Relazione di Fulvio Pezzarossa
LE NOVE ANTOLOGIE DEL PREMIO EKS&TRA.
Di Fulvio Pezzarossa
Non potevo sfuggire alla richiesta di Roberta Sangiorgi, di mettere a fuoco un’attività culturale e letteraria che ha scarsi termini di raffronto anche con i premi letterari di impostazione tradizionale, dopo che l’anno scorso, parlando di scrittori della migrazione, avevo deciso di accantonare proprio la ricchissima offerta di testi apparsi nelle nove antologie che fissano l’esperienza del premio Eks&Tra, ancora ricco di vitalità e promesse, come testimoniano i materiali giunti per l’edizione del decennale 2004.
Avevo svicolato, perché intuivo un groviglio di complicazioni avvicinando una marea dissonante di voci, per le quali fa premio l’espressione differenziale, distintiva e specifica, piuttosto che il convergere sull’omogeneità di forme e tematiche. A questo proposito, gli scrittori si sono sempre elegantemente sottratti alla rigidità del tema proposto, grazie alla liberale tolleranza delle giurie. Perciò sarebbe limitante leggere testi creativi unicamente in controluce alle forti connessioni con l’attualità della iniziativa concorsuale, e le stesse titolazioni delle raccolte insistono su nuclei concettuali più distaccati dalla contingenza, rilevando situazioni topiche dell’atto creativo per il tramite della oralità (voci, parole) o della scrittura (inchiostro, scritture); simboli di una molteplicità (arcobaleno, mosaici, mondo); stati emozionali (memorie, destini sospesi, anime, sguardo) scaturenti da condizioni transitorie (valigia, cammino, viaggio, migranti) che misurano anche gli ostacoli e le separazioni (confini, impronte, mappe), nonostante l’anelito dell’ultimo titolo ad una irrealizzata pace.
Tocco quelle soglie del testo, che Gerard Genette ha indicato essere così importanti ai fini della corretta valutazione del centro effettivo dei volumi; e qualcosa di significativo si potrebbe ricavare dalle vesti librarie, straordinarie nelle prime antologie edite dalla Fara di Alessandro Ramberti, capaci di suscitare all’occhio situazioni dinamiche nell’intersezione di colori e forme, che esplicitano l’intenzione nodale dell’intero progetto, inteso alla destabilizzazione di situazioni monocromatiche; linearmente contornate da immagini e segni nei successivi quattro volumi usciti da Besa e Adnkronos libri. Molteplicità di soluzioni in un progetto seriale e aperto, che si estende al corredo di elementi guida ai testi, costituiti da risvolti e quarte di copertina, dalla varia presenza di strumenti critici di presentazione, che passano dalla guida alla lettura, offerta da precoci e attenti critici, a voci più mosse, dove hanno rilievo scrittori e spunti creativi, immediatamente connessi alle forme testuali che preannunciano.
Qualcuno starà pensando che metto in campo marchingegni “usati come una cortina fumogena per nascondere quel che il testo ha da dire e che può dire solo se lo si lascia parlare senza intermediari che pretendano di saperne più di lui”: sono parole di Italo Calvino, che nel 1981 spiegava Perché leggere i classici. Evocazione provocatoria, perché qui di classici non si dovrebbe parlare, secondo la concezione culturale dell’italiano medio, uscito da un percorso scolastico standard. Non c’è infatti un solo elemento che li possa collegare alla percezione di autorità letteraria che tecnicamente si definisce all’interno del Canone, cioè quell’insieme di suggestioni di tradizione che disegnano sviluppi e progressi dell’identità umana attraverso il succedersi delle stagioni letterarie, fissate nei loro più augusti esemplari. Concetto di assoluta rilevanza per noi questo di Canone, al quale immediatamente s’accosta l’aggettivo: occidentale, con il quale l’ha marcato il lavoro (canonico of course) di Harald Bloom al culmine del processo culturale che ruota principalmente attorno alla modernità della forma romanzo, inteso come crogiolo in cui precipitano e fruttificano tutti i fili complessi della creazione letteraria e del cosmo immaginativo di radice o espressione linguistica eurocentrica. Edward Said in Cultura e imperialismo ha ben spiegato come gli splendidi capolavori del mondo letterario statunitense ed europeo dalla metà Settecento sino ad oggi, altro non siano che le proiezioni culturali tese a mascherare, e al contempo a radicare nella profonda coscienza di dominanti e dominati, le fasi della stagione colonialista. Oltre quelli ci sta appunto tutto l’immenso e mal sondato spazio che travalica il moderno e si incardina nella stagione successiva, che intesse nuove corrispondenze e contrasti tra culture (al plurale, rigorosamente) e Impero (per dirla con Toni Negri e Michael Hardt).
Senza proseguire lungo suggestioni a scala culturale planetaria, con l’auspicio che ci sia la disponibilità dei miei ascoltatori a raccogliere questi spunti e direttamente verificare la pertinenza di queste griglie analitiche all’interno del quadro in apparenza più modesto dei nostri scrittori migranti, il concetto precedente, il Canone appunto, mi era balenato come approdo di salvezza per il mio quesito su come percorrere con qualche frutto le 1688 pagine delle nostre antologie. Frutto da offrire in particolare alla parte del pubblico costituita dagli insegnanti, tenuti doverosamente a tradurre in progettualità pratica riflessioni che non possono fermarsi al gusto di una ricognizione del paratesto, o che enumeri soltanto dati quantitativi. M’ero infatti anche cacciato su vicoli, se non ciechi certo di scarsa luce, a conteggiare quanti autrici e quanti autori compaiano nei volumetti; quanti siano i testi poetici e di prosa; quale sia la loro successione nelle raccolte; quali autori compaiano occasionalmente, e quanti segnino con la continua presenza tonalità di fondo rispetto a voci di una coralità creativa discontinua ma potente, che afferma una necessaria ostinazione nel parlare con modi difformi dall’esperienza occidentale, costruendo acutamente attraverso le pagine della poesia e della narrativa spazi e luoghi per un colloquio sociale e culturale vivo e concreto, proclamato nella sua più alta dignità.
Un’altra ipotesi di lavoro però voglio affidare a chi m’ascolta, con l’idea di suggerire qualche concreto spunto, che vada oltre la più elementare possibilità di usare le antologie del nostro concorso mantovano come mappe di una geografia culturale estesa ai continenti, tutti perfettamente rappresentati, e a decine di paesi, e su queste localizzazioni intessere un dialogo tra voce recitante dello scrittore e il paesaggio culturale e sociale dal quale il dislivello economico l’ha strappata. Una traccia basata sulle dieci polarità attorno alle quali è costruito questo utile libretto, intitolato Abbecedario postcoloniale, uscito (per l’editore Quodlibet di Macerata nel 2001) dalla Facoltà di Lingue Straniere dell’Università di Bologna, che ha attivato una Laurea specialistica sulle Letterature omeoglotte. Termine che nasconde nella sua rarità un passaggio chiave riferibile ai testi che ci interessano, fondati su una apparente similitudine nell’uso dello stesso linguaggio tra autoctoni e nuovi venuti, che invece continueranno a parlarlo (e specialmente a scriverlo, come ha spiegato in un bel saggio Graziella Parati) con un dissimile accento, spia di un groviglio di distinzioni reattive tutte da sondare.
Quello che propongo allora, come spunto per qualche brevissima considerazioni oggi, e per un lavoro di maggior respiro analitico svolto ad intreccio di discipline quali la storia, la geografia, l’economia, le lingue, la letteratura, è di non limitarsi soltanto a seguire densità di immagini, tensioni emozionali, raffinatezza espressiva, potenza immaginativa, figurazione drammatica, sofferta evocazione, lucida rappresentazione, profonda sofferenza, caustica analisi, sorridente ironia, ecc. ecc., insomma le modalità interpretative che più facilmente ci verrebbero alla mente quali reazioni ad una sconfinata babele di sensibilità e mentalità che ci parlano dalle antologie; ma di chiamarle invece ad esercitare la loro profonda e più piena vocazione, di parlarci del nostro tempo all’ingresso del nuovo millenio, che è e ha da essere postcoloniale e postmoderno, secondo una più spontanea e naturale vocazione derivante da quella capacità di visione duplice e animata che noi italiani non possiamo permetterci, se non sul filo del ragionare convinto per una scelta di politica culturale. * Ipotizzo insomma che i dieci anni di Eks&Tra abbiano radicato fra di noi in modo sistematico (con le centinaia di altre voci di migranti che dal 1990 hanno a più riprese arricchito la nostra civiltà letteraria) quegli elementi che consentono alla cultura italiana di fare per intero i conti con fenomeni non del tutto conclusi, come l’emigrazione e soprattutto il colonialismo, che non ha cambiato di segno nonostante la complessa trasformazione dello strumentario mediatico e di propaganda, stante l’attualità sostanziale di passi come questo:
Pascoli
A noi insomma il dovere di rintracciare, seppure in zone all’apparenza riposte e di natura occasionale come possono essere i testi di un piccolo concorso letterario, il dispiegarsi di quei segnali che rendono centrali nell’agenda della nostra riflessione categorie concettuali che tutto il mondo (sto dicendo il primo mondo, gli Stati Uniti, e poi le grandi nazioni europee a partire dalla Gran Bretagna, dalla Francia, alla Spagna, al Portogallo, alla Germania) sta mettendo a fuoco per poter prendere coscienza delle trasformazioni in corso. Ed ecco allora l’importanza del Canone, inteso come il Pantheon delle nostre memorie più radicate e monocrome, organizzate nei confini nazionali, e dirimenti lo spazio civilizzato e selvaggio, che diviene parametro indifferente, o solo obiettivo polemico, o comunque da manipolare liberamente oltre il suo possibile culto museale, da parte della creatività migrante. E ancora la dialettica Città/Campagna, metafore di quel terzo e quarto mondo dal quale provengono milioni di genti per approdare alle nostre spietate megalopoli, capaci di dar vita ad un melting pot forzato solo nelle zone di margine, costringendo alla lacerante nostalgia di culture religiosamente conservate nell’intimo.
E l’Identità fluida è perciò frutto di questa continua negoziazione tra passato e presente, collettività atavica e solitudine nel futuro, che tenta di dipanare l’intrico fra tradizioni native e piattezza della cronaca presente che anche esprimono lo scontro Lingua/Cultura. La contrapposizione destabilizza naturalmente anche la netta ripartizione tra l’oralità primitiva e la fissità moderna della scrittura, cioè tra Memoria/Storia, che finiscono per compenetrarsi nella percezione di vicende alle quali si guarda sempre da un punto d’osservazione vitale e non razionale, tanto meglio occhi di bambini che registrano le grandi catastrofi del mondo, attraverso le quali si sono affermati Modernità/Modernismo/Modernizzazione, immediatamente privati del mirifico senso finalistico ove l’osservatore si ponga dalla parte di chi ha forzosamente contribuito allo sviluppo della attuale distribuzione delle risorse.
La presenza di osservatori decentrati e mobili, accelerano la corrosione delle categorie Nazione/Nazionalismi sulle quali ha poggiato l’epopea coloniale, e a cui si contrappone sfacciatamente la pregnanza di Periferia/Periferico, inteso come decentramento turbinante di elementi non solo geografici, ma che richiamano l’importanza degli aspetti corporei, o di pretesa irrazionalità, avversi alla mentalità, tecnologica e bellicistica, che è la nostra unica prospettiva nei rapporti con gli uomini e il sacro. Postcoloniale/Postmoderno suonano allora come concetti che pretendono la messa in discussione, la riscrittura dei convincimenti acquisiti, lo scardinamento del tempo nella narrazione e la rimodulazione della costruzione letteraria, che esprimono una discorsività non solo individuale, perché l’ossessivo ripetersi dei racconti autobiografici dà vita a quella kafkiana letteratura minore, che Deleuze e Guattari ci hanno spiegato essere pronunciata sempre in nome collettivo, carica di tensioni fermamente politiche, quanto meno corrosiva del monolitismo culturale, ponendo le premesse di un possibile Sincretismo, la fusione tra culture che inarrestabile si profila.
Se non appaiono sufficienti queste dieci chiavi per procedere allo smontaggio dei testi, potrei indicarvene altre, sei soltanto per cause di forza maggiore, vista la tragica scomparsa nel 1985 di Italo Calvino che stava lavorando alle Lezioni americane. Se insomma dovesse apparire sproporzionato dispiegare categorie culturali complesse, elaborate da esimi colleghi sulle pagine di Rushdie, Saramago, Kureishi, Chandra, Cotzee, Ondaatje, Ben Jelloun, Achebe, Desai, Glissant (ma vi pare davvero azzardato accostarli ai nostri più modesti autori?), ecco pronta la mappa indipensabile fornita dal nostro maggiore narratore contemporaneo per addentrarsi nell’allora imminente terzo millennio. Sono convinto della vostra familiarità coi concetti della Leggerezza (che è anche del linguaggio scorrevole e denso, dei drammi contemplati sempre con ironia malinconica); della Rapidità (fatta di spunti veloci, ma anche di andamenti sinuosi e imprevedibili dei testi); della Esattezza (necessaria ad una resa di brevi spazi, col ricorso ad esempio alla pertinenza piena del linguaggio, specie nella sua vitalità naturale e originale); della Visibilità (dove la parola si muta nella forza incisiva dell’immagine che media fantasia e reale); della Molteplicità (non solo delle trame, dei personaggi caotici, ma anche di una complessiva relatività interferente, che trascina fuori e dentro la storia lettori e narratori); del rilievo essenziale che nel letterario ricoprono il Cominciare e finire (che designano il punto focale nella scelta di uno dei mille percorsi narrativi che offre l’intreccio palpitante dei destini entro il tessuto compatto e continuo della vita).
Anche nel nutrito repertorio dei testi antologici, funzionano a meraviglia le lucide intuizioni di Calvino, concepite ben prima di poter vedere qualsiasi scrittura di migrante in lingua italiana, e ne rilevano dati essenziali per una valutazione che superi l’impressività estetica. Abbiamo insomma la possibilità di usare quelle migliaia di pagine per leggere nella vivacità dei percorsi affabulatori non le storie di qualche sfortunato individuo al quale aprire pietosamente il nostro cuore, ma esattamente l’opposto: le voci autorevoli di osservatori esterni/implicati, che ci avvertono delle direzioni profonde, delle svolte evidenti, delle mete non lontane, verso le quali anche la nostra realtà, stentatamente multiculturale, si è inesorabilmente avviata.
Ho sperimentato la funzionalità delle griglie analitiche che suggerisco all’insieme delle raccolte antologiche, e vedrò in sede di pubblicazione degli atti del nostro incontro di darne conto; qui posso solo trascegliere qualche passaggio che possa invogliarvi ad una esplorazione molto più attenta ed articolata.
Comincerei ad esempio con un passo dal prim volume, dove compare un racconto di un amico, tanto geniale quanto parco di scrittura, come Tahar Lamri: Solo allora, sono certo, potrò capire. I termini di Sincretismo, Identità, Nazione, Modernità, immediatamente si dispiegano nell’incontro, in un luogo tipico della postmodernità come un aeroporto, tra un figlio di immigrati algerini, dal nome europeo imposto per un impossibile riscatto, che cerca inesistenti radici, e un locale che se ne sta di nuovo fuggendo, pronto a rovesciare ogni accusa su quella che non può accettare come unica patria:
38 e poi 39
* In Mosaici d’inchiostro la Storia di Gora, il sarto di Ndiobenne del senegalese Modou Gueye, offre il vertiginoso e graffiante intersecarsi della spiritualità magica di villaggio e del potere mediatico occidentale, e non è difficile capire chi si nasconda dietro il magnate della tv chiamato Brancaleoni.
In Destini sospesi di volti in cammino, il racconto del siriano Yousef Wakkas, Shumadija Kvartet intesse un vortice di scenari tra Balcani e Italia, in cui compaiono improbabili trafficanti di fuggiaschi africani e asiatici, campi zingari, ville di parvenues, con scenari in mutamento continuo che portano alla ribalta identità molteplici, ritratte con pochi velocissimi accenni sull’onda di una trama leggera e rapida, in cui s’intersecano voci, furbizie, credenze, rituali, modernità, ma anche le grandi tragedie degli assalti naziskin o degli stermini in Bosnia, sull’onda di scontri tutti dialogici che trasferiscono tragedie e disperazioni nello scintillante scontro d’intelligenze, con lingue, gerghi, dialetti dispiegati a tutto campo, frammenti di paesaggi desolati e scintillanti squarci urbani, fino al caos di musiche, canzoni, inni nazionali in cui si scioglie la trama che ha dato vita ad un improbabile gruppo di musica zigana come ultima avventurosa risorsa di sopravvivenza.
Parole oltre i confini è una delle raccolte tra le più feconde di spunti critici secondo nostre esigenze, dove s’incontrano i versi di Gëzim Hajdari, radicati nella storia a dimensione rurale dell’Albania, ma da cui il grande poeta riesce a scorgere le trasformazioni del mondo attraverso l’esattezza umile e quotidiana degli oggetti, in immediato visibili nella leggerezza rapida del canto, capace di sconvolgere il senso del tempo, il quale si fa presente immobile che divora sentimenti ed esistenza, parallelo alla glaciale fissità dello spazio dei morti.
Meteco di Imed Mehadheb è un racconto che insiste sull’inventiva fantasmatica di ruoli e personalità scambiate tra integrazione e marginalità, e rende il costume violento che attraversa ghetti mutietnici minacciati dalla contrapposizione di razzismo e militanza global, attraverso la complessa personalità dei soggetti e l’intrico studiato della trama, serve quasi a introduzione alle pagine esplosive di Jadeline M. Gangbo, protagonista col suo S.D. di una fulminea decomposizione delle convenzioni di settore, disintegrando lingua e modelli sin dal cominciare clamoroso: “Avevo visto Stronzo attraversare i viali”, che apre un plot fantascientifico nei bassifondi della galassia.
Ma è ancor più ne Il rapimento di Bozidar Stanisic’ che rintracciamo tanti degli spunti critici sopra disseminati, attraverso una narrazione di continuo frammentata su piani diversificati e relazionali, fatti di “a parte” e colloqui diretti, uniche spie delle identità sfuggenti dei personaggi che mutano il loro profilo tra Bosnia ed esilio italiano a fronte di fatti non sperduti nel ricordo ma oggettivizzati nei discorsi che li materializzano nella loro visibilità effettuale. È un processo che riassorbe nelle discontinue ondate della memoria i dati della storia, così bruciante da confondere i piani di realtà e fantasia e accantonare la distinzione tra vita e morte, e proponendo allora un Finire paradossale, se inteso come scioglimento narrativo consuetudinario: rimane impossibile concentrare entro un solo percorso linguistico il caos di una vitalità esplosa, che trapassa come sollecitazione partecipativa e coinvolgente agli stessi ascoltatori, posti di fronte alla fine della modernità intesa come certezza di un punto di vista, e riconnessi all’antica capacità del racconto di attivare un riscatto collettivo dal buio della morte, che tutto fagocita. Nella raccolta Il doppio sguardo, Gabriella Ghermandi (che già in Parole oltre i confini aveva offerto un racconto modulato sul relativismo dei concetti della modernità calata negli orizzonti periferici del mondo, essendo Il telefono di quartiere nella realtà etiopica semplice prolungamento dei comportamenti e delle voci dirette dello scambio umano, incapace di scardinate realmente una percezione del tempo abissalmente distante da quella occidentale), offre un esempio da manuale della divaricazione dei mondi nell’orizzonte extra-europeo, essendo rigorosamente distinta l’ambientazione di Quel certo temperamento focoso, ove si raffrontano religioni universali e riti locali per la prima parte nel villaggio, e per la seconda nella caotica Addis Abeba. * Anche in questo volume ha pieno rilievo la narrativa di Stanisic’, non solo per il gioco caricaturale con il mito di Pegaso, alluso dalla figura de Il cane alato, protagonista di una trama appena abbozzata, sul quale si innesta il racconto primario che raffigura la frustrazione del narratore per una produzione disperatamente infruttuosa, nonostante i pressanti interventi della moglie, del figlio, di un amico, ironicamente ritratti all’interno di un’officina narrativa domestica che si sforza di imbrigliare nella fissità dello scritto i percorsi aperti, radicalmente orali, che attraversano l’immaginazione del narratore. Il gusto creativo che esprime la smaliziata scuola di narrativa centro e sud americana, sgorga potente nell’intreccio del messicano Jesus Cervantes Lopez, con una costruzione che ingloba stereotipi libreschi (il titolo recita Lombroso aveva ragione) e gusto del ritratto di personaggi grotteschi ed estremi, attraverso la mise en scène di travestimenti multipli di attempate vergini diaboliche, di amanti serial killer e sacerdoti di sconnessi riti, di vittime scampate che ricostruiscono il loro mancato destino in gualciti ritagli di giornale, i quali nell’enfasi mediatica finiscono ancor più per frammentare l’inverosimile situazione, che corrisponde all’assenza di una verità palese nel mondo.
Inverosimiglianza, paradosso, spostamento dei modelli, anche emergono dalla raccolta Pace in parole di migranti, con l’originale prospettiva, tutta privata, provocatoriamente umile e scandalosa del racconto di Tamara Jadrejcic, Il bambino che non si lavava, quando l’immensa tragedia delle guerre dell’ex Jugoslavia precipita nell’umile stanza da bagno di Sanja, incapace di condurre a ragione il piccolo figlio Ivan che grida al mondo tutta la sua ostinata resistenza a qualsiasi pulizia, in un tragico riverbero con altre più spietate pulizie che attorno si praticano, in una disperata invocazione di difesa identitaria, comprensiva “del collo sporco e il nero sotto le unghie”, a esprimere nel rifiuto ostinato e urlato l’angoscia immensa per la perdita improvvisa del padre, trascinato in un’incomprensibile guerra.
* Tragedie insomma filtrate da trame leggere, da ardite invenzioni d’immagini che si servono dell’umile visibilità di oggetti e situazioni del quotidiano, com’è in Impronte il racconto Salsicce di Igiaba Scego, che trasferisce sul piano della materialità alimentare i discorsi sulle forme identitarie, religiose e nazionali, spietatamente aggredendoli con l’ironia che proclama la fine della subordinazione coloniale, e traccia orizzonti permeabili tra lingua dominante e le stratificazioni interne espresse dal dialetto. L’originalità inventiva non impoverisce la pregnanza di situazioni complesse, solo le strappa dai modi consueti delle forme culturali e linguistiche dominanti, e le trasferisce nella sorpresa lieve di immagini dense di drammi, quando balzano agli occhi di Juan Carlos Calderón Cose e nubi, oltre le quali s’annidano i fantasmi crudeli dello sterminio della civiltà atzeca; o la neve così avidamente descritta da Geneviève Makaping in Nevrì Gogol e il terz’orecchio di Uadagudu, segnale di un approdo alle sponde di un altro mondo, sostanza incomprensibile per le genti di origine, barriera coloristica che marca una separazione oltre ogni sforzo di assimilazione, perché ancora spunta attraverso una immaginosa invenzione simbolica l’orgoglio di un’alterità selvaggia e irriducibile, eppur costretta a trovare nelle forme della letteratura un orizzonte universale di comunicazione tra gli uomini.
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