Un altro premio letterario?
Il filosofo specialista si avvicina più agli altri uomini di ciò che
avvenga per gli altri specialisti (
) non si può pensare nessun uomo che non
sia anche filosofo, che non pensi, appunto perché il pensare è proprio
dell’uomo come tale (
) Non si può parlare di non-intellettuali, perché
non-intellettuali non esistono (
) Non c’è attività umana da cui si possa
escludere ogni intervento intellettuale.
(Antonio Gramsci, Quaderni del carcere)
Un giorno, racconta Italo Calvino in “Un generale in biblioteca”, a
Panduria, “nazione illustre”, nacque tra i generali il sospetto che “i libri
contenessero opinioni contrarie al prestigio militare”1. Per rimediare
alla situa-zione venne organizzata una commissione d’inchiesta con a capo un
generale che avrebbe compiuto le sue indagini nella biblioteca più grande
dell’illustre Panduria. Con piglio militaresco, il generale e quattro tenenti
organizzarono in segreto grandi manovre intellettuali. Angelo custode
dell’approccio militare alla conoscenza fu un vecchio bibliotecario che fornì
ai soldati i volumi richiesti e ne aggiunse altri non richiesti. Il vecchio
Crispino rispose infatti alla sorpresa e indignazione dei militari alle versioni
della storia che lessero in quella biblioteca cadente, con altri libri, altre
revisioni alla versione di quella Storia che i militari avevano sempre creduta
vera. I loro rapporti ai superiori si fecero più complessi, come anche la loro
visione della vita tanto che non poterono più fare a meno del vecchio
bibliotecario e dei suoi libri galeotti. Il rapporto finale del generale:
era una specie di compendio della storia dell’umanità dalle origini ai
nostri giorni, in cui tutte le idee più indiscutibili per i benpensanti di
Panduria erano criticate, le classi dirigenti denunciate come responsabili
delle sventure della patria, il popolo esaltato come vittima eroica di guerre e
politiche sbagliate.2
Naturalmente il rapporto costò i galloni al nostro generale che dovette
andarsene in pensione per ragioni di salute insieme ai quattro tenenti. Questa
improvvisa libertà permise loro di frequentare assiduamente la biblioteca sotto
la protezione del vecchio bibliotecario che li aveva iniziati alla ricerca
delle molteplici facce della verità.
Questa “storia” introduttiva mi permette di presentare il quinto
volume, che raccoglie i racconti brevi e le poesie selezionati dal premio
letterario Eks&Tra, come un libro che spero possa essere benvenuto nella
biblioteca calviniana della fantomatica Panduria, dove i testi hanno il ruolo
di complicare risposte semplici e facilone sui problemi della storia e
innamorano i lettori alla ricerca del sapere. Questa antologia, come le
precedenti, offre racconti inviati da immigrati in Italia, ciascuno con un
passato di interessi tanto diversi quanto lo è il loro rapporto con la
scrittura: chi si cimenta nella scrittura per la prima volta, chi lo fa da anni
in lingue diverse. Li accomuna il fatto di scrivere in una lingua, l’Italiano,
che non è loro madre, ma che gli scrittori immigrati hanno adottato attraverso
un processo di migrazione in tempi più o meno recenti. L’Italiano esprime per
alcuni una lingua che è matrigna, ma non familiare, mi riferisco naturalmente a
quegli scrittori che appartengono alla seconda generazione di immigrati,
cresciuti in Italia, educati dalla scuola alla cultura italiana, ma che hanno
anche appreso la lingua dell’ambito familiare che preserva la cultura del paese
di provenienza della famiglia.
Questa antologia segue il percorso delle precedenti quattro antologie,
complicando le rappresentazioni dei protagonisti dell’im-migrazione in Italia
troppo apocalitticamente semplicistiche nella stampa e nella propa-ganda
politica. Chissà, forse il generale pan-duriota che pattuglia le coste al fine
di fermare l’ingresso degli altri sul territorio nazionale avrebbe un rapporto
un po’ trasgressivo da comunicare ai suoi superiori se gli chiedessero, dopo la
lettura delle antologie del premio Eks&Tra, chi sono questi clandestini
alle porte del paese.
Assegnare un ruolo a questi testi nella cultura italiana richiede delle
precisazioni che vanno al di là di un apprezzamento secondo canoni estetici. È
necessario tornare alla posizione gramsciana citata all’inizio di questa breve introduzione.
Gramsci allarga il campo della produzione intellettuale aprendo le porte ad una
più complessa idea di cultura che è alla base dei cultural studies inglesi ed
americani.
È in questo contesto che la letteratura di immigrazione italofona si
qualifica come tale, come letteratura in lingua italiana, interes-sante per la
sua capacità di costruire nuovi significati all’interno della produzione
culturale in italiano.
Questa è una letteratura di apertura verso testimonianze di migrazione
e di ibridiz-zazione in diversi contesti linguistici e nazio-nali: una specie
di filo conduttore tra l’espe-rienza italiana e quelle più antiche in paesi
limitrofi o distanti come l’America. È anche un legame che collega il presente
italiano e un suo passato di emigrazione.
Syria Poletti lascia l’Italia nei primi decenni del secolo. Ha già
vent’anni ed è l’unica della sua famiglia che non è ancora partita per
l’Argentina, poiché il visto le è stato negato per ragioni di salute. In
Argentina diventa scrittrice:
Mi rivedo sul molo di Trieste, scaraventata all’indietro, marchiata da
un rifiuto di timbri e inchiostro rosso.
Non potrò mai evitarlo. È inutile. Faccio parte di quella legione di
esiliati nei quali le leggi incisero marchi indelebili.
Solo che io pretesi di allearmi alle leggi, di trasformarle in
strumenti docili: riconciliarmi con esse. Ed esse rimbalzarono contro di me.
Perché l’origine di tutto non è nelle leggi degli uomini.
Sono in isolamento come falsificatrice di documenti. Peccato di
superbia signor giudice. Mi sono ribellata, forte di un’arma efficace. Ho
voluto essere un documento vivo. Un libro di atti.3
Diventare un intellettuale, prendere possesso del linguaggio, esprimere
la propria identità in parole porta la protagonista del romanzo, con toni autobiografici,
della Poletti a trasgredire, cioè a creare documenti falsi per chi come lei era
stato imprigionato nella categoria degli indesiderabili e gli era stato
impedito di emigrare. Il suo è un gioco di identità passate, presenti e future
che le parole possono frammentare e plasmare in modo trasgressivo. Diventare un
“documento vivo” significa riscrivere le regole del gioco e perdere sé stessi
nell’atto di migrare.
L’esperienza narrata dalla Poletti introduce il racconto “Il telefono
del quartiere” scritto da Gabriella Ghermandi che vince il primo pre-mio del
concorso Eks&Tra per scrittori immigrati 1999. Scritto in prima persona,
questo racconto narra i cambiamenti che l’identità della protagonista ha subìto
attra-verso il tempo della migrazione e dell’allon-tanamento dal paese natio,
l’Etiopia. Tra-sformata dalla sua esperienza in Italia, la protagonista ritorna
nella sua città africana vedendola attraverso occhi occidentali e il filtro
della memoria. Come Syria Poletti che si trasforma in un documento vivo, la
protagonista del racconto della Ghermandi si trasforma in un testo vivo,
aperto, solo quando può guardare al paese del suo passato al di là della
nostalgia. Arriva però il momento di tornare in Italia, al testo della sua vita
che include passato e presente. In questo racconto, la Ghermandi aspira alla
riconcilia-zione tra le diverse componenti culturali della sua identità. È
un’ambizione non realizzabile: rimane uno scarto, un ostacolo creato dal
movimento, dalla traduzione di sé stessi in contesti e lingue diverse che
rifiutano di unirsi l’una all’altra come un ordinato puzzle.
Nel film Giamaica (1998) di Luigi Faccini un giovane dalla pelle nera
viene ferito e poi bruciato nell’incendio doloso di un centro sociale4. Ispirata da un
crimine realmente accaduto, la trama del film racconta di un gruppo di amici
che non fidandosi della forza pubblica per risolvere il caso, cercano di farlo
da soli iniziando un viaggio nella notte con il loro furgone coperto di
ritratti di Bob Marley e di graffiti5. La violenza contro un centro sociale e
contro la diversità espressa dal colore della pelle è anche al centro di
“Meteco”, racconto di Imed Mehadheb che vince il secondo premio del concorso
letterario. La divisione tra buoni e cattivi in “Meteco” è ancora più problematica
che nel film Giamaica. Imed non ci propone delle “vittime perfette” ma un
insieme di individui che gestiscono un’economia di sopravvivenza attraverso
atti criminosi come lo spaccio di droga. Eppure è impossibile non sentire un
legame con i protagonisti di “Meteco”. Tommie, afroamericano di padre somalo,
arriva in Italia come soldato, sbaglia, è messo in prigione, si innamora, entra
a far parte del ghetto degli immigrati, ma soprattutto vive una metamorfosi che
gli permette di diventare fisicamente un “altro”, di vivere un fram-mento della
vita di un razzista. Tommie si risveglia un giorno trasformato in un bianco,
vestito da naziskin, con giacca di pelle e stivaloni che sente fatti della sua
vecchia pelle. Partecipa con altri skinheads all’assalto ad un centro sociale e
si trova a usare violenza contro un uomo di pelle nera che è un suo alter ego.
È un sogno spaventoso in cui il razzismo e la violenza appaiono come sirene
ammalianti, attraenti per la loro irrazionale eterofobia, e facili armi contro
altri. Il complesso racconto di Mehadheb spazia dalla fantascienza alla
narrativa realistica legandosi a momenti storici del passato recente come
quello delle Black Panthers americane che fanno parte dell’esperienza della
famiglia di Tommie.
“Meteco” rifugge dalla semplicistica equazione che accomuna
immigrazione e criminalità. “Il punto centrale [della ricerca Censis]”,
scrive Guglielmo Ragozzino, “è che non emerge una stretta correlazione
tra criminalità e immigrazione [il corsivo è del Censis]; tuttavia è
evidente la crescita dell’allarme sociale rispetto al crimine, specie quello di
strada o micro in quanto colpisce o può colpire ogni singolo cittadino.”6
Questo tema al centro dell’indagine del Censis e dell’attenzione
popolare appare nel testo di “Meteco,” nel brano vincitore del terzo premio del
concorso e in altri racconti di questa antologia.
“S.D.” di Jadelin Mabiala Gangbo, vincitore appunto del terzo premio,
ambienta le vicende del racconto nell’anno 2040, in un centro urbano dove un
gruppo di sfaccendati di origini diverse stanno passando un Natale solitario,
consci della loro reputazione nella società:
L’aria pungeva fredda e oltre la frontiera, che divide il nostro
quartiere dal resto della città, si stava bene. Dal bus, dei ragazzini ci urlarono
di tornare nelle fogne. Le signore stringevano le borsette sotto le ascelle
In questo gruppo c’è anche S.D., un alieno importato sulla terra,
perché si era convinti della superiorità della sua razza. Un fanto-matico, ma
plausibile, Presidente americano voleva carpirgli informazioni sulle armi
potenti del suo pianeta. S.D. viene però da un luogo pacifista, non sa nulla di
armi ma è inizialmente trattato bene nonostante la sua diversità. Il Presidente
gli dice:
Lo sa mi aspetto grandi consigli da voi, in fondo non siete degli
esseri di budino come avevamo immaginato, neanche siete negri o slavi, quelli
sì che sono extraterrestri
Oddio, non ne parliamo neanche, quelli li teniamo
oltre le frontiere, dovremmo trovare un modo per spingerli ancora oltre.
S.D. diventa veramente un “diverso” come gli altri, quando dimostra la
sua inutilità ai piani del Presidente e si mescola alla massa degli emarginati,
incapace di tornare a casa, intrappolato in un mondo in cui la criminalità è
combattuta e le guerre alimentate.
I brani inviati a questo concorso letterario sembrano legati tra loro
da un notevole interesse per la costruzione del tempo o me-glio per una
contrazione del tempo: spaziano tra passato, presente e coinvolgono il futuro
traslando eventi presenti in pessimistiche e grottesche proiezioni
fantascientifiche. Questi toni futuristici sono accompagnati da momenti di
realismo autobiografico.
Fitahianamalala Rakotobe Andriamaro, che vince il quarto premio, scrive
di quando da ragazzina voleva “rientrare nei canoni della norma per quanto
concerneva il [suo] nome”. In “Chiamatemi Mina”, un testo autobiogra-fico, la
scrittrice proietta la propria identità nel passato per esplorare come una
bimba possa vivere la diversità. Il suo è però anche un caso particolare che
ancora non è largamente testimoniato in Italia, cioè la storia di una bimba
appartenente alla seconda generazione di immigrati che vuole cambiare il
proprio nome da uno strano, estraneo alla lingua italiana, al bisillabico Mina:
Ricordo confusamente di aver sperato di ri-svegliarmi un giorno bianca,
come quei pesci che nascono femmine e, per naturale tra-sformazione, divengono
maschi una volta adulti.
Il personaggio di “Meteco” – che si scopre un giorno bianco – vive la
metamorfosi come un incubo, il povero S.D. si ritrova una identità di “altro”
costruita per lui e forzatamente assegnatagli. Mina vuole “passare” per
bian-ca, vuole un’assimilazione biologica, cancel-lare la propria diversità:
la ragazzina di allora si preoccupava unicamente di rientrare nei
canoni della norma per quanto concerneva il nome, la casa, gli abiti e tutto
ciò a cui l’infanzia e l’adolescenza possono aggrapparsi per colpire e
umiliare.
Un nome sembra poco, ma significa l’identità di qualcuno, come ha anche
sottolineato Mohamed Bouchane che nel romanzo auto-biografico Chiamatemi Alì
(1990) racconta di come gli italiani cercavano di “battezzarlo” con un nome
cattolico che lui, mussulmano, rifiutava sostituendo il suo vero nome Mohamed
con Alì, nome arabo, che almeno gli Italiani non avevano problemi a
pronunciare.
“Chiamatemi Mina” echeggia anche le tematiche sviluppate in Volevo
diventare bianca (1993) di Nassera Chohra, un testo che narra di un’altra donna
appartenente alla seconda generazione. Il racconto autobio-grafico di Chohra
descrive i suoi tentativi di “passare” per bianca, tentativi che, così come nel
testo della Rakotobe Andriamaro, sollevano l’opposizione delle madri. Se la
madre nel testo della Chohra risponde con la violenza al tentativo della figlia
di, letteralmente, candeggiare la sua pelle, la madre di “Mina” interviene e
chiede ai compagni di classe della figlia di chiamare la loro compagna con il
suo vero nome tanto difficile da pronunciare. La figlia se ne vergogna ed è
solo da adulta che capisce come l’azione della madre avesse come scopo quello
di abituare i compagni alla differenza e a “pronunciarla” correttamente, a
rendersela amica.
Il binomio criminalità/immigrazione ricom-pare nel racconto di una tra
le numerose scritttrici immigrate pubblicate in questa antologia. “La storia di
Fatima” di Gertrude Sokeng vince il quinto premio. Fatima, il cui marito Rachid
è morto investito da una macchina, si vede i poliziotti in casa con un mandato
di perquisizione motivato da sospetti generici: si teme che non sia un
incidente ed immediatamente la polizia associa la tragedia ad un potenziale
ruolo criminale della vittima.
Questo racconto è di difficile lettura poiché la protagonista femminile
non è la vera prota-gonista. È una donna, “protagonista passiva”, come scrive
l’autrice, della sua stessa vita. Al centro della narrazione è la figura del
marito, martire ed eroe che muore per aver prima denunciato dei criminali e poi
fatto causa contro datori di lavoro che lo sfruttavano. Fatima, alla morte del
marito, torna in Maroc-co e dopo cinque anni è ancora prostrata dalla morte del
consorte, incapace di vivere se non per l’unico figlio. La difficile lettura
sta proprio nel fatto che una lettrice si deve confrontare con il tipo di donna
ritratta, con la sua secondarietà, dipendenza, con la sua incapacità di creare
una propria vita senza la figura del marito al fianco. È il ritratto di una
fedeltà senza limiti e di una dipendenza dalla figura maschile che abilmente
traccia i contorni di una realtà femminile che deve essere testimoniata.
Edoardo Albinati ha recentemente espresso la sua opinione su come
l’alterità e l’emargina-zione vengano ritratte nei media:
Ammetto di essere infastidito e preoccupato da questa
spettacolarizzazione permanente, un paiolo di frasi fatte in cui il giornalismo
rimesta stancamente la sua lunga pertica. Dolorismo, buonismo, perdonismo,
vendet-tismo, moralismo, fotografie, didascalie
A quello girato da Fioravanti
& Co. si aggiunge un documentario su un trans brasiliano, Princesa, ricordo
il giorno che a Rebibbia la riprendevano in pose molto glamour, piantata in
mezzo al piazzale, tutti gli occhi puntati addosso a lei.7
È proprio Bozidar Stanisic’, vincitore del sesto premio, che con il suo
racconto “Il rapimento” cambia le regole del gioco criticando la versione
giornalistica di un evento, il “Rapimento: Love story alla Balcanica” in cui
due giovani ritornano in Bosnia abbandonando un campo per rifugiati. La storia
risponde al sensazionalismo da tabloid dando una versione complessa della vicenda
che include un coro di personaggi. Questi personaggi vedono gli eventi in
Jugoslavia dall’esilio, sono come estranei che sanno di non appartenere a
nessun luogo se non ad una Sarajevo ridotta ad un fantasma del passato:
si era trasferito in Canada (nel Québec, e mi scrive che non sapeva che
anche quel fottuto Québec vuole separarsi, ma adesso lui non vuole più andare
da nessuna parte
)
Il romanzo rosa creato dai quotidiani che hanno “puntato gli occhi”
senza vedere è in realtà un atto di disperazione: la decisione di due persone
di tornare dove giacciono i morti che non si possono abbandonare.
Una speciale menzione va a “Naufragio” di Martha Elvira Patiño, già
premiata in passato per un racconto a quattro mani. Martha Elvira Patiño riesce
con il suo nuovo racconto a creare una straordinaria sintesi tra i miti del
passato e quelli del presente. Riscrive l’Eneide come il viaggio di un moderno
immigrato che parte dalle coste abbandonate da Enea e compie una revisione del
mito virgiliano della nascita di una civiltà sulla penisola italiana. Gli
immigrati di oggi, cacciati da guerre o per ragioni economiche dal loro paese
natio, si spostano come novelli Enea e traducono la loro tradizione in una
nuova cultura creando qualcosa di diverso che guarda al futuro.
Al centro di questo racconto c’è anche l’inevitabilità del viaggio,
della contamina-zione culturale e linguistica come eventi imprescindibili.
Tayeb Salih, scrittore del Sudan, racconta in un suo romanzo dedicato alla
migrazione le avventure di africani venuti in Europa verso la metà del
ventesimo secolo. Uno dei due protagonisti ritorna in Sudan e prega l’amico di
badare ai suoi figli:
Mi aveva chiesto di risparmiare ai suoi figli i tormenti creati dal
desiderio di viaggiare. Non avrei fatto niente del genere. Quando sareb-bero
cresciuti se avessero avuto voglia di viaggiare, glielo avrei permesso. Tutti
comin-ciano dall’inizio di un percorso e il mondo è in una condizione di
infanzia infinita.8
Il racconto della Patiño è complementare alle affermazioni di Salih: il
viaggio, la migrazione sono elementi inevitabili di un mondo che è solo
nell’infanzia di grandi cambiamenti portati appunto dalle traslazioni umane tra
continenti.
Un altro racconto con menzione speciale è “Il lunghissimo volo di
un’ora” di Amik Kasoruho. L’autore ci parla del costo del dissenso politico per
il reo di opinione in un paese senza libertà di parola. Il dissenso politico
getta nella povertà e marginalità anche la famiglia di chi si è macchiato di
tale colpa. Il protagonista del racconto è un traduttore nel suo contesto
culturale della filosofia gramsciana della praxis, filosofia che teorizza le
contraddizioni all’interno della società; ma i suoi ideali lo hanno portato in
prigione. Una volta ritornato a “casa” il protagonista tocca con mano il prezzo
del suo dissenso nella condizione di povertà della madre e non gli rimane che
il viaggio, l’esilio, la migrazione come unica alternativa e possibilità di
futuro.
Questa antologia contiene anche i testi inviati dai protagonisti di
precedenti edizioni del concorso Eks&Tra. Questi scrittori testimo-niano
ancora una volta il loro ruolo di parte-cipanti e di narratori dei mutamenti
culturali portati dalla migrazione in Italia.
Nel loro ruolo di intellettuali, filosofi non specialisti, li chiamerebbe
Gramsci, i parteci-panti alle cinque edizioni del concorso Eks&Tra, come
anche altri scrittori immigrati, hanno fornito una produzione culturale che
rispecchia ed analizza dall’interno le storie e la Storia di questa fine di
millennio. La loro posizione privilegiata, ma certo non facile, che fa di loro
testimoni in prima persona, ha dato un contributo indispensabile alla
narrazione e critica della letteratura italiana contemporanea.
Il mio è certo un commento di parte, ma il premio letterario Eks&Tra
ha direttamente contribuito alla raccolta di quel materiale culturale che
documenta gli anni Novanta e rappresenta sia il profilo multiculturale del
presente, che la traccia degli sviluppi futuri.
Note
1 Italo
Calvino, “Un generale in biblioteca”, in
Prima che tu dica “Pronto”,
Mondadori, 1993,
p. 67.
2 Ibid. p.
72.
3 Syria
Poletti, Gente con me, curato da Claudia
Razza, Marsilio, 1998, p. 163.
4 Vedere: Enzo Natta, “I ragazzi di borgata
inseguono un sogno”, “Famiglia
Cristiana”, n.
17, 1999, p. 120.
5 “Alias”,
n. 17, 1999, p. 9.
6 Guglielmo
Ragozzino, “Gli incerti limiti della
sicurezza: Una ricerca sul
rapporto tra
criminalità e immigrati”, “Il
manifesto”, 14 aprile 1999, p. 21.
7 Edoardo
Albinati, Maggio selvaggio: Un anno
di scuola in galera, Mondadori,
1999, p. 102.
8 Tayeb
Salih, Season of Migration to the North,
tradotto dall’arabo da Denys
Johnson-Davies,
Lynne Rienner Publisher, 1997, p.
88. Chiedo scusa, la mia citazione è una mia traduzione dall’inglese, quindi
una traduzione da una traduzione, ma la mia conoscenza dell’arabo è
inesistente.