Relazione di James Walker

LE VOCI AFRICANE NELLA LETTERATURA DELLA MIGRAZIONE

Di James Walker

Prima di tutto, vorrei ringraziare gli organizzatori di questo evento e dell’Associazione Eks&Tra (e soprattutto Roberta Sangiorgi), non soltanto per avermi invitato a far parte oggi, ma per aver ideato il concorso letterario che da dieci anni ormai offre un’opportunità unica di scambio, di dialogo interculturale, e di arricchimento culturale e personale. Come sappiamo tutti, l’Associazione Eks&Tra ha avuto e sta ancora compiendo un ruolo fondamentale nel facilitare l’incontro e l’apprezzamento reciproco fra le culture ed i popoli d’Italia ed i suoi ospiti. Di fronte allo sviluppo inesorabile e la contaminazione positiva inerenti nell’incontro tra culture, tra popoli, tra credi e filosofi e costumi e usanze, bisogna reagire in modo positivo, con azioni di accoglienza, che favoriscono un’educazione civile reciproca che apporterà una società nuova – fondata nei valori del rispetto, della tolleranza e della pluralità. E’ questo il modello che l’Associazione Eks&Tra ci ha dimostrato per gli ultimi dieci anni.L’obbiettivo del mio intervento, però, non è quello di dimostrare che i cosiddetti scrittori migranti arricchiscono la cultura italiana. Immagino che già questo lo apprezziamo tutti noi presenti. Il mio obbiettivo invece sarà di identificare alcune delle figure e delle tematiche usate da questi scrittori nel loro lavoro di ibridazione culturale. Vi parlerò di alcuni scrittori africani ora stabilitisi in Italia – molti dei quali sono venuti alla conoscenza pubblica tramite i lavori di Eks&Tra – e cercherò di tracciare (brevemente e in modo incompleto) alcune delle figure prominenti da loro utilizzate per arricchire ed abbellire i loro scritti – e di conseguenza la letteratura italiana. Alcune di queste figure e tematiche derivano proprio da fonti africane, dalle esperienze e dalle ricchissime culture d’origine di questi autori. Altre sono in comune con tanti altri artisti dell’epoca moderna (siano questi chiamati “italiani”, “della migrazione”, “postcoloniali”, anglofoni, francofoni, e così via), e infatti in questi casi vediamo di nuovo come la letteratura della migrazione in Italia offra legami importanti ad una comunità letteraria (ed umana) più ampia – infatti, “globale”.

La prima figura che noterei viene proprio dal mondo africano. E’ quella del griot. In tante società dell’Africa occidentale, il personaggio del griot è quello che gira in continuazione, tra villaggio e villaggio, cantando le storie delle famiglie famose e la storia delle comunità. Nei tempi antichi, i griot furono i consiglieri dei re, gli inviati tra le famiglie nobili, i portavoce, ed i custodi della storia e dei costumi del loro popolo.

I griot erano, e sono, i custodi della parola; conoscono i misteri delle età, e li trasmettono tramite le loro storie, cantate in onore di personaggi famosi e in momenti di raduno comunale, tipo le feste, le nascite, i funerali, ed i riti di passaggio dei ragazzi nel mondo degli adulti. I griot erano, e sono, i maestri della lingua parlata e quelli che stanno al centro del circolo del raduno, tenendo vivi per la comunità i legami tra passato e presente.

All’inizio del romanzo La promessa di Hamadi, uscito nel ’90 e scritto “a quattro mani” da Saidou Moussa Ba, del Senegal, e Alessandro Micheletti, leggiamo che i griot sono:

 

[i custodi] della memoria dei nostri popoli.
[…]sono gli scrigni delle parole,
gli scrigni che custodiscono i segreti dei secoli.
Conoscono tutte le storie passate e presenti,
tutte le leggende dei re, degli uomini, degli animali;
le conoscono e le cantano di villaggio in villaggio…
in modo che non vadano perdute.(1)

Dalle prime pagine di questo libro, gli autori presentano la figura del griot al pubblico italiano, sottolineando il suo ruolo fondamentale nel custodire le radici del popolo – un popolo disperso com’è tra le terre del mondo e tra le fasi dell’esistenza (i vivi, i morti, ed i non-ancora-nati). Questo testo, che ha indotto la letteratura della migrazione, ha anche introdotto la figura del griot come chiave di lettura per capire il significato del lavoro dei cantastorie africani trapiantati in terra italiana.

E’ importante notare che alcune delle parole stesse usate in questo passaggio e altrove nel testo arrivano dalla distanza delle epoche, siccome sono tratte dall’antica epopea di Sundiata, Imperatore del Mali Antico. Queste parole dunque sono state trasmesse fino ad oggi tramite la memoria culturale e le parole cantate dei griot africani – in una catena ininterrotta lunga secoli. L’uso di queste parole allora crea un rapporto diretto tra il passato e il presente, e tra l’Africa e l’Italia. Ripetendo queste parole, l’autore senegalese diventa in effetti l’erede dei cantastorie antichi, che continua il loro lavoro nel presente.

E’ anche importante notare la pluralità espressa nella figura. I griot conoscono “tutte le storie” e “tutte le lingue”, dice il testo, e così dev’essere anche per i raccontastorie migranti di oggi. In questo testo, rappresentativo di tanti altri, Moussa Ba e Micheletti parlano con più di una lingua, mescolando elementi e tematiche da piu’ di una cultura, a raccontare una storia di migrazione che rappresenta molto più di una. Gli scrittori africani in Italia parlano per forza con lingue multiple. Le loro storie si rivolgono a più di un pubblico, e vengono da più di una fonte culturale.

Da questa figura del griot, è facile passare ad una seconda figura particolare della letteratura afro-italiana d’oggi: quella dell’oralità. Qui cito lo scrittore Kossi Komla-Ebri, originariamente del Togo, vincitore più volte del premio Eks&Tra, che parla nei suoi scritti della “Forza e potere della Parola, del Nome, del Verbo”(2). Come sappiamo, la maggior parte delle società africane, prima dell’arrivo dei coloniali europei, erano società orali (un fatto che sottolinea di nuovo l’importanza cruciale del griot nel preservare il sapere). Nelle società tradizionali di questo genere il sapere viene trasmesso direttamente da persona a persona, nella forma di racconti, di proverbi, di tanti modi di insegnamento tutti codificati nelle usanze quotidiane del villaggio. Per di più, la parola diventa cosa sacra, cosa investita di tanto potere – potere fisico e reale.

Kossi Komla-Ebri, come Moussa Ba ed altri scrittori africani, ci dimostra tutti questi aspetti della parola e dell’oralità attraverso i suoi scritti. Lui dice di cercare di effettuare, nei suoi scritti, un tono “orale”, che insinua una presenza dalla parte del parlante, dell’autore stesso, e che quindi cerca volutamente di rompere la barriera creata dalla pagina scritta e cancellare l’assenza dell’autore e la distanza tra autore e lettore. Anche questo è un modo per portare insieme le persone. Nelle società tradizionali africane, i raduni si tengono all’aperto, sotto l’albero “a palabre”, l’albero della conversazione, ed è qui che le storie, i saluti, e il sapere vengono scambiati tra persone, faccia a faccia.

Komla-Ebri apprezza bene che “i proverbi sono l’olio della palma con cui si mangiano le parole” – e cioè, che i proverbi sono il sale che dà gusto alle parole. L’uso (dalla parte di Komla-Ebri) di tanti proverbi tradizionali dentro i suoi scritti ci dà questo gusto. Rendono questo senso di presenza, e di oralità. Ma di più, attraverso l’uso di proverbi africani ed altre strutture linguistiche e letterarie Komla-Ebri rende la lingua italiana in forme nuove. Lui mette in azione un modello famosamente progettato per la lingua inglese da Chinua Achebe, il cosiddetto ‘padre della letteratura africana anglofona’ (scrittore de Il crollo e tanti altri). Achebe, scrittore postcoloniale della Nigeria, ha espresso negli anni ’60 che la lingua dei colonizzatori, la lingua inglese, non era più sotto il dominio esclusivo degli inglesi. Una lingua “mondiale”, ha detto Achebe, deve pagare il prezzo della sottomissione alle manipolazioni varie di quelli che la parlano(3). Achebe ormai ha una fama globale per la sua abilità straordinaria di modellare la lingua inglese per creare nuove forme, per creare un nuovo inglese che è, come dice lui, “ancora in piena comunione con la sua terra ancestrale”, ma che allo stesso momento “può sopportare il peso della [sua] esperienza africana.”

Quello che vediamo attraverso gli scritti italofoni di Kossi Komla-Ebri (ed altri), è l’emergere di nuove forme linguistiche dentro un nuovo italiano, reso “lingua mondiale”. Ma vediamo anche nelle strutture delle sue storie il tema del ritorno all’oralità, e agli aspetti curativi della lingua viva. Nel suo racconto “Quando attraverserò il fiume” incontriamo la storia di un ragazzo africano, emigrato in Europa, che torna alla vita del suo villaggio natale e alla vita comune della lingua parlata. Vediamo in questa storia che il sapere e le lingue occidentali che questo individuo ha ottenuto all’estero – pure essendo utilissimi e di valore – lo hanno anche cambiato, e infatti lo hanno reso un essere diverso da quello che era, con modi di pensare e di parlare che lo rendono estraneo alla sua cultura d’origine. Il suo ritorno ai codici orali della lingua materna della sua comunità viene presentata in questa storia come il re-imparare di un’arte, antica e integrale, che ha il potere di guarire il suo carattere dimezzato – e anche quello del villaggio.

Ed ecco una terza figura prominenti negli scritti italofoni – e certo non solamente in quelli di autori africani. L’anima dimezzata, o spezzata, è ormai un tema universale nella letteratura. Per gli scrittori migranti questo è un tema ben troppo familiare. Gli scritti di Komla-Ebri presentano spesso quest’idea di un personaggio multiplo, un singolo individuo abitante di piu’ terre. Igiaba Scego, scrittrice italo-somala, vince il premio Eks&Tra due anni fa con il suo racconto commuovente e satirico di una studentessa subito “frazionata” da una domanda.

 

A 8 anni ogni bambino è vessato da una caterva infinita di domande idiote, del tipo ami più la mamma o più il papà? […] Lo stesso capitava a me all’età di 8 anni! La mia domanda troglodita era: […] ti senti più italiana o somala? […] Più somala? Più italiana? Forse è 3/4 somala e [1/4] italiana? O forse è vero tutto il contrario? Non so rispondere! Non mi sono mai “frazionata” prima d’ora, e poi a scuola ho sempre odiato le frazioni, erano antipatiche e inconcludenti […].(4)

La protagonista, stancata dagli stress di dover stare sempre in mezzo alle identita’ – o più accuratamente in mezzo a gente (e ad un governo) che dimostrano una fatica sconcertante a riconoscere le identità composte – sceglie improvisamente di ingoire un’identità del tutto italiana. E per questo, lei, mussulmana, tenta di ingoire un simbolo dell’italianità: le salsicce. Ironia, ovviamente, ma ironia composta. Per la protagonista, ingoiare quel simbolo (che nella sua ingenuità crede le darà un’identità singola) vuol dire dover vomitare la sua identità già formata, composta, multipla, ma integrata. E infatti il racconto rappresenta in modo molto satirico il caos incontenibile che risulta dalla imposizione forzata della singolarità. Ma dall’altra parte, la figura scelta da Scego per rappresentare un’italianità singola, intera, unitaria – la salsiccia – chiaramente è un oggetto composto, fatto di tanti elementi diversi macinati, mescolati insieme. Infatti è questa mescolanza che dà il gusto al piatto. In modo simile, allora, è la mescolanza di elementi diversi che dà il gusto alle società, e qui la societa italiana, e l’identità italiana, vengono viste (in modo ironico) come elementi già composti. Con questa figura comica in questa storia satirica Scego presenta l’identità composta come peso del migrante sì, ma anche come stato universale.Per concludere, ritorno alla figura del griot (come simbolo dello scrittore della migrazione in Italia). Secondo Nadia Valgimigli, la parola “griot” è legata etimologicamente all’idea di formare un circolo intorno a qualcuno(5). Il griot allora è quello che chiama la gente insieme intorno a lui (o lei); è quello al centro del circolo che tiene la comunità insieme attraverso le sue storie, i suoi canti, i suoi messaggi. Ma dall’altro canto, il/la griot è anche quello che accerchia la comunità. I suoi canti, i suoi messaggi formano un cerchio intorno agli ascoltatori, che li lega l’uno all’altro, e ciascuno alle radici comuni. Questo, dico, è uno dei progetti fondamentali degli scrittori africani in Italia, come abbiamo visto in questi anni.

 

 


1) S. MOUSSA BA – A. MICHELETTI, La promessa di Hamadi, Novara, Istituto Geografico DeAgostini, 1990, p. 3.
2) K. KOMLA-EBRI, “Quando attraversero’ il fiume” in Memorie in valigia, a cura di Alessandro Ramberti e Roberta Sangiorgi, Santarcangelo di Romagna, Fara Editore, 1997, pp. 55-66, la cit. a p. 58.
3) Per questo argomento e la cit. seguente, vedi C. ACHEBE, “The African Writer and the English Language”, Morning Yet on Creation Day: Essays, Garden City (NY), Anchor Press/Doubleday, 1975, la cit. a p. 103.
4) I. SCEGO, “Salsicce”, in Impronte: Scritture dal mondo, Nardo’, Besa Editrice, 2003, pp. 15-28, le citt. a pp. 18, 20.
5) N. VALGIMIGLI, “L’arte dei narratori: Il griot”, in L. DADINA-M. N’DIAYE, Griot Fulêr, Repubblica di San Marino, AIEP-Guaraldi, 1994, pp. 130-138, la cit. a p. 130.