Relazione di Santino Spinelli

La necessità di una politica europea a sostegno della cultura romaní

La cultura romaní è patrimonio dell’umanità. È una cultura transnazionale e prismatica piena di complesse sfaccettature che sopravvive in Europa e nel mondo in condizioni spesso difficili da oltre sei secoli.

Essa vive grazie alle strategie di sopravvivenza attuate dai diversi gruppi di Rom, Sinti, Manouches, Kalé e Romanichals che l’hanno coltivata e difesa all’interno delle proprie famiglie.

In Europa non esiste una sola politica a favore della cultura romaní, ma essa è sfruttata in maniera deprecabile dalle organizzazioni “pro-zingare” senza scrupoli per le loro spicciole politiche.

Gli interventi legislativi europei, nazionali e regionali sono stati diretti alla tutela della cultura romaní, tutela che sottende un tutore o meglio un controllore.

La cultura romaní ha bisogno di una valorizzazione attraverso gli stessi soggetti che la vivono quotidianamente e una reale promozione presso l’opinione pubblica, la quale in verità è privata di un grande diritto: quello della conoscenza. Il mondo romanó è filtrato solo attraverso stereotipi negativi: l’opinione pubblica non solo non conosce nulla di quelle che sono le tradizioni culturali delle diverse comunità romanès, ma soprattutto non conosce le diverse espressioni artistiche romanès: la letteratura, la pittura, il teatro, etc.

Per comprendere e valorizzare la cultura romaní occorre uscire dall’etnocentrismo limitante e occorre spogliarsi dei pregiudizi radicati. È difficile, lo comprendo, ma è uno sforzo necessario da parte di tutti per promuovere un’effettiva interculturalità e creare le basi per una moderna società multietnica senza conflitti.

La parola interculturalità, oggi, è usata in maniera molto ambigua e spesso è sinonimo di mera conoscenza dell’esistenza di un’altra realtà culturale. Interculturalità, invece, ha un significato profondo e consiste essenzialmente nel “vivere” un’altra cultura. Solo “vivendo” una cultura diversa ci permette di arricchire il nostro bagaglio umano e allargare gli orizzonti culturali. L’interculturalità è una risorsa che allontana lo spettro dell’appiattimento del genere umano.

Ora bisogna riflettere su quante opportunità ha l’opinione pubblica di “vivere” realmente la cultura romaní, nella sua ricchezza e nella sua complessità espressiva. L’opinione pubblica viene privata di un diritto. E qui subentrano tanti fattori: innanzitutto una cattiva informazione che si trasforma facilmente in disinformazione, con la reiterazione di immagini e di clichè stereotipati che certamente non favoriscono il dialogo, ma al contrario, creano pregiudizi scontati, atteggiamenti di ostilità. Vanno poi sottolineate le politiche di rifiuto attuate nei confronti dei Rom arrivati in Europa nel XV secolo: politiche di espulsione, di reclusione, di sterminio, di deportazione, di assimilazione. I Rom, gli Sinti, i Manouches, i Kalé, i Romanichals, i 5 grandi gruppi che con i loro svariati sottogruppi costituiscono il paradigmatico mondo romanó e volgarmente definiti “zingari”, non sono arrivati in Europa con le armi, né con intenti bellicosi. L’unico popolo al mondo a non aver mai dichiarato guerra a nessuno perché non ha mai avuto l’esigenza di rivendicare un territorio e quindi di scalzare altre popolazioni per un insediamento, ne si è mai organizzato in formazioni terroristiche per rivendicare i propri diritti esistenziali,culturali e sociali. La cultura Romaní, basate essenzialmente sul concetto di “puro” e “impuro”, ereditato dall’antica cultura indiana, ed espressione di una società semplice basata sul concetto di dare-avere e ricambiare, non prevede l’omicidio (mardipé) o la guerra (merripé) in quanto considerati assolutamente “impuri”. Alla curiosità iniziale le popolazioni europee hanno fatto subentrare l’odio nei confronti di queste popolazioni forzatamente itineranti che già scappavano dalla repressine dei persiani, dei bizantini (in Romania i Rom, sono rimasti schiavi per 5 secoli e affrancatesi dalla schiavitù solo nel 1858!) dei Turchi Ottomani. In Europa invece di trovare scampo e una “patria” a cui offrire i prodotti della propria attività (musicisti, allevatori di bestiame, commercianti di cavalli, artigiani e lavoratori di ferro e rame) hanno “trovato” altre repressioni. Il primo bando contro i Kalé, mori ed ebrei sefarditi è del 1492 da parte dei cosiddetti “Re cattolici” spagnoli. Sotto l’influenza della corte spagnola, avendo parentele in tutta Europa, facilmente questi editti venivano estesi ad altri Paesi, tra cui l’Italia divisa, al tempo, in tante “Signorie”. Queste ultime erano veri e propri Stati nazionali che esigevano l’allontanamento di tutte quelle razze che in qualche modo intaccavano la “purezza” della razza locale. Da qui le incomprensioni che ci trasciniamo fino ad oggi. Le comunità romanès sono state costrette a vivere alla macchia,lontano dai centri abitati e soprattutto senza diritti. Continuamente espulsi, quando non venivano impiegati nelle battute di caccia come preda o pubblicamente giustiziati in quanto ingiustamente colpevoli di “cannibalismo”, sono andati alla continua ricerca di rifugi sicuri. Lo spostamento e la solidarietà del gruppo di appartenenza aiutava a sopravvivere. Il nomadismo, come si è delineato in Europa, è stato quindi la conseguenza delle politiche di rifiuto, li dove le comunità romanès hanno trovato le condizioni ideali sono rimaste, a conferma che le comunità romanès erano alla ricerca di una Patria. Per questo abbiamo disseminato Rom, Sinti, Kalè, Manouches e Romanichals in tutto il mondo, in tutti i continenti con oltre 12 milioni di persone.

La situazione dei Rom è sicuramente migliore rispetto all’Italia soprattutto nei Paesi dell’Est europeo dove esistono parlamentari e partiti politici Rom e dove si organizzano dei grandi eventi culturali che permettono una maggior diffusione, valorizzazione e conservazione del nostro patrimonio culturale e linguistico. In Ungheria e in Spagna la cultura Romaní fa parte del patrimonio nazionale. In Italia, purtroppo, a causa soprattutto di associazioni “pro-zingari” e di sedicenti “esperti” costituite spessissimo da opportunisti senza scrupoli, l’affermazione di una intellettualità Romaní è ritardata con conseguenze fortemente pregiudizievoli per la nostra stessa esistenza culturale. Negli ultimi 40 anni lo Stato italiano attraverso gli enti pubblici locali ha elargito all’interno del territorio nazionale centinaia di miliardi in favore della popolazione Romaní che purtroppo non hanno avuto nessun beneficio culturale da questi finanziamenti, anzi si è vista sempre più relegata nei “campi nomadi”, ovvero nei “lager moderni” e vero e proprio emblema di segregazione razziale, che anche nella ripugnanza e nel nome vuol ricordare i lager dei nazi-fascisti dove oltre mezzo milione di Rom e Sinti sono stati barbaramente massacrati. Purtroppo nella giornata della memoria dell’Olocausto che si celebra il 27 Gennaio questo viene spessissimo omesso e quindi senza il ricordo del massacro dei Rom, degli omosessuali, dei testimoni di Geova e degli antifascisti la memoria diventa mutilata. I Rom ammassati e stipati nei “lager civili” perdono la loro identità e la loro cultura millenaria. È ciò che è accaduto ai pellerossa d’America, che costretti a vivere nel ghetto della riserva sono stati “deteriorati” e oggi la maggior parte di loro sono alcolizzati e drogati. È chiaro che frustrati e disillusi i Rom provenienti dai territori della Ex Jugoslavia costretti a vivere in Italia nei “lazi plebei” e che nelle loro città di origine vivevano in case (spesso in confortevoli ville), con i loro lavori e i loro mestieri, “scoppiano” e quindi hanno un rapporto assolutamente negativo con la società circostante. Semplici fatti sociali vengono elevati a modelli culturali e l’errore del singolo si ripercuote sulla condanna di tutte le comunità romanès. In realtà la cultura Romaní non viene così conosciuta e viene mistificata. Le organizzazioni pro-zingare, con il loro becero assistenzialismo, per giustificare il loro “potere” e la creazione di “ziganopoli” attraverso “progetti fasulli” lautamente finanziati hanno tutto l’interesse a che la situazione non cambi ed è chiaro che non sanno che farsene di artisti e di intellettuali Rom capaci di pensare e di auto rappresentarsi.

La cultura romaní si identifica nella sua lingua.

La lingua Romaní non ha nulla a che vedere con la lingua Rumena, né tanto meno con le lingue romanze, ma è una lingua strettamente imparentata con le lingue neo-indiane come l’Hindi e deriva dal Sànscrito. Essendo tramandata oralmente si è arricchita nel corso dei secoli dei vocaboli dei popoli con cui è venuta a contatto, quindi si è arricchita di imprestiti del persiano antico, dell’armeno e del greco antico , e quindi in Europa degli imprestiti delle parlate e dei dialetti europei a seconda dell’itinerario seguito. È una lingua viva e vitalissima che come tutte le lingue ha numerose varianti dialettali. Da trenta anni la lingua Romaní si scrive ed è nata una fiorente letteratura che purtroppo pochissimi conoscono.

Personalmente credo che il mancato riconoscimento della nostra lingua, nel quadro della tutela delle minoranze linguistiche, come lingua minoritaria da parte del Parlamento Italiano sia dovuto a una totale incomprensione che affonda le sue radici nella più completa disinformazione. Perfino i Cimbri che in Italia sono appena 800 persone, hanno avuto il giustissimo e sacrosanto diritto al loro riconoscimento linguistico, quando invece Rom e Sinti con oltre 100mila persone residenti in Italia da almeno 6 secoli non hanno avuto questo privilegio. Spero vivamente che questa legge mutilata e incompleta venga rivista, che ci sia maggiore informazione e meno pregiudizi poiché l’opinione pubblica viene privata del diritto alla conoscenza, la lingua romaní, ripeto, appartiene all’umanità, non solo al popolo che con essa si esprime.

Ogni cultura merita lo stesso rispetto; “l’altro” in realtà siamo noi stessi, la paura dell’altro rivela la paura di se stesso, occorre quindi non incontrarsi, ma ritrovarsi.

Bisogna superare il “concetto di zingaro”, i tempi ormai sono maturi per cancellare questa parola dal nostro vocabolario, perché non esprime una connotazione etnica, ma un sentimento di avversità, visto il carico di negatività che racchiude. Esso va sostituito con popolazione Romaní o comunità Romanès anche perché i Rom, Sinti, Kalé, Manouches, Romanichals, con i loro innumerevoli sottogruppi, utilizzano la lingua Romaní o Romanès. Rom, Sinti, Kalé, Manouches, Romanichals sono etnonimi, ovvero il modo in cui noi definiamo noi stessi, “zingaro” è un termine che i Gagé (i non Rom) ci hanno attribuito in maniera dispregiativa.

Altri concetti vanno superati: come quello di nomade e di campo nomadi. Il nomadismo come si è sviluppato in Europa non ha una connotazione culturale, ma è stata la conseguenza delle politiche persecutorie, le comunità romanès erano “obbligate” a spostarsi continuamente così come il campo nomadi, oggi, giustifica la segregazione razziale e la discriminazione. In una società civile questa situazione non è più tollerabile. L’emarginazione, il furto e l’accattonaggio non sono espressioni culturali, ma fenomeni sociali e come tali vanno affrontati. La cultura è un’altra cosa; faccio un esempio: quando parliamo di cultura italiana, non si spiega prima il fenomeno mafioso e camorristico, il terrorismo e la pedofilia per poi parlare di Leopardi e Verdi. La cultura Romaní è l’unica ad essere “forzatamente” confusa con gli aspetti più deleteri della sua comunità, come se solo le comunità romanès avessero difetti. Questo atteggiamento in realtà cela la volontà di non conoscenza, alza barriere razziali e una contrapposizione violenta. L’opinione pubblica così non solo resta ignara e nella più completa disinformazione, ma si priva del diritto alla conoscenza di una civiltà, patrimonio dell’umanità.

L’Europa unita, civile e democratica,va creata attraverso il rispetto dei popoli che la compongono e fra questi c’è anche la popolazione romaní.

Questo è un principio che deve diventare patrimonio di tutte quelle società che vogliono progredire non solo sotto l’aspetto economico, ma anche e soprattutto sotto il profilo umano, sociale e culturale.

But Baxt ta Sastipé

Dott. Prof. Santino Spinelli
Docente di Lingua e Cultura Romaní – Università di Trieste
Vice Presidente del Parlamento della Romani Union Internazionale

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