Relazione di Serge Vanvolsem
QUANDO SULLA LETTERATURA SOFFIA EL GHIBLI
Di Serge Vanvolsem
Sul vasto campo della letteratura spirano moltissimi venti, tradizionali e innovativi, favorevoli e sfavorevoli; alcuni sono addirittura propri della sola letteratura, come l’af(f)rico, preferito dalla poesia classica al libeccio. Oggi sta per soffiare un vento nuovo, dal nome ancora disorientante: el ghibli(1) ossia il vento del deserto. Così si chiamerà, infatti, la nuova rivista on-line che un gruppo di “scrittori stranieri che vivono in Italia”(2) sta per lanciare sul mercato e il cui primo numero dovrebbe uscire nel maggio prossimo. Nella motivazione leggiamo che questi scrittori “vogliono con più forza porre all’attenzione dei lettori italiani le loro opere. Essi sono ormai giunti a una maturazione significativa sia per l’autonomia linguistica – che li può far annoverare a pieno titolo fra gli scrittori tout court – sia per le innovazioni sul piano dei contenuti e della forma. Tuttavia l’attenzione riservata loro dal mondo della cultura, dell’editoria e della stampa è minima e, nonostante questa produzione letteraria possa ritenersi in espansione, sono ancora pochi gli italiani che hanno letto le loro opere”(3). È su questa voglia di uscire dal nascondiglio e di manifestarsi che vorrei fare una serie di riflessioni.
Una prima riflessione riguarda il concetto stesso di ‘letteratura di immigrazione’, che è ambiguo, o polivalente nello stesso tempo(4). Si tratta di testi prodotti da immigrati ma non necessariamente sull’immigrazione, o di testi che hanno proprio l’immigrazione come tema, anche se in alcuni casi non sono stati scritti da immigrati?(5) E con immigrati si intendono solo i non italiani in Italia – come avviene nei concorsi letterari di Eks&Tra – oppure anche i milioni di italiani che vivono sparsi nel mondo e che spesso hanno vissuto storie e situazioni analoghe a quelle dei nuovi immigrati in Italia. Quando in Belgio parlo di letteratura dell’immigrazione mi riferisco ad autori che hanno nomi italianissimi: Bruno Ducoli, Teresa d’Intino, Rosario Solami, Francesco Tessarolo, Girolamo Santocono, Diego Marani, Santa Miccichè… ma ormai più d’uno non scrive nemmeno più in italiano. E se sono non italiani in Italia, devono aver scritto in italiano, o possono esprimersi nella loro lingua materna, o in una lingua occidentale in uso nel loro paese d’origine? Non vorrei addentrarmi qui, però, nei problemi linguistici della letteratura dell’emigrazione, perché sono proprio molto complessi e ne ho già parlato in altra sede(6). Basta accennare al fatto che per un autore la scelta di una lingua è spesso decisiva ed ha tutta una serie di conseguenze: per trovare un editore (nel paese d’adozione o in Italia), per il pubblico cui si rivolge (quante persone, p. es., possono leggere in Italia delle poesie scritte in albanese o in arabo) per il grado di integrazione nella comunità in cui si vive e si scrive, per raggiungere dei lettori nella patria d’origine alla quale non si vuole rinunciare completamente, ecc. La grande banca dati sulla letteratura dell’emigrazione (Baslie – Banca dati sugli scrittori di lingua italiana all’estero) che Jean-Jacques Marchand ha iniziato all’Università di Lausanne in occasione del congresso del 1990 raccoglie solo “gli scrittori di lingua italiana nel mondo”(7). Ma chi in un paese come il Canada pubblica un libro in italiano non viene nemmeno considerato come autore canadese! Sono canadesi solo i libri scritti in francese, in inglese o in una delle lingue amerindie. E dire che gli italiani formano la quarta comunità in Canada! “Appelez-le comme vous voulez – scrisse a questo proposito Cornel West nelle sue Note su razza e potere in America -, ma per me this is outright discrimination”(8). Il concorso di Eks&Tra ammette opere “redatte in italiano e nella lingua dell’immigrato purché accompagnate dalla traduzione italiana”, ma finora non se n’è fatto un grande uso, e non viene precisato se la traduzione, che spesso è la versione su cui la giuria esprime il suo giudizio, debba essere dell’autore stesso. In genere, però, una tale apertura ad altre lingue costituisce piuttosto un’eccezione; nella maggior parte dei premi letterari per emigrati italiani all’estero i testi presentati devono essere in italiano, anche perché fra gli argomenti che hanno spinto i fondatori dei vari premi figura spesso la “promozione della lingua e la cultura italiana”.(9)
Una domanda più fondamentale riguarda la natura stessa di questa letteratura. In tutti i tempi c’è stata gente che, per i motivi più svariati, ha lasciato il proprio paese per stabilirsi per periodi più o meno lunghi o addirittura per sempre in terre lontane, e in tutti i tempi fra loro c’è chi si è messo a scrivere poesie o racconti, ma solo negli anni ’80 e ’90 la letteratura della migrazione comincia ad essere riconosciuta come tale e diventa oggetto di studio. Lodovico Guicciardini – prendo un esempio dal mio paese -, mercante e consigliere della nazione fiorentina ma anche eminente uomo di lettere, che visse ad Anversa dal 1541 fino alla morte nel 1589, non viene mai considerato emigrato(10). E pochi saranno i manuali di storia della letteratura italiana che considerano Ungaretti un emigrante anche se “Le fait migratoire, loin d’être un accident biographique comme chez tel ou tel enfant du voyage, est pour Ungaretti une expérience absolument centrale, revendiquée en tant que telle. Écoutons-le en août 1942, de retour du Brésil où il avait refusé de désavouer les choix belliqueux de son pays: “Sono figlio d’emigranti e di ritorno da un paese, il Brasile, che ha calpestato l’ingegno e il sudore di milioni d’Italiani… cui deve la prosperità (…)””(11). A norma di legge per l’Italia è emigrato solo chi svolge all’estero un lavoro manuale(12). Oggi, però, è un criterio assurdo perché, se da un lato permette di escludere, p. es., gli ambasciatori dell’Albania, dell’Algeria o del Senegal che effettivamente non si sono mai considerati degli immigrati in Italia, dall’altro significherebbe anche cancellare dall’albo degli scrittori immigrati come l’albanese Gëzim Hajdari, l’algerino Tahar Lamri o il senegalese Saidou Moussa Ba perché ormai svolgono dei lavori più intellettuali. Non solo, nel mondo l’emigrazione italiana perderebbe d’un tratto milioni di individui. Un diplomatico a Bruxelles, volendomi chiarire la differenza, un giorno mi disse che al contrario degli immigrati lui era da noi per libera scelta, che sarebbe potuto andare anche in altre sedi, e che comunque il suo era solo un soggiorno temporaneo. Gli ho risposto che oltre il 90% degli emigrati è partito con l’idea di stare all’estero solo il tempo di fare un po’ di soldi con cui tornare in patria, e che per quasi tutti s’era posto il problema della scelta: le miniere del Belgio, della Francia o della Germania, andare negli Stati Uniti o in Canada, tentare la fortuna in Argentina o in Brasile, o nella lontana Australia. L’unica differenza semmai era che per molti la scelta non era così libera perché dettata da esigenze economiche. E viste tutte le conseguenze sono state talvolta delle scelte davvero drammatiche.
I più affermati, fra gli scrittori immigrati in Italia, stanno nel paese ormai da quindici o venti anni, e sono anni di vita da adulti. Hanno quindi della vita, ma anche della società italiana in cui si sono stabiliti definitivamente un’esperienza maggiore di alcuni degli scrittori cosiddetti ‘regolari’ che esordiscono con una raccolta di poesie a venti o a trent’anni(13). È importante poi anche il fattore generazionale: quando in Belgio parliamo di migrazione italiana, ci riferiamo ormai alla seconda e addirittura alla terza generazione. Molti scrittori che portano l’etichetta di ‘immigrati’ non hanno affatto lasciato l’Italia per venire in Belgio, almeno non in prima persona: sono nati nel paese, o vi sono stati portati in tenera età dai genitori. E ovviamente non è un fenomeno solo del Belgio: Nassera Chohra, l’autrice di Volevo diventare bianca (edizioni e/o, 1993), è nata a Marsiglia da genitori saharawi, ed è cresciuta e ha studiato in Francia prima di stabilirsi in Italia. Un tale percorso non è naturalmente senza conseguenze, soprattutto per quanto riguarda le tematiche toccate. Per chi è dovuto partire, la partenza, i primi anni duri in una terra straniera qualche volta anche ostile, la nostalgia della patria natia, la terra dell’infanzia dove tutto era migliore, a partire dal clima, ecc. sono temi tipici della prima generazione. Il “Piove sempre/ in questo/ paese/ forse perché sono/ straniero/…”(14) di Hajdari è diventato emblematico, ma mi ricorda anche il grido molto forte di Lazrak Bekadi, un giovane algerino che ha partecipato al concorso di Eks&Tra l’anno scorso (2002):
Addio terra mia
(…) terra mia non posso portarti con me
ma porto con me
la tua immagine per sognare
porto con me il tuo silenzio per pensare
porto con me la forza per camminare
porto con me la tua aria per respirare
Questo silenzio invocato che presso Hajdari assume connotazioni drammatiche:
Ascolto il mio silenzio: è la paura
di morire in un’altra lingua
non in questo freddo che non mi appartiene (15)
Questi temi non spariscono con le generazioni successive, ma inevitabilmente si trasformano perché queste generazioni non hanno più avuto un’esperienza diretta del paese d’origine, o ne hanno solo vaghi ricordi, ricordi d’infanzia. Così le realtà di un tempo diventano simboli, ricevono delle connotazioni mitiche. Nello stesso tempo l’esperienza di questi scrittori si arricchisce con tutti gli elementi della società cui partecipano o almeno vogliono partecipare. Che il risultato non sia semplicemente una cultura, e di conseguenza anche una letteratura, concepita come somma delle due esperienze è già stato segnalato da Gino Chiellino, poeta e critico italiano in Germania, ma anche studioso della letteratura dell’emigrazione (1975: 20): “I often get the impression that attempts to describe the art and litterature produced by foreigners as a synthesis of what they brought along and what they found in Germany are directly connected to a static notion of identity”. Sul piano umano l’allargamento mette spesso l’individuo di fronte a problemi sociali o psicologici sui quali non mi posso dilungare qui, ma che nelle espressioni letterarie risultano in tematiche che difficilmente coincidono con i temi di cui si occupa la letteratura del paese d’adozione. Un italiano nato e vissuto in Belgio (con o senza passaporto italiano, questo è un altro problema), e un belga che praticamente non è mai uscito dal paese non scrivono sugli stessi argomenti, quand’anche sono cresciuti insieme o negli stessi ambienti. E più sono evidenti le differenze visive, più l’immigrato viene per così dire conficcato suo malgrado in un ruolo ben preciso: si deve comportare e quindi scrivere come immigrato. Proprio da questa tribuna Jadelin Gangbo(16), che vive in Italia dall’età di quattro anni, ha raccontato l’anno scorso che da parte sua praticamente non si accetta che parli in bolognese “schietto”, o che ai mondiali faccia il tifo per gli azzurri anziché per qualche squadra ‘nera’ come il Senegal. È un atteggiamento che ritroviamo spesso: da parte dello straniero ci si aspetta che rimanga straniero, magari integrato fino a un certo punto, ma comunque straniero. La nostra società – dico la società, non i singoli individui – ha un bel dichiararsi progressista, ma quando guardiamo i fatti sembra ancora avere tanti problemi ad accettare trasgressioni di ruoli. Ricordo, p. es., le polemiche che ha suscitato in Italia nel 1996 l’elezione di un’immigrata dominicana come miss Italia, come pure in Finlandia l’elezione di una miss nera(17). Per Chiellino la maggiore sfida per un emigrato che scrive testi letterari è pertanto di resistere di fronte agli stereotipi che ci si aspettano da parte sua: anzi li dovrebbe ‘de-costruire'(18).
Ho un’ultima riflessione, per me alquanto inquietante: la società occidentale sembra più disposta ad affrontare e a disinnescare i problemi che a risolverli. Abbiamo riconosciuto sistematicamente minoranze diversissime, ma non basta dare loro soltanto una voce perché possano dire la loro. E la discriminazione positiva potrà essere una bella invenzione del novecento, ma non risolve neanch’essa i problemi fondamentali. Queste idee vengono anche applicate alla letteratura della migrazione. Oggi è abbastanza di moda studiare la letteratura da angolazioni particolari che superano i canoni tradizionali delle cosiddette letterature nazionali: la letteratura giovanile, la letteratura femminile, la letteratura dialettale, la letteratura operaia e, perché no, quella della migrazione. Lo studio di questi fenomeni permette naturalmente di attirare l’attenzione su scritti che altrimenti sarebbero rimasti nell’ombra perché non rispondenti ai canoni, ma proprio questo rischia di tenerli separati dallo studio della letteratura vera e propria. È un po’ un tentativo di mettere a tacere la propria coscienza, concedendo qualcosa a quanto nell’ottica generale resta comunque considerata marginale. Sono ancora poche le cattedre universitarie che si occupano della letteratura della migrazione, almeno nei dipartimenti di letteratura perché fra i sociologi e i linguisti l’interesse è forse maggiore. Poi non bastano gli studi, le opere devono anche circolare per essere lette: “Meglio essere oggetto di studio che oggetto di niente, diceva la poetessa italo-belga Teresa d’Intino, intervenendo in un dibattito sulla letteratura dell’immigrazione che avevo organizzato nel 1998, ma voglio essere letta in Italia prima di morire”. I premi, i forum, i congressi e gli studi sulla letteratura della migrazione sono quanto mai utili e necessari, ma non possono che essere delle tappe intermedie, da superare. Per me la letteratura della migrazione sarà letteratura tout court o non sarà. Ben venga quindi, ben soffi el ghibli, perché testimonia una maturazione linguistica e letteraria di scrittori che vogliono essere riconosciuti come scrittori tout court, senza etichetta. Bisogna augurarsi, però, che diventi al più presto una vera rivista letteraria che entri in dialogo con il mondo letterario italiano e internazionale, e non uno strumento supplementare di ghettizzazione o di protezionismo letterario. Una tale apertura richiede coraggio, perché comporta sempre dei rischi, perché significa uscire dal guscio protettivo. E significa soprattutto buttarsi sul mercato letterario ed accettare le dure leggi della concorrenza e del raffronto qualitativo. Molti testi che vanno sotto l’etichetta di letteratura della migrazione non passeranno al vaglio di un tale esame qualitativo, ma non vedo perché i migliori non potrebbero accettare la sfida. I premi conquistati da singoli scrittori in concorsi letterari anche al di fuori della letteratura della migrazione sono la miglior prova che essi sono pronti e che è proprio questa la strada da seguire.
Quanto detto per gli autori e per le opere, in un certo senso, vale anche per il concorso di Eks&Tra, che ha già fatto tanto lavoro promozionale, che stimola a scrivere, e che ha contribuito a lanciare gli autori più meritevoli. A lungo termine, però, ha senso solo se si sforza di rendersi sempre più superfluo. Per ora non è certamente terminata la fase promozionale e quella della lotta per il riconoscimento e per l’integrazione della letteratura della migrazione nel mercato letterario tout court. Ma intanto propongo che al più presto l’associazione si allarghi e prenda contatto con il Premio Enea, il premio internazionale per la letteratura dell’emigrazione, nell’accezione di italiani emigrati all’estero che producono testi letterari, nato proprio in questi giorni qui a Mantova, anche perché questo premio si inserirà come manifestazione collaterale nel Festivaletteratura che si svolge ogni anno nella città.
1) La parola viene dall’arabo qibli, che significa ‘(vento) del sud’, ed è nella lingua sin dal 1918. Nel DISC viene definita come: “Forte vento di sud, caldo e asciutto, che spira nell’Africa settentrionale” (sub voce).
2) Il gruppo redazionale – cito l’annuncio firmato da Pap Khouma – è composto da scrittori africani, italiani, sudamericani, mediorientali, francesi… che hanno già avuto riconoscimenti vari: Mia Lecomte, Candelaria Romero, Marcelo Vega, Youssef Wakkas, Raffaele Taddeo, Gabriella Ghermandi, Theodore Ndock Ngana, Cristina Ali Fara, Kossi Komla Ebri, Saidou Moussa Ba, Pap Khouma. Direttore responsabile sarà Pap Khouma. Devo la segnalazione all’amico Kossi Komla Ebri. La nuova rivista, di cui nel frattempo è uscito il primo numero (settembre 2003), può essere letta sul sito della provincia di Bologna (http://www.el-ghibli.provincia.bologna.it). Per i redattori el ghibli “È il vento dei nomadi, del viaggio e della migranza, il vento che accompagna e asciuga la parola errante. La parola impalpabile e vorticante, che è ovunque e da nessuna parte, parola di tutti e di nessuno, parola contaminata e condivisa. È la parola della scrittura che attraversa quella di altre scritture, vi si deposita e la riveste della polvere del proprio viaggio all’insegna dell’uomo e del suo incessante cammino nell’esistenza” (dalla presentazione).
3) Cito sempre dall’annuncio firmato da Pap Khouma.
4) Se è ambiguo il concetto lo sono molto meno i termini usati per esprimerlo: migrazione, emigrazione e immigrazione si riferiscono sostanzialmente agli stessi fenomeni, ma ne illustrano aspetti diversi. Il migrante abbandona la sua terra d’origine per trasferirsi e vivere altrove: chi esce dal paese è un emigrante, chi ne è già uscito da un po’ di tempo un emigrato. Per il paese di accoglienza le ultime due categorie sono rispettivamente degli immigranti e degli immigrati.
5) Jean-Jacques Marchand (1991: XVIII-XIX) ha proposto di chiamare ‘letteratura dell’emigrazione’ la produzione letteraria degli emigrati, e di riservare il termine di ‘letteratura di emigrazione’ alle sole opere scritte in Italia o all’estero, che hanno per tema l’emigrazione. In Belgio viene anche usato qualche volta il termine di ‘letteratura di alloctoni’, ma in italiano tale vocabolo si riferisce ancora prevalentemente ai mondi geologico e ittiologico. Il significato antropologico, usato anche dai sociologi (cfr. Alessandro Bosi, La città degli ospiti: “Per le stesse ragioni, un produttore autoctono e un vu’cumprà alloctono non avendo fra di loro nessuno dei due elementi d’identificazione considerati, sono in relazione che definiremo d’alterità distante”, testo trovato su internet), è entrato solo di recente nei vocabolari italiani (De Mauro 2000, Devoto-Oli 2002-3, Zingarelli 2003). Nel brano di Bosi la parola appare più volte sia come aggettivo, sia come sostantivo.
6) Cfr. S. Vanvolsem (1995), Il codice linguistico della letteratura dell’emigrazione.
7) Più di 800 schede, accessibile tramite la sezione italiana dell’Università di Lausanne (www.unil.ch/ital). Per l’Italia si può citare la Banca dati sugli scrittori immigrati in lingua italiana (Basili) realizzata da Armando Gnisci presso il Dipartimento di Italianistica e Spettacolo dell’Università di Roma 1 “La Sapienza” e che contiene attualmente fra 100 e 150 nomi di scrittori (www.disp.let.uniroma1.it/basili2001). Le due banche, però, andrebbero un po’ aggiornate per quanto riguarda le pubblicazioni più recenti. 8) Cit. in A. D’Alfonso (1996: 81) che constata che: “Today Italophobia expresses itself with more shrewdness: for instance, the Canada Arts Council, the only institution from which an artist can receive any sort of grant that will assist him in his craft, refuses to consider Canadian any book written in a language other than French, English, or one of the Amerindian languages”. Il lavoro di West cui si riferisce l’autore è dato in nota: Prophetic Reflections: Notes on Race and Power in America, Beyond Eurocentrism and Multiculturalism, vol. 2 (Monroe, Maine: Commun Courage Press, 1993).
9) Anche nel nuovo Concorso letterario Internazionale sull’Emigrazione, il Premio Enea istituito per la prima volta nel 2003, si legge all’articolo tre del regolamento: “Le opere devono essere scritte in lingua italiana o in dialetto (accompagnata dalla versione in lingua italiana)”. Come si vede, nei confronti delle espressioni dialettali viene dimostrata maggiore indulgenza, ed alcuni premi prevedono addirittura esplicitamente una sezione di poesia dialettale.
10) Ricordo le sue Ore di ricreazione (1568) e soprattutto la magistrale Descrittione di tutti i Paesi Bassi, altrimenti detti Germania inferiore (1567) ristampata ben due volte durante la vita dell’autore (1581 e 1588) e presto tradotta in più lingue.
11) Jean-Charles Vegliante (1988: 11). Nell’indice della rivista il titolo ha la parola émigration invece di immigration.
12) Cfr. Jean-Jacques Marchand (1991: XVIII), che cita in nota la legislazione relativa, dal RD 2205 del 13 novembre 1919 in poi.
13) Non dimentichiamo tuttavia il corneilliano “Je suis jeune, il est vrai; mais aux âmes bien nées/ La valeur n’attend point le nombre des années” (Le Cid, II, 2).
14) Da Ombra di Cane (Dismisuratesti, 1993). La poesia è stata ripresa anche nell’antologia che raccoglie le opere vincitrici e finaliste della prima edizione del concorso Eks&Tra: A. Ramberti e R. Sangiorgi (a cura di), Le voci dell’arcobaleno, Santarcangelo di Romagna, FaraEditore, 1995, p. 21.
15) Gëzim Hajdari, Stigmate/ Vragë. Poesie, Nardò (LE), Besa Editrice, 2002, p. 27.
16) Autore di Verso la notte Bakonga (Editori di Comunicazione, 1999, poi Portofranco, 2001) e di Rometta e Giulieo (Feltrinelli, 2001)
17) Stephen Gundle (Royal Holloway), ha analizzato il fenomeno durante il recente congresso su Writing Europe 2001: Migrant Cartographies. Cultural Travellers and New Literatures (Leida – Amsterdam, 22-24 marzo 2001), affermando, fra l’altro, che “the black Miss Italia was a novelty that unsettled established views about ethnic identity in a country that still largely perceived itself as monocultural” (cito dal riassunto su internet, gli atti sono in corso di pubblicazione).
18) Chiellino (1995: 10). Nell’introduzione alla sua traduzione inglese del testo Luise von Flotow scrive: “In Chiellino’s estimation, the greatest challenge for a foreign writer in Germany is not to succumb to the stereotype expected of him or her. In his view, literature by a member of a minority group should avoid corroborating the ‘knowledge’ the host population has about the group; it should seek to deconstruct”
Bibliografia: M. Botti (19992), Dentro alla valigia una penna… Approccio alla letteratura italiana d’emigrazione nel mondo, Libraria Padovana (1a ed. Elaborazione Blue Service, s.d.).
G. Chiellino (1995), Fremde. Discourse on the Foreign, Toronto – New York, Guernica.
A. D’Alfonso (1996), In Italics. In Defense of Ethnicity, Toronto – New York – Lancaster, Guernica.
A. Gnisci (19932), Il rovescio del gioco, Roma, Sovera (1a ed. Roma Carucci, 1992).
A. Gnisci (1998), La letteratura italiana della migrazione, Roma, Lilith.
S. Gundle, Miss Italia Black and White: Feminine Beauty and Ethnic Identity in Modern Italy (in corso di pubblicazione).
F. Loriggio (1966) (a cura di), Social Pluralism and Literary History. The Literature of the Italian Emigration, Toronto – New York – Lancaster, Guernica.
C. Lüderssen – S.A. Sanna (1995) (a cura di), Letteratura de-centrata. Italienische Autorinnen und Autoren in Deutschland, Frankfurt am Main, Diesterweg.
J.-J. Marchand (1991) (a cura di), La letteratura dell’emigrazione. Gli scrittori di lingua italiana nel mondo, Torino, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, 1991.
S. Vanvolsem (1991), La letteratura italiana in Belgio: tre lingue, tre culture e più generazioni, in J.-J. Marchand (1991: 81-94).
S. Vanvolsem (1995), Il codice linguistico della letteratura dell’emigrazione, in S. Vanvolsem e.a. (a cura di), Gli spazi della diversità, Atti del convegno internazionale: Il rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992, Vol. II, Leuven-Roma, Leuven University Press-Bulzoni, pp. 557-572.
J.-Ch. Vegliante (1988), Giuseppe Ungaretti, un poète dans l’immigration, in “La trace. Cahiers du Centre d’études et de documentation sur l’émigration italienne”, 1/5 (giugno 1988), pp. 11-14.
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