Relazione di Simona Wright

Gezim Hajdari e la poetica dell’assenza in Corpo Presente

Di Simona Wright, professoressa al College of New Jersey (USA)

Conobbi Gezim Hajdari alcuni anni fa, attraverso un amico comune che mi parlò di lui e della sua poesia. Piú tardi lo stesso poeta mi inviò una sua recente raccolta, Corpo presente, che era appena uscita presso la Dritëro di Tirana. Il nostro incontro avvenne successivamente a Roma, ma già dalla prima lettura delle poesie era nato il desiderio, quasi l’esigenza, di approfondirne l’analisi mettendo in rilievo le caratteristiche tematiche e stilistiche salienti.

Nato a Lushnje, in Albania, nel 1957, Hajdari ha conseguito la laurea in Lingue e lettere albanesi. Giornalista e esponente politico dell’opposizione, fu critico nei confronti del regime di Berisha, del quale denunciò apertamente gli abusi. Dal 1992 vive in Italia, dove ha dapprima svolto lavori umili, pulitore di stalle, zappatore e infine aiuto tipografo; da alcuni anni vive, con fatica, di conferenze e lezioni interculturali. All’università “La Sapienza” sta per conseguire la laurea in Lingua e letteratura italiana. Hajdari si occupa da tempo di poesia e ha pubblicato diverse raccolte, in Italia e in Albania; un numero rilevante dei suoi versi è stato inserito in diverse antologie di poeti europei della migrazione; nel 1996 ha vinto il Premio per la poesia al concorso per poeti e scrittori migranti Eks&Tra e nel 1997 il Premio Montale per la Poesia inedita. Di recente sono uscite alcune interessanti raccolte di poesia, Erbamara (2001), Stigmate (2002), mentre Mal di luna, ultimissima fatica, è in visione presso la Einaudi. Con la Rizzoli Hajdari ha appena terminato un reportage fotografico che lo ha portato in Africa, il volume, corredato da poesie, è di prossima uscita. Oltre alla sua attività poetica Hajdari cura la pubblicazione e la traduzione di poesia italiana contemporanea in Albania, si occupa della divulgazioe della poesia albanese in Italia collaborare, con i suoi interventi, a diverse testate culturali nazionali.

La vicenda umana e poetica di Gezim Hajdari è tutta iscritta nei suoi versi, che possiedono l’emblematicità di un percorso individuale che diviene itinerario umano esemplare, archetipo della condizione di sradicamento e di disgregazione dell’uomo contemporaneo. Senza indugi passiamo a trattare le sue poesie, di cui propongo una lettura che lascia emergere da un lato le tematiche che sostengono il tessuto narrativo e dall’altro lo stile che anima questi versi e che agita l’intera tramatura del testo.

Nei versi incipitali, che danno il titolo al volume (p. 13), si riconoscono alcuni motivi fondamentali dell’universo poetico hajdariano:

Canto il mio corpo presente
nato da questo freddo spazio
che nulla promette

di notte
visioni di bianchi templi
mi richiamano nel vuoto

ho sognato campi solitari
per cercare i segni confusi
e capire la maschera dei cieli
che ama gli abissi

non so perché guardo a lungo
la linea sottile dell’orizzonte
o le cime brulle con uccelli neri

dove si nasconde ciò che non trovo?
sulle tremule alghe
o nei licheni bianchi

Procedo nel verde consumato
e non porto niente oltre il mio corpo.

Non lascerò niente!

Poesia della disperazione, della negazione, a cui il poeta può opporre, unica possessione, il proprio corpo, palpabile, presente e quindi suscettibile al canto, ma pur immanente, nato anch’esso dal nulla, destinato a dissolversi. Vana si presenta poi la ricerca di nessi, di segni disvelati nel sogno, di oracoli e di illuminazioni trascendenti; dai templi non si può attendere che silenzio, mentre dalla triste maschera dei cieli non giungono che segnali confusi, ambigui. L’inesausta ricerca di un punto di riferimento e le interrogazioni del poeta sul senso della propria esperienza sono soffuse di un dolore penetrante, sottile come la linea dell’orizzonte inutilmente scrutata, e pungente, come il freddo spazio in cui il corpo si agita. Al desiderio di svelare la ragione ultima del dolore, alla speranza che si chiarisca il disegno e si comprenda il motivo dell’inusitato peso dell’esistere, si alternano momenti di disperazione, di solitudine estrema, di tragico abbattimento. La trattazione tematica che sorregge il tessuto versico propone un andamento prosodico discendente, rappresentato graficamente da una graduale diminuzione strofica che problematizza un percorso a ritroso, un cammino rivolto verso l’interiorità. La tragica fragilità del corpo, unica sicurezza dell’uomo, unico elemento verificabile del prorpio esistere, è il punto zero, il momento catartico che avvia alla ricerca di un nuovo modello di conoscenza; il procedere interiore sarà faticoso, pesante, metaforicamente esplicitato da quel corpo che il poeta trascina sul “verde consumato,” non possedendo altra referenza, altra sicurezza che quella materialità immanente, effimera, foriera del nulla.

Il tono mesto e addolorato della poesia viene significato attraverso una parca, misurata scelta di immagini naturali che rimandano alla stagione invernale, dalla fredda compostezza dei “campi solitari,” alle “cime brulle,” su cui campeggiano, in contrasto con i pallidi “templi” del sogno, funesti “uccelli neri.” La natura, colta nei suoi fenomeni piu elementari, le “tremule alghe,” i “licheni bianchi,” emblematizza la condizione preesistenziale dell’animo, pietrificato e sospeso in uno spazio chiuso, in un tempo immoto. Alla stringente e assolutizzante opposizione visuale tra il bianco e il nero, l’io poetico accosta la verticale estensione cielo-abissi, spezzata per contrasto da quella sottile linea orizzontale che delimita il confine oltre il quale non è dato immaginare.

Il canto incipitale ha la consistenza di un lamento, nel quale si fa via via strada la consapevolezza che al fragile corpo deve essere affidata la ricerca di un senso, l’esperienza del mondo deve avvenire attraverso di esso, contenitore e limite, fisicità da superare e purtuttavia sola concretezza.

Il motivo del canto si ritrova, senza variazione del timbro che rimane tragico, in una poesia seguente (p. 17)

Sono campana di mare
di silenzio e voci
chiuso nel Tempo

e nessun Dio sente i suoni
di acqua e di fuoco
della mia carne

In Occidente
ogni primavera che passa
è ferita che si rinnova

Ed io
scavato da ombre e pietre
trascorro le notti italiane
nel gorgoglio di sangue

Da anni in ansia e paura di morire

Ingannato dalle voci degli oracoli
richiamo volti conosciuti
che non tornano (e mai torneranno!)

Sterili sono i miei sogni
nel buio della stanza sgombra e
ogni giorno impazzisco un poco.

L’io poetico, sensibile strumento sonoro, rimane muto, “chiuso” in un Tempo senza illuminazioni, incapace di materiare quei “silenzi” e quelle “voci” che sono divenuti patrimonio memoriale dell’individuo e che lo segnano profondamente, nel sangue e nella carne. E in fondo sarebbe inutile inviare messaggi, essi non saranno infatti raccolti, non troveranno cioè accoglienza in nessun tempio, presso nessun dio. Si esplicita in questi versi la estraniata condizione dell’esule, condannato al silenzio, serrato tra il desiderio straziante di esprimere la propria condizione di eterno errante, senza destinazione né ritorno, e la consapevolezza di avere, nel concorso delle circostanze, perduto quella identità e quella individualità legate alla terra d’origine, alle radici, ai “volti conosciuti,” che non rispondono al richiamo.In questa sofferta condizione di assenza di un interlocutore e contemporanea perdita di sé il tempo si chiude, lo spazio dell’esperienza si cristallizza e anche la primavera diviene una stagione dolorosa, il sogno si fa sterile e all’io non resta che l’immobilità e l’ansia della morte, contro la quale non serve rievocare il passato, del quale le voci oracolari si elevano a perpetrare l’inganno. La solitudine, l’isolamento, la mancanza di punti di riferimento o di ancoraggio, ma piú tragicamente l’esperienza della incomunicabilità che è condizione vissuta dal poeta con estrema sofferenza, si materiano in questi versi, mentre si approda, nel lento stillicidio dei giorni, ad una amara desolazione.

Questi versi denotano una attenta ricerca stilistica, a cui è stato negato ogni sfasamento retorico; il poeta ha soppesato con cura l’uso delle immagini simboliche e ha mantenuto al minimo il numero delle metafore. Cosí la primavera è una “ferita,” l’io del poeta “scavato da ombre e pietre” e la sua carne una commistione di “acqua e fuoco.” La compresenza, in opposizione, di questi due elementi fondamentali, predispone alla evocazione di una componente tutta animale, quel turbinio del sangue che il poeta sente esplodere in sé, in contrasto con la pietrificazione del proprio io. Riconoscibile in questi versi, come lo sarà poi attraverso la raccolta, quella consapevolezza orrifica del nulla, quell’ansia della dimenticanza e della morte, intesa come distruzione fisica dell’uomo e del suo fare poesia, che trova un suo bilanciamento, un corrispettivo oggettivo, nelle pulsioni vitali, nello scorrere, violento e irrazionale, del sangue.

La crisi che l’uomo sta sperimentando ha necessariamente raggiunto il linguaggio, che dovrebbe essere espressione materiata di un ideale modello conoscitivo, strumento accurato, esatto, privilegiato della comunicazione artistica e che invece, sempre piú spesso, si affida a parole astratte, a formule generiche, prive di significato.

La lingua di questo paese
non serve piu’ a niente
conduce alberi e uccelli
al disastro

Da questa parte del mondo
viviamo di parole di pietra
e di gloria

Scaviamo nei nostri corpi
per nasconderci
insieme alle nuvole fredde
della valle

Non saremo mai liberi
come le colline! (21)

Il linguaggio umano, di cui il poeta si serve per comunicare, è stato usurpato, la sua parola denigrata, colonizzata dalla retorica della gloria. Dissanguata e arida, come la pietra, la parola è divenuta sterile, avendo perduto estensione e profondità. A questa perdita il poeta contrappone uno sguardo indagatore rivolto all’interno, propone l’isolamento, la dissociazione. Scavarsi dentro, nella carne, per trovare un rifugio salvifico, per giungere allo spazio della quiete e nascondervisi. È questa una possibile soluzione quando la crisi raggiunge lo zenith e diviene insostenibile e la parola non risponde piú alle esigenze della comunicazione umana e della espressione artistica. Lo scavo è comunque doloroso, interiore ma fisico, perché penetra nel vivo, e si fa percorso eroico dell’interiorità.

In questi versi il poeta giunge ad una limpidezza scevra di timbri elegiaci, carica di suggestioni ma priva di cadute sentimentali, grazie alla parsimonia connotativa che estremizza il valore semantico del sostantivo. Liberato dal peso della aggettivazione il referente si porge nella sua palpabilità immediata, l’immagine si presenta inequivocabile come il suo significato. Cosí alla terrestre pietra corrisponde l’immaterialità delle “nuvole fredde,” alla prigionia del corpo la libertà delle colline, allo scavo e alla profondità del nascondiglio, l’ampiezza della valle ricoperta di nubi.

Un difficile equilibrio tra disperazione e speranza è raggiunto in “Quelli che continuano a fuggire,” poesia il cui tono appare piú disteso, il cui timbro, sempre distintamente drammatico, acquista ombreggiature finora sconosciute.

Quelli che continuano a fuggire
nella neve
lasciando dietro le spalle
cieli rimpiccioliti, muri fragili
che tremano
sono in balia delle dimore ignote
se non delle pallide lune notturne
perché spinti a bruciare i ricordi
e a rinunciare alla nostalgia
e le ceneri dei morti, gli altari
che fine faranno?
volgetevi verso il richiamo, benedite
i fiori calpestati, l’acqua dei pozzi
che avete bevuto
vi saranno protettori durante l’esilio
intrapreso: fra selve incantevoli
e stagioni impietose. (23)

Alla forte dominanza dell’io delle prime poesie si sostituisce, attraverso un processo di maturazione e consapevolezza, l’evocazione di un piú vasto orizzonte di sofferenza, che trascende l’individuo fino a comprendere tutta quella umanità desolata per la quale ogni giorno si ripete il drammatico scenario della fuga, dell’abbandono del proprio focolare, del quale rimangono alle spalle solo “i muri fragili,” “i cieli impiccoliti.” Piú straziante della perdita materiale è la condanna all’abbandono dei propri cari,” dei quali si deve “bruciare” il ricordo e soffocare la nostalgia. Nel riconoscere come comune l’esperienza del dolore, l’io poetico esprime una sensibilità elevata, alla sua parola si aggiunge lo spessore psicologico e umano della pietas , di una solidarietà della compresenza e della compartecipazione in cui la sofferenza individuale si attenua, diviene cosmica, perché universalmente sentita. È da questa riconquistata plurale sensibilità che sorge spontanea l’invocazione a celebrare, nei “fiori calpestati,” il ricordo dei morti frettolosamente abbandonati, nell'”acqua di quei pozzi” il balsamo che lenisce le ferite. L’invito del poeta sottintende la speranza di trasformare l’inenarrabile violenza in sacrificio, la morte in itinerario salvifico; che l’esilio non annienti né affievolisca la memoria, la elevi anzi alla massima potenza, espressione di una umanità che, a dispetto della barbarie incombente, non vuole abdicare alla propria civiltà. È solo salvando la memoria che l’uomo salva se stesso.

Calatasi nella plurale soggettività del “noi” l’intenzione poetica si carica di immagini emblematiche, come quella del sasso, che ha l’asprezza e la refrattarietà di ciò che dura, che resiste alle insidie. L’uomo-sasso “ungarettiano” giace, metamorfosato nella Natura, tra e con i sassi, in un’attesa chiusa alla parola, in un’esperienza di confine tra il sangue e la pietra, dove unica ragione di sopravvivenza è la nozione di un altrove da conquistare con tenacia e temperanza, ma in silenzio. Anche in questi versi l’aggettivazione si rarefà, il paesaggio naturale è ridotto all’essenziale mentre il movimento narrativo si tende verso un evento a venire, misterioso e insidioso.

Siamo qui tra i sassi
con i sassi
circondati dal freddo del prato
e dagli occhi grandi degli uccelli
in attesa di una Voce
che giunga dai campi di sabbia
coperti di nuvole oscure

Portiamo nelle tasche l’elenco
dei morti
e i giorni di un territorio nudo
senza gridi ne’ ricordi

con le bocche chiuse nascondendo
le parole
spingiamo pareti di vento
per vedere dall’altra parte
il fiume di labbra nere

di cui si parlava una volta.(25)

I simboli della condizione dolorosa dell’animo poetico sono sempre piú ancorati alla Natura, corrispettivo oggettivo che esprime, con autentica e immediata corrispondenza analogica, il drammatico progredire della sua vicenda umana. Essendo stato distrutto ogni altro legame, all’uomo non rimane che stringere a sé il proprio nome, divenuto “erba strappata,” sasso che geme, e procedere, con fatica, sui “campi brulli” di un incerto e sterile paesaggio, dove la neve scende dal corpo e non sul corpo, anche quest’ultimo scioltosi e divenuto tutt’uno con l’inconsistente atmosfera. L’animo poetico non sa trarre neppure dai sogni, “desolati” e senza senso, indicazioni utili per il cammino, mentre i templi e le fonti, che “non ospitano piú con pazienza,” richiamano ad una sacralità inaridita, di una divinità profanata. Poesia dal volto ermetico, in cui la profondità e la essenzialità sono raggiunte attraverso una rappresentazione volutamente slegata da coordinate storiche e cronologiche, in cui la disumanizzazione, l’orrore, sopraggiungono quando si è perduto ogni referente; il cielo, il sogno, i templi sono simboli complessi, aperti, polisemici, che qui, per contrasto, rimandano ad una condizione di chiusura e di alienazione. La parola viene distillata, il ritmo del verso calibrato e la suggestività delle immagini elevata alla massima potenza, il risultato, un senso pervasivo di cosmica desolazione.

La prima parte della raccolta è tutta incentrata su una condizione di sradicamento, di alienazione, di perdita della propria identità, con la conseguente chiusura dell’io al mondo, lin cui prevale lo scavo interiore, la ricerca di uno spazio criptico dove nascondersi, il farsi di sasso e sangue, ma ancora, piú speranzosamente, la condivisione della sofferenza, la salvezza da raggiungere insieme al resto dell’umanità dolente, la riconquista dell’identità nella celebrazione memoriale.

È una proposta di prosodia scarna quella che si materia in questa prima parte, limpida, aderente al minimo poetico del respiro quotidiano, che non tollera le grandi architetture narrative ma si connota nella purezza di semplici e misurate proporzioni compositive.

Ricorrono numerose, in Corpo presente, le poesie che, con accento accorato, descrivono il percorso discendente dell’uomo verso un destino incerto, alimentato dalla solitudine, dallo sconforto e dalla disperazione, profetizzano l’inutilità del suo peregrinare verso un luogo indeterminato, che non riconosce legami preesistenti perché non ne ha in sé la memoria storica, e che gli potrà fornire alloggio ma non accoglienza.

fuggo senza sosta
nelle terre straniere
e non trovo a chi consegnare il mio
segreto d’uomo (33)

vanno sul filo del disastro
uomini e bestie (uniti nel silenzio
e nello spazio)

finché raggiungono
un territorio brullo
senza infanzia. (63)

Sempre piú soli
nei territori sterili
senza infanzia. (69)

Alla discesa, alla fuga verso l’interiorità, all’abbattimento dell’individualità deve seguire, nella dialettica dell’esistenza, un percorso di risalita, di liberazione e di rinnovamento, un itinerario di riappropriazione del sé che, per far fronte alla resa, può avvenire solo attraverso il recupero di una parola salvifica. Si stabilisce allora, nell’itinerario poetico, un termine ad quem, sottolineato dallo spartiacque dichiarativo della congiunzione separativa:

Tuttavia ritorneranno a separare
i vivi dai morti
e liberare i folli sogni sotto la pietra
con fatica. (39)

Questi versi segnano, nella raccolta, il passaggio da una quasi assoluta negatività ad una fase in cui è auspicabile, attendibile, lo scoccare della illuminazione, verso il quale l’io poetico si tende ora, purtuttavia, “con fatica,” perché ad esso tocca liberare i sogni dalla schiacciante densità e aridità della pietra. Insopportabile peso, gravoso compito che ricade sul fragile animo poetico, la cui condizione è ancora incerta tra l’angoscia per il presente e l’illusione del futuro. Al mondo esso può segnalarsi, unicamente ed esemplarmente, come cammino bio- e autobiografico che si perfeziona in una essenzialità scarnificata, scheletro di una storia individuale che ha il peso della durata e della tensione conoscitiva, in cui si sono accumulati dolore, incertezza, ansia e assenza. Uniche costanti verità sono il viaggio e lo stato di sospensione del frammento, che si è staccato dalla totalità originaria della quale ha perduto il senso, il significato ma non il ricordo.

Sono la verità
di un viaggio e di una linea d’Ombra
custoditi sulla terra viva e chiusa
che vuole nasconderci qualcosa

vivo sospeso
senza appartenere a nessuna dimora
al bivio di un equilibrio

ho camminato con passo lento
fra i morti assetati
per raggiungere l’alba dell’indomani
di incendi e tregue

infinito che mi ospiti
sono stanco del Tempo e del vuoto
cosa è il mio frammento
o il tuo frammento?

la mia angoscia diventa orizzontale
come la mia illusione
sottile diventa anche il muro
che mi difende e mi divide. (87)

Instabile equilibrio, perenne essere in bilico, questa la condizione che prevale nell’uomo contemporaneo e che viene implicitata nel percorso dell’individuo che sta, sospeso, al bivio, tra ciò che è rimasto indietro, “i morti assetati” e l’ambigua alba di “incendi e tregue” che lo attende. È questa condizione transeunte che il poeta deve contrapporre al nulla, l’esperienza della incertezza e della frammentarietà, il suo destino fattosi exemplum di umanità che non si arrende, della sopravvivenza che si oppone alla morte ma del suo insegnamento fa quotidiano tesoro. La condizione del poeta senza patria si afferma allora come sentire privilegiato, che non conosce né anela piú al ritorno; ormai mescolatosi, scioltosi nel fluire dell’esistenza, esso infatti attende l’evento non nella sua temporalità e ricorsività, ma nella sua circolarità metafisica: “vogliono darmi per forza una patria//io penso all’alba//che mi porta all’indomani.” (91)

Essere poeta significa per Hajdari vivere in prima persona, nella carne e nel sangue, le contraddizioni, le angoscie, il male della storia, e dare a questo dolore una forma che non muoia, che non trapassi, ma rimanga limpida, levigata ed eterna come la pietra, come il sasso, misura estrema della perfezione poetica ed emblema assoluto degli stati d’animo dell’uomo contemporaneo. La ricerca della parola e l’esperienza del dolore sono per l’animo poetico momenti di fortissima tensione, nel contempo disforici ed euforici, spesso distruttivi; l’incontro con due realtà totalizzanti, la vita e la forma, ha il senso di una profetica condanna alla quale il poeta non sa e non vuole sottrarsi.

Il giorno in cui conobbi la loro
materia
dissi alla Parola:

tu e i sassi mi distruggerete. (109)

La resistenza al nulla, alla morte viene, sollevata da ogni pretenzioso gesto eroico, espressa con l’obbedienza e la devozione del monaco silenzioso, che si premura di far fronte all’arduo compito affidatogli, di occultare ciò che ha di piú prezioso e rischia di disfarsi e scomparire: “Seppellisco nell’oscuro suolo//i fiori caduti dal mandorlo.” (123) Seppellire, occultare, significa sottrarre la gemma, la parola, all’infido sguardo di Medusa, della realtà che distrugge e divora, e allora è d’uopo che il poeta trattenga, custodisca in sé anche il segreto del luogo dove “le parole mai dette//si nascondono ancora//sotto un manto di neve.” (119) È la poesia, ancora una volta, a salvare l’uomo, conforto al suo quotidiano patire, alla pena di trascinarsi sotto “un cielo chiuso”, inospitale, che riflette la sua superficie di vetro nel “buio dei sassi.” (117) Il suo apparire equivale al momento salvifico della illuminazione, in cui la parola sorge per emettere messaggi, che non sono tuttavia forieri di consolazione, ma piuttosto di consapevolezza, di afflizione.

Cammini sui fogli che sanguinano
ancora

questa volta vieni dalla foresta
avvolta di inni e silenzi
non c’è la pioggia che ti copre
vieni per parlare

sotto la pelle porti solitudine
e disperazione di sangue

fiumi e selve seguono il tuo corpo
per darti una vita che non muore. (47)

E se questa parola a lungo nascosta diviene canto, voce che risuona, allora sarà finalmente disvelato il segreto della vita immortale e indistruttibile, della poesia che non cede alla dimenticanza e alla morte; anche la voce del poeta sopravviverà, nonostante tutto, mentre ogni altra cosa sarà stata sepolta dalla storia, corpo, sangue, carne, “panico e gioia,” memoria.

Qualcuno cerca di cancellare la mia Voce
ma essa sta lí, dove è stata:
in nessun luogo
e in nessun tempo
appesa al crepuscolo. (125)

SIMONA WRIGHT The College of New Jersey