Relazione di Yousef Wakkas

Fogli Sbarrati

Di Yousef Wakkas

Prima di presentare il mio libri “Fogli sbarrati”, vorrei fare una piccola premessa, o un epilogo del percorso che avevo compiuto finora, e rivelare alcuni punti che hanno determinato il mio stile di scrittura. Giorni fa, mentre ci stavamo esaminando un nuovo progetto nell’azienda dove lavoro da un anno, il titolare mi ha chiesto:”come si fa a mettere in risalto un oggetto?”. Mettendolo in mostra, ovviamente. Risposi io. Si trattava di un discorso un po’ complicato e riguardava una lunga serie di mostre e manifestazioni artistiche e culturali con al centro la città di Genova, la capitale culturale europea del 2004, ma io mi sono limitato a riportarvi la sintesi della conversazione che, credo, ha qualche legame con il nostro argomento in generale, cioè la letteratura della migrazione.

Come si sa, l’uomo, d’istinto, ha sempre bisogno di comunicarsi col prossimo, conoscerlo o farsi conoscere. La comunicazione fra gli individui, più che un diritto, è considerata anche un dovere, e se l’altro tende ad allontanarsi, bisogna andarlo incontro, invitarlo in qualche modo, pacificamente e civilmente, al confronto. Insomma, come ho detto prima, conferirgli le condizioni necessarie per esprimersi, esporre le sue idee, metterle in mostra, appunto. Per fare questo, d’altronde com’è successo con noi scrittori immigrati, non mancano gli strumenti di comunicazioni. Anzi, sono tanti, e, grazie all’ingegno umano, sono diventati così sofisticati al punto di trasformare il nostro globo ad un piccolo villaggio. Tra questi mezzi, ce ne uno molto efficace, direi più efficace dello stesso televisore, perché perdura nel tempo, fa compagnia a persone sconosciute, e tradotto in altre lingue, raggiunge luoghi impensabili, dal polo nord al cuore delle foreste tropicali, vale a dire la parola scritta, o la letteratura in generale, che peraltro l’avevo scelto per dialogare con il pubblico italiano. A prima vista, o come mi è apparso in principio, tale iniziativa sembrava una eco vagante nel deserto, ma poi, con l’impegno costante e l’incoraggiamento di tante persone, in particolare modo da parte degli organizzatori del concorso Eks & Tra che avevano avuto il merito di aver divulgato i primi tentativi degli scrittori immigrati residenti in Italia, quell’eco timido e quasi impercettibile, si è trasformato in una voce concreta e solida.

In realtà, prima di intraprendere questa strada, ero nella fase iniziale di un dialogo non meno importante dal primo, vale a dire con me stesso. Fino al 1995, l’anno cui ha testimoniato il mio strano rapporto con la carta e la penna, il filo etico e comportamentale non era ancora spezzato con il passato. Anzi, stringeva amicizia con componenti della malavita organizzata, pianificando con loro progetti criminosi per il futuro, con uno sfondo che rispecchiava fedelmente l’ossessività di un atmosfera quotidiana composta unicamente di ostilità, di arroganza e intimidazioni occulte verso le batterie avverse, ed altrettanto nei confronti degli agenti penitenziari. Tutto questo, all’improvviso, cedette il passo ad una visione del mondo intensa, risolutiva, nutrita di un’ambizione incontenibile che già, di per sé, mi dava la sensazione di muovermi nella cerchia incantata di un regno magico che, pur non avendo ancora contorni definitivi, mi lasciava intravedere molte aspettative nel suo orizzonte variegato.

E’ privilegio di un immigrato – detenuto vivere in anticipo sulle proprie delusioni, attimi di speranza che non conoscono né rallentamenti né retrocessione alcuna. In effetti, con ogni passo che conquistavo su quel terreno minato, mi sentivo come se stessi chiudendo dietro di me le porte della mera ostilità e varcare, uno dietro l’altro, i cancelli insormontabili del paradiso perduto. E non perché sia un atto salvifico, ma perché qualcosa dentro di me, mi assicurava che lì, solo lì, avrei trovato un po’ di me stesso. Il mio atto, per quanto avventato, ricordo in particolare modo quelli che provavano pietà per un immigrato che voleva scrivere racconti niente meno che nella lingua di Dante, ebbe più il carattere di un distacco profondo e intraprendente dal passato, che una redenzione coatta. Quell’ambiente, con le sue regole incompatibili con la vita civile, con i suoi riti e le sue regole assurde, di colpo, incominciarono a soffocarmi, e quindi, mi sentivo che il momento di districarmene era arrivato, e quell’atto, l’atto di scrivere, rappresentava al momento un metodo per scampare, per non ceder alla follia, nascondendomi dietro uno stile di vita a dir poco malvagio, anche perché, là dentro, spesso s’incede barcollando per il proprio percorso senza meta, per la sorte mal combinata. A volte, si azzarda anche a ridacchiare sotto i baffi, come si suol dire, per tentare un distacco esorcistico, ma in tanto si fa fatica a scansare i morsi incruenti di un ambiente che si nutre solamente di conflitti e tensione. Tanti si lasciavano trascinare di quell’interazione incontrastabile, ed altri, pur non imitandoli, si rassegnavano all’idea che quella fosse l’unica strada percorribile. Sia gli uni sia gli altri, si accomunavano di un sintomo che pareva immutabile, cioè lo smarrimento, direi quasi intenzionale. Io non ero diverso di loro, e quando avevo deciso di staccarmene, incominciarono a guardarmi come se fossi un alieno, uno che non apparteneva più al gruppo. Soltanto la mia abilità dialettica mi ha salvato di un’emarginazione scontata. Dunque, come si sta succedendo in questi giorni, le regole non scritte, imponevano una sola alternativa: o con noi o contro di noi. Io, senza mezzi termini, scelsi la via del Verbo, trascinando tutti quanti con me, ed immortalandoli con racconti e riflessioni che vanno al di là di quella realtà “ristretta e reclusa” a suon di sentenze, ordinanze, articoli, commi, eccetera … eccetera …

La realtà evanescente dell’immigrato, sta forse anche in questo, lottare sempre per un’esistenza dignitosa, cercare la verità in quell’arcano drappello di una situazione davvero allucinante, e nel mezzo di quel pandemonio, qualsiasi talento potrebbe rimanere soffocato nella feroce lotta per la sopravvivenza, affinché non arriva il momento per cambiare rotta. In questo senso, io e tanti altri che si trovano nella medesima condizione, come Imad Mehadheb, tunisino, anch’egli detenuto e pluripremiato e si è mostrato di avere un gran talento letterario, possiamo considerarci fortunati, almeno dal punto di vista esistenziale: si sa, stare in carcere è come vivere la realtà in differita, e tale occasione, quella che ci ha permesso di comunicarci con l’esterno tramite i nostri scritti, ci ha dato l’opportunità per diminuire il trauma della solitudine e, in qualche modo, superare i disagi che ci affliggono da tutte le parti. Goethe dice: trattato per quello che è, un uomo diventa peggiore, ma invece se viene tratta per quello che vorrebbe essere, diventa quello che vorrebbe essere.

Dunque, ciononostante le tante difficoltà che ho dovuto affrontare, il rapporto conflittuale con la scrittura ha costituito comunque una svolta importante nella mia vita, sia all’interno sia all’esterno del carcere. Al posto dell’angoscia, la presenza del male con i suoi componenti più subdoli, prima fra tutte, il senso di colpa e la ricerca confusa di dare un significato alla mia esistenza, rimane il tema centrale della mia scrittura. E’ un bel paradosso: il carcere, almeno dai risultati ottenuti, è stato in perfetta coincidenza con le mie ispirazioni letterarie. Ma tutto questo non è stato facile. Difatti, dopo lunghi anni nell’attesa di prove che attestano un ravvedimento inconfutabile, solo adesso mi è stata concessa la possibilità di oltrepassare i confini di quel cerchio d’angustia e ristrettezza per parlare della mia esperienza, presentare un’opera che costituisce frammenti della mia testimonianza di quell’esperienza che l’ho vissuta in prima persona.

I “Fogli sbarrati”, il libro che sono qui per presentare, non è la cronaca né la documentazione di un’esperienza spiacevole, bensì, come ho detto prima, sono frammenti disordinati di quella quotidianità, e che all’insieme, tendono a costituire almeno un aspetto di quella consistenza composta di un mosaico incredibilmente variegato di carcerati di razze e di orientamenti diversi. Uno stagno con ninfee galleggianti, ma tanti, a ragione o a torto, non gradirebbero né scoprire i suoi segreti né guadare nelle sue acque fetide. Tanti, dopo aver letto il mio libro, mi hanno chiesto se questi episodi fossero realmente accaduti. Come se il lettore o i lettori, volessero accertare che tutto quello che avevano letto non fosse vero, e semplicemente il frutto di una fantasia bizzarra, perché, in fin dei conti, come recita appunto il sottotitolo, si tratta di un “viaggio surreale tra carcerati ed immigrati” . Ma che cosa c’è dietro un interrogativo del genere? Forse il contenuto grottesco o l’ironia sottile con la quale avevo trattato gli argomenti riportati nel libro? Secondo me, entrambi i casi. L’ironia, come si sa, è un certo tipo d’incomprensione, di un capovolgimento della realtà consueta che provoca il sorriso, un sorriso deformato, la non coscienza della situazione, giacché, sotto sotto, spesso si tratta di una vera tragedia. Ma quando quel contrasto diventa una parte essenziale della quotidianità, non si capisce più se si troviamo davanti ad un evento comico o tragico. Ecco allora ci troviamo con della situazione dove l’incomprensione reciproca diventa una pratica. Se le feste sono sancite ai sensi di articoli e commi, chi può impedire ad un pastore venuto da un luogo sperduto dell’Aspromonte, di pretendere, con la domandina in mano che la sventola come una bandiera, di avere un chilo di banettone-pandoro? Nessuno certamente. Mi ricordo ancora molto bene quel fatto che ha suscitato clamore e tanti dibattiti tra i detenuti. Eravamo alla vigilia di Natale, e quel tizio, rozzo e impacciato, scuotendo il cancello, gridava imbestialito:
” Io voglio un panettone – pandoro!”. E gli agenti, capeggiati da un anziano ispettore, cercavano di persuaderlo che deve specificare nella domandina uno dei due, o panettone o pandoro. Ma non c’era nulla da fare. Il tizio, peraltro parlava soltanto il dialetto calabrese, insisteva sulla sua richiesta, lanciando minacce inaudite. Senza il panettone – pandoro, come mi disse poi, non aveva senso festeggiare il Natale. Difatti, quella notte andò a letto mortificato: con la libertà, gli avevano tolto anche i simboli intorno ai quali ruotava la sua esistenza. Simboli, importanti siano o futili, ci univano nei momenti difficili, dando spazio a sfoghi interminabili durante le ore d’aria, o durante l’ora della doccia, tra quelli che stavano sotto acqua e quelli che stanno davanti nell’attesa del loro turno, tra cui gli africani con in mano i sacchetti a rete delle patate al posto delle spugne e il boss napoletano accompagnato da quattro scagnozzi armati di coltellacci di fortuna per proteggerlo di un possibile agguato. In quegli attimi, cioè quando il Regolamento Penitenziario prevalga su ogni ragione, le emozioni si tradiscono, e persino i duri diventano vulnerabili. Tali situazioni, si rivelano l’aspetto vero degli uomini, nella loro forza e nella loro debolezza, ed alcuni di loro, nascosti negli angoli più bui del bagno, versano calde lacrime prima di cedersi completamente alla volontà spietata dell’onnipresente ed onnipotente Regolamento Penitenziario. A questo punto, inevitabilmente, il prezzo da pagare si raddoppia: quello del reato commesso e quello della propria debolezza che è molto più caro del primo. In sostanza, bisogna tenersi duri anche quando ti cascano addosso tutti i guai del mondo, anche quando, dopo un’attesa estenuante, l’ufficiale giudiziario ti notifica un rigetto di Permesso Premio alla vigilia di Natale. Bisogna sorridere, non trapelare alcun gesto che potrebbe essere interpretato come un segno di cedimento, di debilitazione, altrimenti si passa tra le file dei remissivi, o quelli che non contano nulla.

C’è un’altra cosa che vorrei aggiungere riguardo il contenuto del libro e lo stile adottato da me per scriverlo. Non so se si tratta di due argomenti distinti, ma credo che se non avessi adottato quello stile, non sarei riuscito a metter in risalto sia i personaggi sia l’ambiente dove si svolgono gli episodi dei racconti. E non l’ho fatto per sdrammatizzare, o per renderli più comici di quanto fossero in realtà. No, ho voluto semplicemente creare un filo di complicità che rende partecipe il lettore, o almeno lo prepara il terreno per varcare la soglia di quel mondo misterioso. Sia gli immigrati sia i carcerati, osservati da lontano, non ci permetterebbero mai di avere un’idea chiara della situazione in cui sono costretti a vivere, o meglio sopravvivere. E non di rado, tale osservazione ci spinge ad emettere giudizi errati, o ben lontani dalla verità, sebbene, come durante i processi, è arduo sapere la verità, tutta la verità!

Yousef Wakkas