calore umano che ci regalano, non posso che dire a tutti questi scrittori, quelli noti come quelli non ancora tanto noti, un sincero e sentito grazie.

 

http://digilander.libero.it/vocidalsilenzio/primoconvegnonazionale.htm

 


Bibliografia:

Le antologie del Premio:
A. Ramberti – R. Sangiorgi (a cura di), Le voci dell’arcobaleno, Santarcangelo di Romagna, Fara, 1995.
Aa. Vv., Mosaici d’inchiostro, Santarcangelo di Romagna, Fara, 1996.
A. Ramberti – R. Sangiorgi (a cura di), Memorie in valigia, Santarcangelo di Romagna, Fara, 1997.
R. Sangiorgi – A. Ramberti (a cura di), Destini sospesi di volti in cammino, Santarcangelo di Romagna, Fara, 1998.
R. Sangiorgi – A. Ramberti (a cura di), Parole oltre i confini, Santarcangelo di Romagna, Fara, 1999.
Aa. Vv., Anime in viaggio. La nuova mappa dei popoli, Roma, Adnkronos, 2001.
Aa. Vv., Il doppio sguardo. Culture allo specchio, Roma, Adnkronos, 2002.
Aa. Vv., Impronte. Scritture dal mondo, Nardò (LE), Besa, [2003].
Aa. Vv., Pace in parole migranti, Nardò (LE), Besa, [?].
R. Sangiorgi (a cura di), La seconda pelle, San Giovanni in Persiceto (Bo), Eks&Tra Editore, 2004.

Saggi:

Sergio D’Amaro, recensione a L. Fontanella, La parola transfuga. Scrittori italiani in America, Fiesole (Fi), Cadmo, 2003, in “Frontiere”, IV, n. 8 (dic. 2003), pp. 50-51.
Antonio D’Alfonso, In Italics. In Defense of Ethnicity, Toronto – New York – Lancaster, Guernica, 1996.
Enrico Malato (a cura di), Storia della letteratura italiana, Roma, Salerno Editrice, 1995- , 14 voll., in particolare vol. XII: La letteratura italiana fuori d’Italia, a cura di Luciano Formisano, 2002.
Jean-Jacques Marchand (a cura di), La letteratura dell’emigrazione. Gli scrittori di lingua italiana nel mondo, Torino, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, 1991.
Roberta Sangiorgi (a cura di), Gli scrittori della migrazione, Centro di Educazione interculturale della Provincia di Mantova – Eks&Tra, [2002].
Serge Vanvolsem, Funzione e potere dell’italiano oltre frontiera, in “Otto/Novecento”, XXVI-2 (aprile/agosto 2002), pp. 29-40.
Serge Vanvolsem, Osservazioni sulla letteratura di immigrazione, in “Frontiere”, V/9 (giugno 2004), pp. 15-17.
Serge Vanvolsem, L’italiano dell’immigrazione alta, in N. Maraschio et al. (a cura di), Italia linguistica anno mille. Italia linguistica anno duemila, Atti del XXXIV congresso internazionale di studi della SLI (Firenze, 19-21 ottobre 2000), Roma, Bulzoni, 2003, pp.391-399. Serge Vanvolsem, L’italiano metropolitano vs. l’italiano globalizzante, in Atti del congresso “VI Jornadas internacionales de estudios italianos” (Città del Messico, 24-28 nov. 2003), (in corso di stampa).
Serge Vanvolsem, La lingua e la letteratura dell’emigrazione come strumento didattico, in Atti del convegno internazionale La cultura italiana: Ricerca, Didattica, Comunicazione. Percorsi formativi per l’insegnamento dell’italiano (Paris, 16-18 ott. 2003), (in corso di stampa).