Io
marocchino
con due kappa
I
Una
lettera scritta sul muro
Cara Paola,
Ti scrivo questa lettera da
Lagos, la capitale della Nigeria che si
trova sulla costa occidentale dell’Africa, a circa 2.000 km di distanza dal mio
villaggio: Ben Mellal. Non è stato il genio della lampada magica a portarmi fin
qui, come magari pensi tu, ma un equivoco “involontario” dell’ufficio stranieri
in complicità con un’agenzia di viaggi.
Lo so che adesso invocherai
tutti i diavoli per mandarmi una maledizione, e in un momento di follia, forse
metterai sotto i piedi la cornice con la fotografia che ricorda la nostra
visita a “Mirabilandia”: se questa è la tua intenzione, ricordati che il mio
cuore scoppierà di tristezza. La difficoltà vera consiste nel sapere esprimere
ciò che si sente e si pensa, ma le cose rimangono rose primaverili che
germogliano sul davanzale della finestra della fantasia, perché questa storia
non è vera, ed io non ti ho mai conosciuto, sei spuntata nella mia immaginazione
in una notte fredda nell’autunno del 1989.
Un proverbio orientale dice
che Dio quando creò l’universo, volle che tutti gli esseri viventi fossero
piccoli in principio, per crescere in armonia con la natura; solo i dolori li
ha creati grandi e immensi, e poi ha creato il tempo per non farci accorgere di
quel suo effetto insopportabile: dove c’è il dolore la memoria è più fertile,
ma siccome la tragedia perde la coscienza di sé e si trasforma in un’analogia
di orizzonti costante e malinconica, che vedi ovunque quando muovi i tuoi occhi sbalorditi, ciò ci permette di
staccarci dalla realtà e fare un bel tuffo al di fuori della nostra me-moria
stagnata.
Io, nello staccarmi da
quella realtà assurda, avevo la nostalgia di trovarmi in mezzo ad un sogno infinito;
in fondo ho pensato quasi sempre che si trattasse di una fiaba raccontata
vicino ad un camino – mentre fuori la pioggia insisteva e il vento forzava le
finestre – per riscaldarsi un po’
ma tutto ciò è stato avvolto da uno
spiraglio di attimi fuggenti, eravamo tanto vicini che sentivo il tuo alito
scaldare le mie guance, e tanto lontani che mi apparivi come uno spirito
vissuto in un tempo remoto. È vero che non ti ho mai conosciuto, e non ricordo
nemmeno il colore dei tuoi occhi, e neppure la misura delle scarpe che
indossavi. Un giorno mi avevi detto che l’amore è una grande bugia nutrita
soprattutto di rancore, proprio il giorno nel quale mi avevi regalato il
Kamasutra: io non ti avevo mai chiesto di amarmi, perché con tutti i tuoi
sforzi, i tuoi istinti e le tue emozioni che ti tradivano ripetutamente, eri
orgogliosa a tal punto da non piangere sul mio petto accarezzando i miei
capelli. Ma quando fingevo di dormire lasciavi scorrere le tue lacrime sulla
mia pelle assetata del tuo calore; e non ti dicevo nulla la mattina seguente,
anche tu avevi paura di affrontare la vita e nascondevi i tuoi sentimenti per
non avere la sensazione di chi è sottoposto ad un desiderio che contrastava i
suoi ideali.
Oggi noi due ci siamo
svegliati da un sogno profondo, non siamo pronti a rinunciare ad una felicità
mancata, vagheremo sotto un cielo pallido come due uccelli stonati, batteremo
le ali finché la terra o il mare abbraccerà i nostri corpi. L’hai voluto tu, mi
avevi chiamato e adesso non so dove andare! Sono stato soltanto l’ombra
scolorita di me stesso, non ho potuto sradicare l’altra metà dell’io
arrampicantesi dietro delusioni interminabili.
Sinceramente, vorrei che tu
fossi in grado di valutare in modo corretto la nascita e la morte di un amore
spinto via prima che facesse la sua prima uscita sul podio deserto.
A dire il vero, forse anche
noi due avremmo voluto che le cose andassero
così, non so perché sto complicando questa faccenda, malgrado fosse
tutto uno scherzo, come un pinguino che ha deciso in un momento di follia di
passare le vacanze nel Sahara.
Il vento non segue le
regole, è il vagabondo eterno che orbita attorno alla nostra esistenza, noi
abbiamo preso l’aspetto e l’anima della natura: nel cuore della notte profonda,
ci infiliamo con la punta dei piedi ad ascoltare la sinfonia delle stelle tra
le dune, e il silenzio che mette allegria sui nostri corpi nudi, dove i raggi
ci avvolgono come serpenti trasparenti; l’uomo dovrebbe attendere senza sapere
il significato di questa attesa, forse perché colmo di saggezza, ma delude
l’anima come un eremita tornato a mani vuote nel suo convento, con gli occhi
fissi su una finestra che si affaccia sul nulla.
Ho dovuto interrompere la
scrittura per mezz’ora, perché l’autorità locale ha voluto fare degli accertamenti
sulla mia persona, quelli dell’agenzia di viaggio (due giovani vestiti con
bermuda, T-shirt, e cappelli da baseball) se ne sono lavati le mani di me, e
per giunta hanno messo per iscritto la loro totale estraneità alla mia presenza
nel gruppo turistico dell’agenzia, inoltre anche le prostitute, che erano a
bordo dell’aeroplano, hanno negato con disprezzo di conoscermi come se fossi
uno dei loro protettori in Italia, e questo non è piaciuto affatto alla
polizia, perché erano pronti a compilare un verbale in questo senso. Adesso
l’ufficiale mi ha chiesto qualche ora in più per svolgere accertamenti più
accurati sul mio passaporto, visto che la mia fisionomia è assai diversa dalla
loro; per di più io non parlo nemmeno uno dei 250 dialetti diffusi in questo
paese e non ho un soldo in tasca e proprio per questo motivo si è scatenata la
rabbia di qualche poliziotto.
Ho capito bene dai loro
sguardi che mi stanno preparando un’accoglienza particolare e ho complicato la
situazione denunciando lo smarrimento della mia valigia.
Comunque approfitto della
loro momentanea lontananza per proseguire questa lettera: nel frattempo devo
riflettere su una via d’uscita, prima che sia troppo tardi, a proposito della
nostra relazione infelice o troppo felice: non riesco a trovare un termine
giusto.
Noi non abbiamo fatto o
pensato di fare le cose nei tempi e nei termini giusti, partendo dalla
decisione unilaterale di regalare al mondo un bambino multirazziale per
soddisfare la volontà del partito: questo bambino crescerà senza padre – a meno
che non si verifichi un fatto sorprendente come l’adesione del Marocco alla
Comunità Europea (se ciò accadesse annulleremmo per sempre la teoria che divide
il destino dalla politica).
Tu avevi tante cose da
dimostrare, invece io avevo tante cose da nascondere, e in un certo senso
addirittura da eliminare. È brutto sentirsi sempre un outsider, anche nei
momenti felici e quando ti dimentichi che non lo sei, ridendo a due centimetri
dal tuo naso. Sentivo di non avere la facoltà di rispondere, avevo il timore di
essere isolato, discriminato, pregiudicato, o tutto quello che serve per far
tacere un rompiscatole. L’orgoglio è come un valore assorbito da tanti
cedimenti; ad un certo punto diventato come una spugna usa e getta; ecco forse
trovo qui un punto d’appoggio che consiste nella tua capacità di indovinare al
volo la situazione e cambiare drink e look al momento giusto. Diciamo la
verità: io ho passato tanto più tempo ad osservare che ad imparare, in fondo
non sapevo cosa imparare. Occorreva una infanzia intera in periferia per
capire perché e come e dove si
nascondevano gli atti distruttivi di una cabina telefonica dopo la mezzanotte,
guidare la tua prima macchina rubata
facendo le corna alla polizia dal finestrino.
I tuoi genitori sono stati
contenti soltanto quando è nato nostro figlio, e subito hanno deciso di
regalare il loro cane ai vicini: adesso hanno un giocattolo più affettuoso che
sa pronunciare il nome del nonno e della nonna, e non si annoiano più quando
vanno a fare le passeggiate al giardino pubblico. Io ero e rimango un mezzo
utile per arrivare a quel risultato: come sappiamo tutti, la buon’anima di
Machiavelli aveva già sottolineato questo, almeno cinque secoli fa.
Mi ricordo il giorno che mi
avevi presentato a loro: erano così imbarazzati, come se avessero appena visto
“Indovina chi viene a cena”. Le parti sono state recitate benissimo: io non ho
saputo recitare nemmeno il mio nome, ero Marco e basta, un nome inventato da te
in un momento allegro, dovevo stare al gioco, non lo so perché, forse per
limitare la mia inferiorità che guarda caso sento ora più forte che mai. La
tenerezza e la dolcezza come gli abiti cupi che si estendono sui pendii di una
collina non danno il loro flusso agli occhi bendati di calma ed ironia: abbracciamo
la stagione che esalta la sua bellezza; nell’inverno regna soltanto il rumore
di foglie morte e nuvole che tintillano con le loro lacrime sugli alberi nudi.
In quella città che amavi
fino alla follia, io non ho trovato un posto per le mie radici, né terra
fertile per un’idea che cresceva dentro di me: tutto mi appariva bello, anche
quei vicoli isolati e pieni di odori di tristezza, e i volti stanchi per lo
smog e l’ostilità della vita quotidiana. Li osservavo senza tregua dalla
finestra del tram e nelle stazioni della metropolitana, tra le folle che non
finiscono mai: sorrisi che germogliavano all’improvviso e gridi che svanivano
nel silenzio della notte. “Bella la vita”, mi avevi detto mille volte, io non
ne ho ancora visto niente: riconosciamo i nostri difetti con sincerità, perché
anche questo fa parte del gioco. La maschera trasparente dietro cui ci
nascondiamo per evitare lo scontro non ci serve molto per superare la nostra
impotenza, né la strafottenza di tutti i disastri del mondo.
Se l’Africa ha scelto il suo
colore non è mica il caso di incazzarsi nero. Nero, nero
bello come l’ebano,
ma solo dietro una vetrina colorata, senza volto emerge sui marciapiedi, sa
dell’odore dell’asfalto e dell’indifferenza del tempo. Dio sarà in qualche
parte della civiltà, siamo così piccoli che non ci rendiamo nemmeno conto del
nostro crollo verticale e orizzontale.
Il mondo è come i tuoi
occhi, nella loro profondità c’è sempre lo spiraglio di una speranza delusa,
anche per le strade di questa città – come nel deserto – non mancano i miraggi,
né i sogni sperduti nel buio di un sottopassaggio, o tra le nuvole che toccano
i tetti delle case; certo che ci siamo anche noi, mi avevi chiesto di imitare i
passeri sotto la pioggia, e il miagolio del gatto “Testone” che abita nel
cortile, e di mangiare la pasta calda, e chiudere bene la porta del
frigorifero: qui tutto costa e tutto rende; solo le anime non sanno adattarsi
alla situazione imprevedibile, forse per motivi ambientali! Alziamo più in alto
il vessillo verde e mangiamo meno carne, anche perché l’epoca degli hamburger
sta tramontando, le tue parole rimangono senza età, colorate e pittoresche,
scintillano ma non rendono chiaro nemmeno un passo dentro questo tunnel
tenebroso.
L’imprevedibilità dei
comportamenti umani trova in questa oscurità una spina che fa male. Frugando
nel passato troviamo chi ha detto: “Io non sono im-menso, non credo in questo
sole che causa il cancro alla pelle; in realtà si dovrebbe far sì che la vita
valga la pena di essere vissuta, ma quale vita!”
La fantasia è così nitida da
far apparire come reali delle cose solo immaginate. L’immaginazione potrebbe
essere anche il pane dei poveri. Questo spiega in un certo senso perché tanti
geni dell’arte sono morti cercando tra le allucinazioni e ipotesi folli quel
pane introvabile; ma intanto i giapponesi sono riusciti ad usare le vacche come
veicoli pubblicitari con scritte colorate sul manto degli animali. Era più o
meno come la tua idea geniale: “Perché non usano i vu cumprà come cartelli
pubblicitari mobili invece di lasciarli vagare così per le strade, o, nel
migliore dei casi, a lavare i vetri alle macchine?”
Il senso del business ha
superato un’altra volta la fortezza ideologica. Sono stato felice di sentire
l’urlo del vagabondo che abbiamo incontrato all’uscita dalla discoteca; gridava
con allegria: “Siamo l’avanguardia dell’umanità!”, mentre il cane gli leccava
la barba finta con entusiasmo: avrà capito quello che intendeva il suo padrone?
Sono le cinque, il chiarore
dell’alba incomincia ad insinuarsi dal finestrino in alto. Pochi minuti fa ho
sentito i gridi di qualcuno, aveva la voce roca e soffocata: non lo so se
questo mi ha dato il coraggio di preparami al peggio. Qui di solito ti
picchiano, diciamo che fa parte della tradizione, innocenti o colpevoli: i
conti si pagano. Ho coperto con questa mia lettera un bel pezzo di muro, ecco
un altro motivo per una punizione inevitabile.
Il rimorso interiore
continua a sollecitare ancora gli ultimi pezzi di una catena lunga di
delusioni. Certo perché avevo perso il paradiso promesso perché ti avevo perso
per sempre, questo amore troppo cinico e prefabbricato per resistere ad una
distanza così enorme: i corpi non sono sufficienti per riscaldare l’amore, mi
avevi detto una volta:
“Ci vogliono anima e corpo per
stabilire il flusso dell’emozione e integrare i sentimenti, in modo che
appaiano più o meno come la tenerezza incantevole di un’alba che tu non hai
visto mai.”
Da oggi in poi, cercherò di
mandare in pensione il mio apparecchio ultraillusionista, che – durante questo
periodo – ha prodotto sogni ed altri tanti guai.
Mi accontenterò della mia
memoria, dove sono rimasti gli ultimi frammenti di ricordi veri e falsi, non so
se ti troverò dentro ad essi, ma ti prometto che ti amerò, o meglio che ti
odierò, e fra un ricordo e l’altro, mi accontenterò di vedere tra le nuvole, il
tuo volto tenero, dolce, cattivo, pieno di rabbia e tenerezza, esattamente come
ti avevo incontrato per la prima volta.
II
La
frontiera
C’è chi legge versi dal Corano, e c’è chi si trascina
sull’erba e tra i cespugli come un serpente, l’importante è non farsi
acchiappare come un coniglio; un veterano clandestino, molto rispettato nel
nostro villaggio per aver varcato la soglia dell’Europa quando aveva sedici
anni, ha attraversato durante la sua avventura ben venti frontiere, dalla
Spagna fino alla Turchia, via terra e via mare, è stato preso solo per una
volta dai bulgari, l’hanno trattato come una spia, ed in una notte di inverno,
tra temporali e i lampi dei tuoni, l’hanno gettato come un sacco di patate a
due passi dal valico che conduce verso la Turchia, “in quell’occasione avevo
perso quattro denti, e mi hanno lesionato l’udito” (il barbiere Belhaj giura
che li aveva tolti lui prima che partisse per l’Europa, ma nonostante ciò, noi giovani
eravamo d’accordo di non toccare quella leggenda. Per noi, non era solo una
guida oltre il confine, ma anche oltre la fantasia, era come un guerriero
stanco che desiderava passare il resto della sua vita nutrendolo di ricordi e
avvenimenti mai successi).
Prima di salire sull’autobus
che parte per Tangeri, mi fermò e mi disse: “Portami al tuo ritorno un paio di
jeans, io non ho mai avuto i soldi per comprarli”.
Le ultime parole erano
sussurri timidi, aveva vergogna di essere sentito da qualcuno, io non gli avevo
promesso niente, avevo in mente un’altra sorpresa, forse un completo con una
camicia bianca per assistere ai matrimoni, o una tabacchiera con smalto d’oro,
egli merita sempre qualcosa di più. Stranamente, arrivato in Svizzera, non
avevo in mente nulla che mi facesse ricordare il villaggio a causa di uno shock
totale: era tutto bello e perfetto, strade pulite e uomini prefabbricati, sanno
perfettamente distinguere la loro esistenza dagli altri, con lucidità e
determinazione implacabile, camminano a passi svelti, il corpo eretto e gli
occhi pieni di soddisfazione, l’interpretazione completa della volontà di Dio:
“Chissà come vivono a casa?”
Questo shock non mi è
passato senza effetti collaterali. Infatti incominciai subito a trascinarmi
dietro progetti e sogni incalcolabili, ero quasi sicuro che tutto si sarebbe
potuto fare al mio ritorno al villaggio: case, fabbriche, strade pulite, e
tanti giardini che permettono ai bambini di giocare. Questi sogni non mi hanno
mollato neanche durante il mio viaggio per l’Italia; la mia guida era un
ragazzo polacco dagli occhi azzurri spenti, e capelli a caschetto biondi.
Camminava a qualche metro di distanza davanti a me, mi ha rivolto la parola
soltanto due volte: una volta per chiedermi il suo compenso, e l’altra, quando
siamo arrivati in prossimità di un paesino, dove dalle case proveniva una luce
pallida: “Ecco l’Italia, dopo questo paesino c’è Como, da lì puoi prendere il
treno per Milano. Buona fortuna!”.
Gli ho stretto la mano
ringraziandolo, avevo grande stima per i polacchi da quando avevo letto la
descrizione di Tolstòj, dei coraggiosi cavalieri polacchi che attaccavano
l’armata di Napoleone e costringevano a indietreggiare la loro avanzata sulla
terra della madre Russia; poi anche il papa è polacco, e senza dimenticare quel
baffo simpatico di Lech Walesa, che ha fatto la sua strada dalle miserie dei cantieri di Gdansk, alla poltrona di
presidente della repubblica. Sono arrivato al paesino alle 6.30 circa, la piazza
era ancora addormentata, e un furgone della distribuzione del latte era fermo
davanti ad un bar. Scaricava delle cassette piene di bottiglie di latte.
Dentro il bar c’erano due
clienti, il primo indossava una tuta blu e aveva l’aria malinconica, e l’altro
un po’ più anziano sorseggiava il suo cappuccino con grande entusiasmo, e ogni
tanto si fregava le mani come se imitasse gli indigeni quando accendono il
fuoco con un ramoscello secco. Ho ordinato un caffelatte e la proprietaria
mentre me lo preparava, non ha smesso di osservarmi con la coda dell’occhio.
– Quanto è distante Como da
questo paese? – dissi io.
– Per andare a Como, devi
passare la frontiera – mi ha risposto l’uomo anziano indicandomi un palazzo che
si vedeva in fondo alla piazza senza nascondere un sorriso ironico; mi sono
avvicinato alla vetrata e ho guardato bene in quella direzione. All’inizio non
ho notato niente di particolare, ma alzando gli occhi verso il cielo, ho visto
la bandiera svizzera che sventolava in cima ad un edificio, “allora abbiamo
sbagliato strada!” ho pensato meravigliandomi.
– Capita spesso
questo lo
chiamano il labirinto del bosco
giri
giri
e sempre ti trovi nello stesso
posto – continuò l’uomo anziano guadandomi direttamente negli occhi:
– E adesso che fai?
E anch’io mi facevo la
stessa domanda, il polacco si è perso, era troppo buio, e non abbiamo visto
nemmeno la luna, chissà dov’è finito?
Il paese era troppo piccolo
per nascondersi. In quel momento si era fermata una pattuglia di polizia
davanti alla chiesa, e i due poliziotti che si trovavano sull’auto, mi avevano
osservato a lungo.
Belhaj mi ha raccontato
anche di questo: “la polizia non ti arresta se non hai commesso un reato, ma ti
tiene spesso sotto controllo”. È già un grosso vantaggio: uno se vuol
commettere un reato, non è mica scemo da farlo sotto i loro occhi, basta
aspettare che si levino dai piedi.
Un prete mi disse indicando
l’orologio: “È troppo presto per la mensa, oggi si dà un piatto di fagioli ed
un pezzo di formaggio”.
Erano le nove e venti
minuti, non sapevo esattamente cosa fare, restare in Svizzera, o passare la
frontiera per l’Italia? Era evidente che dovevo scegliere la seconda soluzione,
tutti quelli con cui avevo parlato a Tangeri e in Spagna mi avevano detto la
stessa cosa: “Gli svizzeri?
non ti tratteranno mai come i loro cani
poi
i
laureati del Bangladesh e dell’India fanno gli scopini
pensa tu?”
Quando mi sono allontanato
dalla piazza, mi è sembrato d’aver visto qualcuno che mi stava seguendo, nelle
vicinanze di un deposito enorme di cereali ne è saltato fuori un’altro, era
della mia razza, capelli ricci, viso asciutto e abbronzatissimo e due occhi
neri quasi rotondi, nel frattempo, quello che mi stava seguendo, era già dietro
di me.
– Seguimi
mettiamoci
lontani dagli sbirri – disse il primo in dialetto algerino.
In un nascondiglio dietro il
capannone, c’erano delle scatole vuote
con attorno dei pneumatici di trattori. All’interno di essi era stesa una
coperta vecchia e fogli di giornale, appiccicati sull’asfalto a causa della
pioggia, e sopra di esse, erano gettate un mucchio di lattine vuote e mozziconi
di sigarette.
– Allora vuoi passare la
frontiera? – chiese l’algerino con un sorrisino mostrando i suoi denti gialli.
– Sì avevo tentato ieri.
– È stato il polacco, non è
vero? Quanto l’hai pagato?
– Quel bastardo drogato –
intervenne lo slavo alzando il pugno in alto.
– Duecento franchi
ma
credo
– non riuscii a terminare la frase, il loro sorriso si trasformò subito
in una espressione rabbiosa.
– Ti ha fregato
hai capito?
Baio
quel polacco ha fregato il mio paesano
lo sai cosa vuol dire questo? è
un’offesa per me.
– Sì
dobbiamo trovarlo
ma
sarà troppo tardi, perché senz’altro si sarà bucato con quei soldi.
– Eh
è vero
ma lo
troveremo prima o poi
è possibile che andiate tutti a capitare con quel
bastardo.
L’aria dispiaciuta
dell’algerino non ha convinto molto Baio, si è girato la testa nascondendo un
sorriso enigmatico, ma in certi momenti, uno non può perdere la fiducia verso
gli altri. Ero consapevole che la mia corsa verso la speranza, sarebbe stata
faticosa e rinchiusa in sé stessa, come una fatina diffidente della sua ombra
che riflettesse dalla superficie di una laguna color cristallo; il coraggio
conta più o meno come l’indifferenza, le radici della pazienza sono molto più
forti di una reazione piana di esitazione, il momento magico finisce spesso con
una parola indovinata, un gesto che sa stimolare anche le sensazioni
– Paisà
L’algerino non aveva
dimenticato quel tono che usavano i contadini mentre tornavano dai pascoli, i
suoi sguardi erano identici a quelli degli ospiti che facevano sosta nel
villaggio per trattare la vendita di terreni o bestiame, umili e penetranti, ma
senza attraversare il limite concesso dal padrone di casa: la gente lì è
abituata a rispettare le regole.
– Paisà c’è l’hai i soldi?
– Sì perché?
Esitò per un attimo, scambiò
uno sguardo veloce con Baio e disse con voce timida:
– Non abbiamo mangiato
niente da ieri – e aggiunse dopo un breve silenzio: – Adesso ho capito perché i
nostri consideravano il pane come un dono sacro da Dio, senza quel pezzo di
pane l’uomo non vale niente.
Io durante la predica
dell’algerino ero impegnato in altri calcoli: sì che avevo i soldi, ma quello
che mi faceva paura era il domani, i soldi non arrivano da una sorgente, come
diceva il mio nonno, ma da ruscelli di sudore, d’altronde, non potevo negare
qualche franco a quei due sperduti, per comprare qualcosa da mangiare.
– Il piano è così
– disse
l’algerino, mettendo in mezzo tutta la sua autorità quasi spinta – adesso
andiamo in un negozio di generi alimentari che si trova a poca distanza da qui,
comperiamo un po’ di pane e formaggio, più tardi sceglieremo l’ora giusta per
passare il confine, va bene?
– Va bene.
– Questo ti costerà cento
franchi
ho chiesto così poco, perché tu sei un mio paesano, hai capito?
L’algerino poteva chiedere
anche centocinquanta franchi, io ero disposto a dargli quella cifra, perché
avevo ancora in tasca duecentoquindici franchi, e d’altronde non erano troppi
per raggiungere il mio obiettivo senza perdere molto tempo.
Ma forse lui chiedendomi
quella cifra, aveva preso in considerazione la spesa del mangiare: quel poco di
pane e formaggio mi sono costati ben 45 franchi, al supermercato hanno aggiunto
sul carrello sei birre, un pollo allo spiedo un chilogrammo di pomodori, tre
pacchetti di Marlboro, ed una rivista pornografica che ha preso Baio al nostro
arrivo alla cassa senza badare al rimprovero dell’algerino, e ai miei sguardi
fulminanti. Il bosco non era molto lontano dal paese, a metà strada abbiamo
trovato una pattuglia di polizia che ci scrutava da un sentiero parallelo.
– Vogliono essere sicuri che
ci dirigiamo verso l’Italia, l’importante è non rimanere nel loro territorio.
Commentò l’algerino facendo
loro cenno con la mano, infatti, dopo qualche minuto si sono fermati presso un
ponte, e ci hanno osservato a lungo, mentre noi ci inoltriavamo verso il bosco.
“Puoi fidarti sempre d’un
uomo affamato, ma mai d’un uomo a stomaco pieno”. Mio nonno ripeteva quei
proverbi solennemente quando discorreva con i giovani del villaggio; deve
essere un tesoro che io non ho saputo apprezzare. Mentre guardavo l’algerino e
Baio, mi sentii come un veggente che aveva la capacità di vedere al di là della
realtà.
Tutto è incominciato appena
abbiamo finito di mangiare. Le lattine di birra erano sparse qua e là tra i
rifiuti del mangiare e i sacchi di plastica si spostavano da una parte
all’altra secondo la direzione del vento. Erano sdraiati come due lupi che
hanno appena finito di divorare la loro preda, ma al contrario dei lupi che
dopo la caccia, dimostrano una certa tranquillità, e preferiscono riposare in
un posto fresco, questi due, avevano l’aria troppo agitata. Non so, mi è
sfuggito il primo gesto che è partito da uno dei due, che ha fatto accendere il
fuoco tra loro.
Ad un tratto ho visto
l’algerino che si lanciava contro Baio, colpendolo con un ramo sulla spalla;
all’inizio, Baio non reagì, e forse questo ha dato più coraggio all’algerino di
moltiplicare i suoi colpi sulle braccia, e sulla testa, poi con un colpo secco
sulla gamba, il ramo si spaccò in due, e un grido rauco si rivelò nell’aria
“gli ha rotto la gamba!” pensai immobile.
Per fortuna avevo sbagliato
giudizio, perché Baio, dopo lunghi gridi e smorfie di dolore, si alzò e si
avvicinò zoppicando al ruscello, e come se fosse abituato a certi atti di
violenza, si tolse con calma gli zoccoli e mise i piedi nell’acqua e con un
fazzoletto sporchissimo cominciò a pulire il sangue che scorreva a piccole
gocce sulla sua fronte lasciandomi in uno stupore profondo, si rivolse verso l’algerino
sorridente e disse:
– Guarda fratello
ci sono
dei pesci qui!
– Sì sono grandi?
– Per fare una buona
grigliata ci occorrono due o tre centinaia di loro
ha ha ha
L’algerino si inginocchiò
accanto a lui, appoggiando il braccio sulla sua spalla, e scoppiò in una risata
isterica al solo vedere i pesciolini che scappavano in tutte le direzioni
quando Baio agitava l’acqua con i piedi. I pesciolini facevano movimenti a
stacchi, scomparivano dietro una pietra e, poi apparivano di nuovo; questo loro
gioco era così divertente che tutti i due sono caduti indietro dalle risate con
le lacrime agli occhi.
Il cielo aveva un colore
azzurro limpido, e un filo di brezza si insinuava tra gli alberi in una armonia
unica con il ballo silenzioso delle foglie morte. Forse questa atmosfera
rilassante li ha ipnotizzati in un
sonno che durò fino alle quattro del pomeriggio; io ho approfittato di questo
intervallo e ho fatto un vasto giro nei dintorni, sperando di incontrare
qualche scoiattolo, ma mi sono accontentato di ascoltare il canto delle cincie
e dei passeri che affollavano gli alberi, e poi mi sono lavato con l’acqua del
ruscello e sono tornato al mio posto sotto l’albero.
Al loro risveglio hanno
cercato subito il mangiare in un sacchetto. C’erano ancora del pane e un
pomodoro che l’algerino ha mangiato lasciando a Baio una fetta di formaggio.
Dopo di che, hanno fumato due sigarette
una dietro l’altra a sospiri profondi e con grande entusiasmo.
– Paesà
quanto ti ha
fregato quel bastardo po-lacco?
Si rivolse a me l’algerino
parlando ad occhi semichiusi imitando in un certo senso Humphrey Bogart, ma il
suo sorriso nascosto, non era in sintonia con la familiarità delle sue parole.
– Duecento franchi.
– Lo sapevo
Baio
ti giuro
che lo sapevo
perché questi idioti dei miei paesani cascano sempre come gli
asini
guardalo là
guardalo bene
marocchino di merda, si fa fregare da un
polacco tra l’altro drogato
ma che cazzo sei venuto a fare in Europa?
allora
perché non sei rimasto in quel villaggio pidocchioso?
La furia dell’algerino non
aveva l’aria di fermarsi in quel punto, e gli occhi di Baio hanno preso uno
scintillio diabolico. Era evidente che cercava la rivincita delle botte che
aveva preso dall’algerino. Io senza guardarli, e con un gesto indifferente, ho
toccato il coltello che avevo nella tasca del giubbotto, e con la coda
dell’occhio, ho esaminato una postazione in alto, dietro un tronco d’albero, là
dove potevo avere il vantaggio su di loro. Il posto che avevo scelto, era anche
pieno di pietre. Come avevo intuito, si alzarono con aria minacciosa.
– E a noi vuoi dare soltanto
cento franchi? – disse l’algerino appoggiando le mani sui fianchi.
– Tu sei un beffardo di
merda
quanti soldi hai in tasca?
– Questo non ti riguarda.
Io, rispondendo così, mi
sono avviato a passi velocissimi verso il tronco tirando fuori il coltello
dalla tasca, loro hanno tentato di tagliarmi la strada, ma quando ho fatto un
bel taglio col coltello sul giaccone di Baio, ci hanno pensato un po’ prima di
seguirmi. Io guadagnando quei pochi secondi, sono riuscito ad sistemarmi in una
linea di difesa che era sufficiente per assorbire il loro attacco; Baio ha
preso in mano un ramo che aveva staccato in fretta da un’albero, e si è diretto
sul lato destro, mentre l’algerino, che era a mani vuote, si è diretto sul lato
sinistro, mettendo in pratica il piano che usavamo nel nostro villaggio per
catturare i vitelli che scappavano dal mercato del bestiame. A quel punto, e
dopo calcoli misurati, ho dovuto reagire subito, prima che mi schiacciassero a
tenaglia.
Io con le mie mani di
pastore abituato bene ai lanci di pietre, sono riuscito a colpirli al primo
lancio, obbligandoli a ritirarsi fino alla sponda del ruscello; scoprendo
questa arma micidiale, anche loro si sono nascosti dietro gli alberi e hanno
cominciato a lanciarmi una pioggia di pietre piccole e grandi, e tutto quello
che gli capitava sotto le mani. Invece io, guadagnando più tempo, sceglievo
quelle aguzze e di misura media. Questi tipi di pietre le chiamano da noi
“pietre sibilanti” perché mentre girano su sé stesse, fanno un rumore che serve
per far paura alle pecore quando il pastore le vuole allontanare da un campo di
grano.
Non erano neppure dei buoni
lanciatori, al punto che mi hanno fatto pietà: in un’altra circostanza, avrei
potuto insegnargli bene come si prende una pietra in mano, e la posizione del
lancio secondo la distanza dell’obiettivo. Dopo nemmeno un quarto d’ora si sono
stancati, e pensando che ero distrutto, commisero un errore tattico troppo
ingenuo, avanzando avanti zigzagando tra i cespugli
Era proprio quello che mi
aspettavo. Questa volta l’algerino era a destra. Avevo scelto una pietra
rotonda di misura media adeguata alla forza della mia mano destra. Fu un lancio
tremendo, la pietra rotolando su sé stessa a forte velocità, l’ha colpito sul
petto. La botta è stata così forte che l’algerino è caduto per terra senza
riuscire a dire “ahà”. Baio si è accorto dell’errore, ma ormai era troppo tardi
per lui. Non ha avuto nemmeno il tempo per girarsi e scappare. Per lui, avevo scelto
una pietra solida e aguzza da un lato solo e gliela ho lanciata di fianco.
Questo lancio è uno dei più difficili tra tutti quelli che praticano i pastori
e ci vogliono anni prima di riuscire a perfezionarlo, il colpo l’ha preso in
piena schiena, si è fermato un attimo, e poi è crollato sulle ginocchia. A quel
punto sono sceso giù prima che organizzassero un contrattacco, e ho puntato il
coltello sull’algerino costringendolo ad avvicinarsi all’altro.
– Siete due bastardi e
luridi figli di cagna
– dissi a loro con grinta.
La mia rabbia non era ancora
placata, perciò continuai gli insulti accompagnati da calci, pugni e schiaffi
senza dare loro il tempo di girarsi all’indietro.
– Ascoltatemi adesso
io ho
la mappa della strada, voi dovete dirmi qual’è la strada più corta per
l’Italia, Ponte Chiasso, oppure Bizzarone? Attenti a non dirmi bugie, perché
veramente vi ucciderò volontariamente
– Tu da solo non ce la
farai
ti accompagneremo noi.
Baio ha meritato subito due
calci per la sua risposta, dopotutto avevano ancora l’intenzione d’ingannarmi.
– Tu stai zitto
algerino
dimmi tu
o forse non ti piace la vita?
– Ponte Chiasso.
– Alzati! – gli ordinai
tenendolo alla nuca.
Avevo sentito che quella
strada è tra le migliori, ma avevo bisogno delle indicazioni precise per non
perdere molto tempo.
– Indicami la direzione.
– Segui la linea
ferroviaria
quella che vedi giù in fondo.
– Poi?
– Prima di arrivare alla
frontiera
cioè al punto di controllo
devi deviare a destra verso la rete che
divide il confine
c’è più di un passaggio verso l’Italia.
– Tutto qui?
– Sì.
Ero quasi sicuro della sua
indicazione; la linea ferroviaria andava senz’altro verso l’Italia, mi rimaneva
soltanto di disfarmi di loro, perché non potevo più fidarmi, dopo quello che
era successo. L’unica soluzione era di farli tornare al paese mente io cercavo
di far perdere le mie tracce nel bosco.
– Ascoltatemi bene! Voi
dovete tornare al paese
– Noi vogliamo attraversare
il confine
Baio ha meritato un altro
calcio, e per dimostrare la mia fermezza, l’ho preso per i capelli mettendogli
il coltello sulla gola.
– Allora?
– Andiamo al paese
ma
possiamo farti ancora un favore
– Non ne ho bisogno di
favori
filate subito
– Abbiamo l’indirizzo dove
puoi lavorare – intervenne l’algerino seriamente. Io lusingato dall’idea, ho
indietreggiato lasciando lo spazio per una piccola tregua, e ho detto con tono
duro:
– Di cosa si tratta? Vi
avverto di non ingannarmi.
– Niente affatto
possiamo
trattare regolarmente
ogni cosa ha il suo prezzo
un posto di lavoro con
alloggio e tre pasti al giorno.
– Dov’è?
– A Milano.
A giudicare dall’offerta, la
loro espressione mi ha fatto ammorbidire. In fondo avevo bisogno di un lavoro
subito al mio arrivo in Italia, e senz’altro, questi due sapevano qualcosa in
merito. Tanto per sfogare la mia eventuale perdita gli dissi minacciosamente:
– Se scoprirò che mi avete
truffato, vi cercherò dappertutto, e sarà la vostra fine.
– Cinquanta franchi –
l’algerino mi ha interrotto, troppo
orgoglioso per non reagire alle mie minacce.
– Datemi prima l’indirizzo.
Baio tirò fuori dalla sua
tasca una carta piegata bene e me la diede. Gettai un’occhiata all’indirizzo
che era scritto in caratteri dattilografici.
– Va bene
eccovi cinquanta
franchi
ma come vi avevo detto toglietevi subito dai piedi.
L’algerino fu più veloce di
Baio a strapparmi i soldi dalle mani, e poi si avviarono verso la strada a
passi lenti senza rivolgermi una parola.
La loro sconfitta in quel
modo mi ha rafforzato la volontà. Certo ero ancora all’inizio della strada e
sa-pevo che più avanti sarei stato costretto ad affrontare problemi di diversi
generi, ma in sostanza, la fiducia in me stesso era aumentata. Mi accorsi di
tutto questo, quando arrivai vicino alla frontiera. Avevo incominciato il
cammino dopo mezzanotte, dopo aver dormito sotto una roccia lontano dal posto
della lotta per motivi di sicurezza, tenendo in conto una probabile aggressione da parte loro, poi ho passato il resto
del tempo ascoltando i gridi squallidi dei gufi e l’ululato dei cani selvaggi
che si sentivano dal paese e preparando un bastone con un ramo secco per
esplorare la strada nel buio; mi mancava soltanto il cappello a pan di zucchero
dei briganti!
La lunga corsa mi aveva
fatto sentire per la prima volta il forte legame tra l’uomo e la materia, il
tempo era invisibile, e le tenebre trasformavano le ombre degli alberi in
branchi di lupi, serpenti che scivolavano silenziosamente sull’erba,
pipistrelli che si avvicinavano fino all’orecchio e gridavano all’improvviso,
ma quando apparì la linea ferroviaria, di nuovo dopo un pezzo di strada
obbligata nel bosco, tutti sparirono di colpo e sentii il freddo gelido delle
rotaie abbracciare la mia anima e allontanare la paura che andava in sintonia
con i ritmi del mio cuore, al punto che mi avventurai due volte allo scoperto
uscendo dalla mia rotta per toccare con le mani il metallo lucido.
Sopra queste rotaie passano
tutti i giorni migliaia di persone che mischiano i sogni con una realtà
allucinante, parole comuni che non dicono niente ad una persona che non si
accorge della sfilata della vita. Davanti alle finestre si estendono viste di
paesaggi intervallate con l’oscurità dei tunnel. Tanti non pensano a niente, e
qualcuno si mostra insoddisfatto della sottomissione alla natura.
In Giappone già pensano di
offrire ai passeggeri cielo con sfumature rosa e volti che si avvicinano alla
finestra e agitano le mani con un sorriso elettronico. L’uomo comincia a
saperne più del diavolo, disse una volta mia nonna, ma chissà perché tutti i
personaggi del mio villaggio sono diventati saggi, eppure sono sicuro che non
hanno un senso così forte della vita. L’anno è diviso in quattro stagioni, e
ogni stagione è divisa in tre fasi, ciascuna di esse ha un senso unico, da
questo punto l’uomo inizia il suo cammino, arare, seminare, raccogliere. Dio è
ecologista, non ha detto mai “fabbricare”, perciò siamo riusciti a sorpassare
tutti i demoni, finalmente possiamo vivere alla pari, il bene con il male,
resta da definire il ruolo di ciascuno di noi: “Ebbene” disse il mio nonno
“abbiamo scoperto che noi siamo il male, e adesso che si fa?” Dio mio, ma non
si può pensare a queste cose, quando una persona sta per passare la frontiera.
Uno può pensare come si fa a
sconfiggere la paura, oppure mette in piedi un piano dettagliato per non cadere
fra le braccia della polizia. Io ho cercato sempre d’inventare delle scuse per
non pensare. Mi veniva mal di testa immaginare le cose diversamente che nei
sogni.
Tutto dovrebbe andare
liscio, così è scritto nel libro del destino, o meglio ancora sulla fronte
della testa. Gente di parola ha raccontato di aver visto un cranio con una
scrittura incomprensibile incisa sulle ossa. Tutto è stato scritto dalla
nascita alla morte, nessuno può impedire ad un uomo di percorrere la sua
strada, se quella strada era già prevista, ed io credo che questa strada sia
incisa a lettere maiuscole in qualche parte del mio cranio, o in qualche parte
del cielo.
Malgrado le frontiere
abbiano un’età minore ri-spetto alla presenza dell’uomo sulla terra, sono
entrate ben presto nel suo destino come
un oggetto che fa paura e si fa rispettare, come se al posto dell’agente di
frontiera ci fossero centinaia di statue di quella donna ignota che teneva
nelle mani una bilancia e una spada, dopo che qualcuno le ha bendato gli occhi.
Alla distanza di circa
duecento metri dall’edificio della dogana, dove sventolavano da una parte la
bandiera svizzera, e dall’altra parte quella italiana, ho deviato a destra
stando alla larga dalla luce dei riflettori montati su pali altissimi.
Provai un terrore
agghiacciante alla luce dei fari, come di una battaglia che si avvicinava dalla
parte opposta. Una frana di sudore freddo avvolse il mio corpo, mi accostai
dietro un cumulo di rottami puntando gli occhi sulle reti, lì in fondo, era
visibile un buco di appena trenta centimetri d’altezza dal suolo.
Questo mi tranquillizzò un
po’, era quasi fatta. In certi casi, il tempo non si misura soltanto con i
secondi, ma anche con i centesimi, tutto deve finire in meno di un batter
d’occhio.
Mi mancavano le forze, un
fatto bio-psicologico, ad un tratto, questa macchina che fino a pochi minuti fa
funzionava alla perfezione, mi è apparsa come se fosse andata in tilt; il
cervello era fuori uso, le gambe tremavano in vibrazioni regolari, e il cuore
faceva sentire il suo battito più forte che mai, e gli occhi cominciavano a
vedere tutto in tinta unita di colore nero, le luci dei fari erano scomparse, e
un silenzio mischiato con voci lontane regnava sul posto.
In simili situazioni, il
nonno e la nonna concordavano su un’idea pragmatica, ma si vede che funzionava,
cioè lasciare tutto in mano a Dio, una mano così tenera e decisiva, che non ti
accorgi nemmeno che cosa ti sta succedendo.
Mi ricordo solo il momento
in cui sono scivolato dal buco sotto la rete, poi un cammino molto strano,
piedi che devastavano tutto, cespugli, rocce, animali notturni, esseri
invisibili, senza guardare né a sinistra né a destra, sempre diritto verso una
luce apparsa dietro una collina, erano centinaia
migliaia di pattuglie di
polizia che mi aspettavano, si moltiplicavano ogni volta che io avanzavo, volti
duri ma sorridenti, battevano le manette con un ritmo schiacciante, e le sirene
ululavano
ululavano
sono passato davanti al primo
al secondo
al
sessantacinquesimo
siamo amici
no
no
è caduto
di sicuro
questo mulo non ha mangiato da tre giorni
non
dovevo tornare così in fretta nel mio paese, adesso sento anche la voce del
nonno: “Sei sconfitto
sapevo già che eri uno sconfitto
”. Il villaggio era
pieno di grattacieli, e un cavallo volava insieme ad uno stormo di aironi
immigrati: “Vieni qui
vuoi sapere il tuo futuro?”, non ci voleva questo,
dovevo passare la frontiera
sono stato vigliacco, adesso lo sanno tutti
– Alzati
come ti chiami?
–
erano tre, avevano i miei stessi occhi e parlavano come me:
– Si è svegliato
alzati
come ti chiami?
– Fathallah.
– Ti abbiamo trovato per
caso, mentre passavamo di qui
anche tu hai passato la frontiera stanotte?
– Sì che ore sono?
– Sono le cinque, dobbiamo
accelerare il passo prima che spunti
l’alba.
Erano due marocchini e un
senegalese, avevano passato la frontiera un’ora dopo di me, mi ero addormentato
a poche centinaia di metri da Como, loro avevano più esperienza di me, non era
la prima volta che facevano questa strada.
– Siamo andati a trovare un
amico – disse il primo con aria troppo sicura, questo amico doveva essere molto
caro, altrimenti come si fa a rischiare la pelle per un fatto così semplice.
Non ho nascosto la mia invidia per il loro coraggio, mi sono permesso di inorgoglirmi
di questi miei connazionali un po’ matti.
– Dove lavorate?
– A Milano.
Prima di entrare dentro la
stazione ferroviaria, mi sono fatto prendere da una incertezza profonda,
ri-guardo al fatto di mostrare a loro l’indirizzo che avevo in mio possesso, o
attendere fino all’arrivo a Milano. Comunque ero certo di una cosa: se il
lavoro che facevano loro non mi fosse piaciuto, avrei proseguito la strada da
solo. Loro mi hanno anticipato l’argomento appena ci siamo sistemati in un
vagone di seconda classe, pieno di operai ed impiegati, gente che guardava
dalla finestra con occhi sonnolenti.
– Puoi unirti a noi, abbiamo
un crocevia importante della città.
– Un negozio?
Due di loro fecero un
sorriso tenero sulla mia ingenuità, mentre il terzo mi diede una pacca sulla
spalla e disse:
– Un negozio ambulante
noi
abbiamo tre sema-fori
– Tre semafori! E cosa fate
con i semafori?
– Lo sai
quelli di
Casablanca che pensano di essere furbi, non sono riusciti ancora ad ottenere un
crocevia con tre semafori, il numero medio delle auto che passano di là, non è
inferiore alle duemila al giorno – rispose il primo, e dopo una piccola pausa
durante il passaggio del controllore, continuò: – Noi siamo in sei, lavoriamo
in due turni, abbiamo bisogno di uno che sostituisca la persona che è assente
dal lavoro per motivi di salute.
– Cosa si vende?
– Non si vende nulla, si
lavano i vetri delle auto che passano all’incrocio
allora cosa ne dici?
Lavavetri?! Era l’ultima
cosa che avevo pensato di fare in Europa, questa proposta imprevedibile, mi ha
lasciato perplesso; dovevo anche tenere conto dell’eventualità di trovare le
porte sbarrate all’indirizzo che mi avevano fornito in Svizzera, d’altronde non
avevo nulla da perdere nel provare.
– Per il momento ho un
lavoro, ma se mi lasciate il vostro indirizzo, in caso di necessità, vi verrò a
trovare.
– E dov’è questo posto in
cui ti offrono il lavoro? – chiese il primo meravigliandosi assieme agli altri
due.
– Per il momento non ce l’ho
l’indirizzo, un amico dovrebbe aspettarmi alla stazione.
Non sapevo che questo
dialogo poteva capovolgere la situazione, come successe in seguito, un posto di
lavoro fisso era più che un sogno per i tanti marocchini che bussano alla porta
di questa città, dopo un silenzio pieno di odore fortissimo di invidia, disse
il secondo allungando il collo verso di me:
– E questo amico, che tipo
di lavoro svolge?
– Lavora in un ufficio.
– Ufficio?!
– Se vuoi lavorare da solo,
siamo disposti a venderti un semaforo – propose il primo.
L’affare iniziò a prendere
un aspetto gotico e anche bizzarro, perché non coincideva assolutamente con le
prospettive dei miei racconti; quando tornerò al mio villaggio, il barbiere
lanciando il solito sorriso malizioso fermerà l’esattore delle tasse in mezzo
alla strada e gli dirà:
– Sa che il figlio di Haji
Hussein ha comprato un semaforo in Europa?
Ogni mossa dovrebbe essere ben studiata, qui si tratta
dell’orgoglio della famiglia, mio padre se sentisse una cosa simile non
uscirebbe nemmeno per la preghiera in moschea; ci sono immigrati che hanno
comprato negozi, case, perfino fattorie di allevamento di maiali, ma nessuno
finora era tornato al villaggio vantandosi di aver comprato un semaforo.
– Be’
direi che l’affare
non è male, se non fossi già impegnato a lavorare con questo mio amico – dissi
io mentre offrivo una sigaretta a ciascuno di loro.
All’improvviso, accesero i
loro tre accendini per la mia sigaretta, l’effetto dell’ “ufficio” non
significa soltanto prestigio, ma anche potere. Anch’io non ero mai entrato in
un ufficio privato però ho frequentato quelli del comune e l’ufficio del
prefetto che ha messo la sua firma sul mio passaporto: gente che parla con gli
occhi e cammina all’altezza di dieci centimetri dal suolo.
– Allora
noi dobbiamo
andare, o forse vuoi che aspettiamo con te finché non arriva il tuo amico? – mi
chiesero contemporaneamente tutti e tre mentre ci avviavamo verso l’uscita
della stazione.
Nel frattempo abbiamo
incrociato numerosi compaesani, uno di loro mi ha fissato con uno sguardo
fulminante.
– Ebbene
ti consigliamo di
stare lontano da questo posto
sono territori algerini e tunisini
buona fortuna! – disse il
secondo e senza aspettare la mia risposta si allontanò con gli altri.
Buona fortuna!
era proprio
quello che desideravo anch’io, ma la fortuna nella giungla del cemento e
dell’asfalto, era come un augurio di trovare sé stesso prima che fosse troppo
tardi. Il movimento e la velocità annullavano il tempo, i giorni e le ore sono
relativi al disintegrarsi in un mondo crudele. Ci vuole il fiato per seguire tutto
ciò che ti circonda, qui sei in diretta con la tecnologia, le regole dell’uomo
sono così remote, che ti sembrano svanire, riesci a fatica a dire addio con
un’agitazione di mani collettive, viaggi sotterranei e volti ammassati uno sopra l’altro, bianchi, neri, gialli,
rossi, arancioni pallidi, olivastri, il cocchtail divino si sposta da una parte
all’altra con la benedizione di Dio, il punk vicino al prete, e il manager
scambia due battute con un vagabondo, e i ladri sorridono fingendo di non
essere notati dagli altri, le stazioni non hanno fine, osservare e soddisfare
la curiosità, incantati dalla bellezza
il tempo non esiste, eppure c’è
qualcuno che se ne accorge:
– È chiuso
finita
devi
scendere
è mezzanotte.
E adesso cosa si fa in
queste vie deserte? Ho mostrato l’indirizzo a due persone durante il mio
andirivieni nel metrò, e tutte e due hanno scosso la testa pietosamente.
All’angolo un bar-tabacchi sta per chiudere, mi precipito dal proprietario, il
quale gira l’indirizzo tra le dite per un po’, guarda me, e poi ancora il foglio e infine la moglie, che sta dietro
il bancone, ed esclama con aria stonata:
– Ditta Caritas?!
– Sì.
L’uomo scuote la testa
ripetutamente e pensa a lungo, lege l’indirizzo un’altra volta a voce alta:
– Ditta Caritas
via
Rembrant
numero 38
Sfugge un sorriso allegro
alla moglie e dice quasi impaziente:
– Umberto
indicagli la
strada e vieni ad aiutarmi
mica dobbiamo aspettare qui fino al mattino?
Il marito obbedisce in
silenzio, mi accompagna educatamente due passi avanti e mi indica una piazza
che si vedeva in fondo alla strada.
– Vedi quella piazza?
– Sì
– Da lì segui il percorso
dell’autobus
a duecento metri circa, troverai una chiesa a sinistra
e lì si
trova la sede della Caritas.
Smette di parlare per
un’attimo, e poi dice rivolgendosi verso il suo negozio.
– Se non è tardi, forse ti
offriranno un piatto di pasta.
Infatti l’algerino e Baio,
mi hanno venduto un piatto di pasta offerto dalla Caritas per cinquanta franchi
svizzeri. Con quei soldi potevo mangiare un primo e un secondo in un ristorante
vero. La mia rabbia era al culmine, nemmeno gli sguardi di un prete anziano che
girava tra i tavoli, sono riusciti a placare la mia ira interna; ero come un
vulcano che sputava lava in eruzione.
Tra la folla dei miserabili
che occupavano la mensa, si potevano distinguere facilmente i nuovi arrivati
con gli occhi ancora spalancati dall’effetto del primo scontro con una
metropoli così bella e così spietata, dal momento che ognuno di noi, se mette i
piedi in questa città, ha il pensiero concentrato soltanto su due cose, un
posto di lavoro, e un tetto dove si può
mettere la testa sotto per dormire e pensare per il giorno dopo. Una catena
infinita di infelicità, tutte le cose mancate, l’esame di Dio – come predica il
nostro imam – insegue l’uomo fedele ovunque, nel suo cammino difficile, e forse
noi siamo il popolo prescelto per effettuare su di noi l’esame più duro che
esiste, tutto un destino, dalla nascita alla morte
lì la porta, ti attende un
cielo e tanti marciapiedi lucidi, la paura torna a dominare il corpo, fa
tremare l’anima e le ultime briciole di una speranza che era nascosta da
qualche parte, le luci si spengono, esce fuori: anche il gruppo di vagabondi,
infilandosi sotto le braccia i pezzi di pane che sono rimasti sui tavoli. Il
prete ti invita con gli occhi ad accomodarti fuori, la terra del creatore è più
vasta di quello che può immaginare.
III
L’incontro
Ahmed e Shukri, erano come
un dono sceso dal cielo. Nonostante la loro poca conoscenza della città, avevano
la capacità di fare tante cose. Ad esempio, sapevano il trucco per ottenere il
mangiare gratis. Quando facevamo tardi alla mensa della Caritas, ci mettevamo
ad aspettare in un parcheggio di un supermercato, e offrivamo di dare una mano
alle signore anziane a portare i sacchetti della spesa fino alla loro auto o
alla fermata dell’autobus. In compenso ci davano un filone di pane e una
confezione di formaggio, e qualche volta, entravamo in una paninoteca e aspettavamo la generosità di un cliente, o
forse anche dello stesso proprietario del locale. Io cercavo sempre di
nascondermi dietro di loro, o fingevo indifferenza come se non avessi nulla a
che fare con loro.
Ho sentito per la prima
volta la parola “Marocchino” e anche qualche parolaccia, e ho letto sui muri
frasi di “accoglienza” verso di noi, e ho visto i bambini attaccarsi alle gambe
della loro madre quando salivamo sui mezzi pubblici. Ma la cosa più importante
che sapevano questi due amici, era il modo di trovare un posto per dormire, un
posto sufficiente per non rischiare di morire di freddo su un marciapiede, come
è successo a me durante la prima notte a Milano. Tutte le sere, dopo le nove,
si girovagava in un viale che si stendeva dal piazzale Loreto a piazzale Lodi,
e cercavamo tra le macchine parcheggiate nel mezzo della strada, una
abbandonata dal padrone, o una usata dai rapinatori e poi abbandonata lì.
Siamo rimasti a dormire in
una Volvo spaziosa e comoda per sei giorni, e il settimo giorno, sono arrivati
i vigili urbani con un carro attrezzi e ci hanno portato via il nostro
dormitorio. Gli inquilini del palazzo avevano avvisato la polizia della
presenza di stranieri malviventi che forse usavano quella macchina come un covo
per i loro affari sporchi (furti e aggressione contro la gente che passava di
lì durante la notte): questa faccenda non ci ha creato dei grossi problemi,
perché nello stesso giorno abbiamo trovato un’altra macchina abbandonata poco
distante dalla prima, e per fortuna era arredata con due coperte e una torcia
ed un termos di thè e un fornello da camping. Passare la notte dentro un’auto
in una metropoli, è più o meno come dividere la gabbia di un felino. Le bande
di quartiere e gli psicopatici uscivano in strada proprio quando noi
appoggiavamo la testa per dormire. In quella notte siamo riusciti a comprare
tre bottiglie di vino, dopo che avevamo scaricato un Tir di cemento in un
cantiere nella periferia Nord della città.
– Stanotte non sentiremo
freddo – disse Ahmed che era un ragazzo tenace e svelto proveniente da Agadir
nel Sud del Marocco, mentre l’altro veniva da un villaggio vicino a quella
città.
Il freddo era più che un
problema: ci portava all’ insonnia, era come un nemico che ci attendeva ogni
sera. All’inizio si insinuava piano piano dalle fessure della macchina, e dopo
un po’ di tempo, lo trovavamo accanto a noi sotto i brandelli delle coperte e
dei vestiti vecchi accumulati sopra i
nostri corpi. Il suo alito colpiva i nostri visi come frammenti di ghiaccio,
poi continuava il suo percorso finché arrivava alle punte dei piedi. Allora
cominciavamo a girarci da un lato all’altro, le molle delle sedie giocavano il
loro ruolo in questa occasione, si sentiva come se entrassero lentamente nelle
nostre ossa, il fuoco
soltanto il fuoco poteva diminuire quella sofferenza. Il
suo calore creava un piacere infinito in quella foresta che galleggiava sulla
superficie di un lago ghiacciato, nell’orizzonte, un raggio pallido di sole,
colorava il volto del cielo, e sulla spiaggia pescatori alzavano con le mani
barche di carta, e le lasciavano volare sulle ali di un vento ululante, la voce
si avvicinava, mentre il calore massaggiava i nostri corpi come tocchi di dita
magiche, nel momento in cui la sirena di un’auto faceva il suo sospiro accanto
a noi. Ho aperto gli occhi e ho visto il falò del fuoco che ballava sul mio
corpo e una mano mi trascinava fuori. Ahmed e Shukri sono stati costretti a
rimanere in ospedale per un mese a causa di gravi ustioni in diverse parti del
loro corpo. Io ci sono rimasto per parecchi giorni: avevo difficoltà a respirare, e l’ustione che ho avuto sulle
mani, mi ha impedito di lavorare per una settimana.
La polizia ci ha interrogato
per lunghe ore sull’eventualità che noi avessimo visto qualcuno che si aggirava
in quella zona durante la notte, poi hanno consegnato a ciascuno un foglio di
via che ci obbligava a lasciare l’Italia entro quindici giorni. Quel foglio
l’ho avuto per altre due volte dopo l’incidente del fuoco, e la terza volta, la
polizia mi ha accompagnato all’aeroporto e mi ha espulso con un altro gruppo di
emigrati.
Erano passati due mesi dal
mio arrivo in Italia. Nel frattempo, avevo cominciato ad orientarmi nel nuovo
ambiente e ad abituarmi ad affrontare gli sguardi strani della gente che
incontravo per le strade, o nell’angolo della stazione metropolitana di Sesto
Marelli, dove ho iniziato a vendere sigarette di contrabbando.
L’ultimo giorno da
disoccupato avevo incontrato un mio connazionale di nome Rashid El-Fasi, un
uomo sulla cinquantina che proveniva dalla capitale Rabat: “Allora sei disoccupato?”,
questa era la sua frase preferita per pescare i marocchini che vagavano nelle
vie adiacenti alla stazione centrale. Mi ha accompagnato con la sua macchina a
Sesto San Giovanni, ha disceso con me le scale di una stazione del metrò, e mi
ha detto indicando un angolo vicino l’edicola:
– Questo posto ci
appartiene, da oggi in poi, tu lo occuperai. Tutti i giorni verrà uno dei miei
collaboratori e ti fornirà di quindici stecche di sigarette. Devi venderle
entro la sera, in compenso, prenderai venti mila lire al giorno, incluso due
pasti e un posto per dormire senza rischiare di trovarti come un mucchio di
cenere al mattino.
I due pasti venivano
distribuiti in un sacchetto di carta, il quale conteneva qualche panino, un
pezzo di formaggio, due pomodori e una lattina di coca-cola; e il posto
riservato per la mia residenza, era una cascina situata nel mezzo di un campo
abbandonato. Assomigliava più o meno ad una caserma di militari che ad una
casa, i suoi abitanti, 25 persone, dormivano dentro un camerone che si
affacciava su una collinetta di detriti e immondizie varie. Il lavoro era
comodo. Dopo meno di una settimana, sono riuscito ad aumentare la vendita da
“15” stecche a “20” stecche, senza avere un aumento significativo, della mia
paga. Il padrone di lavoro si limitò a premiarmi con un paio di jeans usati e
un pullover di seconda mano e un paio di scarpe da ginnastica consumate.
La vendita di sigarette di
contrabbando è un lavoro monotono, ma anche interessante. Avevo la possibilità
di osservare i volti e il movimento di non meno di 3000 persone al giorno,
conoscere i loro costumi, perfino i loro sentimenti. Vi erano persone con le
quali avevo stabilito legami indiretti, mi facevano un sorriso sfuggente, e
anche un saluto gentile al mattino, andavano e tornavano agli stessi orari
tutti i giorni. Il ragazzo che passava davanti a me come un fulmine, tenendo in
mano una 24 ore di pelle marrone e un cappotto olivastro, ero in grado di
indovinare il suo umore dal momento che appariva sulle scale. Se era di pessimo
umore mi salutava con una alzata rapida del sopracciglio, me se era di buon
umore mi salutava a voce alta e qualche volta si fermava per comprare un
pacchetto di sigarette per la sua ragazza; mentre la signora che faceva la
cameriera in un ristorante a Milano, trovava sempre del tempo per raccontarmi i
misfatti di suo marito disoccupato e suo figlio drogato, di come hanno
trasformato la sua vita in un inferno; e il proprietario del bar che mi offriva
un cappuccino tutte le mattine, e la signora Matilda che mi comprava dei
pasticcini freschi ogni volta che andava a fare la spesa in un supermercato
lontano due fermate da Sesto Marelli. Un giorno si è presentata in compagnia di
una ragazza vestita con un giubbotto bomber, jeans e scarpe militari come quelle
che usano i naziskin. Si è fermata accanto a me per un po’ di tempo, poi ha
salito le scale assieme alla signora Matilda senza scambiare una parola con me.
Il giorno seguente è passata da sola e mi ha chiesto se potevo procurarle una
kifeya palestinese. Io ho soddisfatto la sua richiesta dopo due giorni,
dopodiché ha cominciato a farsi vedere più spesso.
Nel frattempo ho saputo che
la signora Matilda era sua zia, la quale ha lasciato la casa a lei, perché è
andata a trovare sua sorella che abita vicino a Bergamo. Le ciocche dei suoi
capelli neri coprivano lateralmente il suo viso magro, e aveva nei suoi occhi
bruni tanti interrogativi misteriosi, un giorno mi toccò la mano e mi disse:
– Lo sai tu sei fortunato!
Io annuii con la testa. Per
la verità, ero d’accordo con lei, perché malgrado le difficoltà che mi
circondavano da tutte le parti, invidiavo me stesso per la facilità con cui
avevo trovato la fortuna: cioè un posto di lavoro e un tetto che mi proteggeva
dal freddo dell’inverno. Ma non avevo capito il significato di quella frase.
Soltanto quando mi ha chiesto un giorno se volevo uscire con lei, “Dove?” le ho
chiesto spontaneamente, l’eleganza del suo sorriso è aumentata assieme alla sua
femminilità nascosta sotto la confusione dei suoi vestiti, che presentavano
nello stesso tempo, la ragazza ribelle e quella che cercava disperatamente un
aspetto nuovo per far spuntare il suo carattere. O forse era un invito
indiretto rivolto a me, per cambiare il mio “look”, in modo che potessi
adeguarmi a lei, perché la contraddizione tra il nostro modo di vestire era
evidente. Io indossavo un giubbotto rosso che avevo ricevuto in regalo da una
signora anziana, e una sciarpa marrone al collo, e i soliti jeans sgualciti; in
tutto questo, mostravo il modo di vestire caratteristico dei vù cumprà.
Le sue amiche ci aspettavano
in una gelateria nella via principale. Hanno dimostrato subito, una sincerità
insolita verso di me. La prima ha commentato appena ci siamo seduti: “Un bel
ragazzo
ma ha bisogno di qualche ritocco al suo abbigliamento”. Mentre l’altra ha continuato il discorso
dicendo: “La sua pettinatura fa ridere
come si chiama?” poi ha strizzato l’occhio maliziosamente a
Paola. “Abdulfattah” io ho anticipato Paola nel rispondere. “Abdul Fattah! e
questo sarebbe un nome?” ha esclamato la seconda, ma la prima ragazza ha
trovato subito la soluzione: “Perché non lo chiamiamo Marco?” io non ho
dimostrato nessuna obbiezione, ormai è diffusa l’abitudine di chiamarci con
nomi familiari, Mustafa diventava Mino, e Hussein diventava Enzo.
– Quando l’hai conosciuto?
– Due settimane fa.
Per la verità, era passato
più di un mese da quando avevo visto Paola per la prima volta. Questa sua
dichiarazione timida di dimostrare un distacco leggero da me quando ci
incontravamo con gli amici o con i suoi parenti, è proseguita così durante
tutta la nostra relazione fino all’ultimo giorno. Il desiderio si contraddiceva
con la paura dei rimproveri che traboccavano negli occhi delle persone che ci
scrutavano con sguardi diffidenti durante la nostre apparizioni in strada e nei
locali pubblici. D’altronde, anche suo padre ha espresso sempre a voce alta la
sua opinione, come ha fatto subito dopo il nostro rientro da un week–end fuori
Milano. Eravamo sul marciapiede davanti al portone di casa, e rivolgendosi al
panettiere disse: “Gente senza radici, altrimenti non avrebbero lasciato il
loro paese.”
Il macellaio che ha sentito
questa frase, l’ha terminata con un proverbio in dialetto milanese e si sono
messi a ridere insieme, dopodiché, Paola mi ha consigliato di comportarmi bene
con il calzolaio e con la proprietaria della drogheria, perché hanno la lingua
troppo lunga. Già hanno diffuso una voce nel quartiere della nascita di un
bambino con la cesta in mano piena di accendini e cianfrusaglie. Era la madre
di Paola, che è andata in giro per comprare i vestiti al nipote che sperava con
tante preghiere a tutti i santi, assomigliasse a sua madre, e non ha esitato
durante una visita di Paola al ginecologo, di chiedergli altri dettagli sul
bambino al di fuori del suo sesso. Era un maschio: lei è rimasta delusa finché
non abbiamo visto il bambino per la prima volta in una stanza dell’ospedale San
Carlo dove è stata ricoverata Paola per partorire. Eravamo tutti lì, io, i suoi
genitori, le sue due amiche Emanuela e Laura, ed un’infermiera che era una
parente lontana di sua madre. Erano avvolti da una curiosità soffocante, e
nessuno di loro ha avuto la briga di nascondere la sua interpretazione di
quell’ansia che illuminava gradualmente i loro occhi. Poi tutta questa tensione
è esplosa in una gioia travolgente: sarebbe stato identico a Paola, se non ci
fossero stati quei capelli ricci che coprivano le testa del bambino. I giorni
precedenti la festa organizzata dalle sue amiche, è tornato di nuovo
l’argomento che ci ha avvelenato la vita, perché è impossibile che un uomo
possa scappare dalla sua realtà. Un clandestino può avere una casa e una
famiglia, ma non conta un bel niente senza una carta firmata e sigillata dalla
autorità del temuto ufficio stranieri, che è capace di individuare un
clandestino tra migliaia di persone, notando semplicemente il suo sorriso che
riflette una paura radicata.
Il primo tentativo è fallito
in un modo tremendamente ridicolo. Secondo mio suocero, che in quel periodo
aveva appena cambiato ideologia, ed aveva cominciato a comprare
“l’Indipendente” al posto dell’ “Unità”, il liberalismo era a due passi dalla
vittoria finale, e fra un anno, non si sarebbe vista per la strada neanche una
faccia di “carbone”.
Paola ha deciso di
accompagnarmi alla stazione centrale, perché dopo lunghi discorsi sul nostro
futuro, e in primo luogo sul futuro del nostro figlio, abbiamo deciso di
trovare la via della legalità a tutti i costi. Era evidente che un bambino non
può crescere sotto il tetto di una casa dove regnano parzialmente dei
comportamenti che contaminano le persone con le quali si ha una vita comune. Un
clandestino non è soltanto una persona priva di permesso di soggiorno, ma anche
– per motivi sconosciuti – un delinquente che semina il terrore ovunque mette i
piedi. Poi era proprio inaccettabile che i compagni di classe chiamassero il
nostro bambino usando dei termini come “figlio di un clandestino!” o “razza di
un vù cumprà”. “È logico!” ha affermato Paola:
– Se tu non trovi una
soluzione rapida e legale per la tua residenza in Italia, rimarrai per tutta la
vita un venditore di sigarette di contrabbando, o muratore mezzo disoccupato.
Qui non si tratta soltanto della tua vita, ma della nostra vita, io, te e
nostro figlio, già
siamo diventati tre persone, e la responsabilità sta
aumentando di giorno in giorno. Ci eravamo trasferiti in un’altra casa nella
stessa zona. La casa dei suoi genitori era troppo piccola per convivere tutti
insieme. Me ne sono accorto dal primo mese, che per stare all’altezza del
percorso quotidiano della nuova vita, dovevo accelerare la mia velocità. I
bollettini venivano a pioggia, gas, telefono, acqua, corrente, affitto,
assicurazione dell’auto, spese giornaliere.
Come primo passo, ho
iniziato un altro lavoro oltre al mio lavoro di venditore ambulante. Più avanti
ho diviso la mia giornata in tre parti, la mattina vendevo sigarette, nel
pomeriggio lavoravo come facchino dei depositi di una ditta di vernice, e la
sera facevo il lavapiatti in una trattoria frequentata per la maggior parte da
camionisti.
Il nostro obiettivo era
semplice, cioè trovare uno di quei falsari che si trovano spesso alla stazione
centrale, come ha letto Paola sulle pagine di cronaca nera nei quotidiani, per
mettere sul mio passaporto il visto d’ingresso identico a quello che rilascia
l’ambasciata italiana all’estero. Nel primo giro, non abbiamo incontrato
nessuno, ma dopo qualche minuto, Paola mi ha indicato due persone che erano
ferme vicino l’edicola al pianterreno. Io mi sono avvicinato a loro, mentre
lei, al contrario del nostro piano, si è messa
ad attendere a due passi da noi, malgrado i miei se-gnali di andare ad
aspettare al bar. Erano due tunisini, e ad un tratto, si è aggiunto a loro un
albanese, io spiegai a loro di che cosa avevo bisogno, e i tre hanno dimostrato
subito un interesse eccezionale, e addirittura uno di loro, ha proposto di
farmelo gratis, perché suo connazionale. Lasciai a loro il mio passaporto e
fissai un appuntamento per il giorno dopo, nello stesso luogo e alla stessa
ora.
La nostra felicità è durata
solo ventiquattro ore, perché all’indomani non abbiamo trovato traccia di quei
tre. Paola ha avuto una crisi di nervi, e dopo una lunga attesa tra la folla
della stazione, è tornata a casa preoccupata per il bambino. Erano le otto di
sera, io sono rimasto ad aspettare fino alle 22.30, sperando sempre che il loro
ritardo fosse dovuto a qualche intoppo. Verso le 23.00, mi sono trovato
all’improvviso tra quattro poliziotti in borghese, i quali mi hanno trascinato
subito dentro una cella e mi hanno fatto spogliare cercando degli oggetti
misteriosi nelle calze e sotto la cinghia, e perfino dentro la bocca.
– Bastardo
le hai
inghiottite
quante bustine erano? – mi domandò uno di loro con aria rabbiosa.
– Quali bustine?!
Alla mia esclamazione mi ha
dato uno schiaffo allucinante che mi ha fatto vedere veramente, migliaia di
stelle che orbitavano sul tetto della cella, e poiché non avevo documenti, mi
hanno fatto trascorrere quella notte in guardiola nella questura con altre
tredici persone, e come al solito, alla mattina mi hanno consegnato un altro
foglio di via, invitandomi a lasciare l’Italia entro quindici giorni.
Paola era quasi impazzita
per la mia assenza ingiustificata, come ha sostenuto appena mi ha visto entrare
dalla porta, trasformando gli occhi in due cerchi rotondi di meraviglia disse:
– Potevi chiamarmi
te
l’avranno concessa una telefonata
ma sono sicura che tu non gli hai chiesto
niente.
Ci siamo messi un’altra
volta, con tutta la forza dei nostri cervelli a trovare una soluzione immediata
riguardo la mia residenza in Italia.
Prima, il problema era
concentrato su un fatto solo, cioè procurare il visto d’ingresso, ma siccome
avevo perso il mio passaporto, ci siamo trovati davanti a due problemi da
risolvere, con delle alternative sconcertanti, perché impercettibilmente
stavamo scivolando su un burrone vertiginoso, dove si vedevano in fondo le
macerie dei nostri sogni. Eravamo d’accordo di non fare del male.
– Ma questa caduta libera
può provocare ferite irrimediabili – io protestai all’ultimo minuto, prima che
ci avviassimo verso la stazione centrale. – Pensa al nostro bambino
pensa a
me
non puoi chiuderti dentro il tuo maledetto egoismo.
Ecco il punto che ti libera
dai tuoi sensi di colpa, almeno, sapendo gli imperscrutabili difetti che si
annidano nel tuo subconscio, puoi aumentare la tua resistenza in relazione alla
perdita di valori inesistenti, è inutile discutere i doveri detti sacri dalla
gerarchia invisibile di persone che ci indicano la strada, per correre su un sentiero
sperduto sulla montagna. Non deve avere lo stesso significato di salire le
scale del primo piano della stazione centrale, lassù vicino ai binari, il cielo
è fatto di ferro e di blocchi grigi di uomini e donne che abbracciano rotaie di
acciaio e partono per destinazioni ignote.
Tutto poteva anche andare
come previsto: acchiappare il primo immigrato che non mangia da almeno tre
giorni, e dirgli con aria dispiaciuta: “Guarda amico
eccoti qualcosa (200.000
lire) per riempire il tuo stomaco, e in cambio di questo denaro, dammi il tuo
passaporto.”
Paola ha giurato che il
mondo va così, perfino gli stati di spicco trattano con altri stati – diciamo
meno di spicco – in questo modo. Poi, un uomo affamato non ha bisogno di
identità. Cerchiamo di essere realisti, la vita ha soltanto due colori: il
bianco e il nero, gli altri colori sono sfumature per ingannare la gente.
Quelli che vedono l’arcobaleno soffrono di miopia cronica, ma qui dobbiamo
aprire bene gli occhi e le orecchie, infatti uno di quegli affamati era seduto
sotto il tabellone degli orari dei treni e ha risposto con un sorriso pietoso
alla mia proposta e si è allontanato con panico.
Gli altri tentativi sono
stati conclusi con grande gioia, grazie alla mediazione di un ex vagabondo che
faceva il tassista di notte, il quale, tramite una sua amica che fa la
prostituta in piazza Duca di Savoia, ha trovato un nigeriano disposto a vendere
il suo passaporto, tanto è uguale, non c’è grande differenza fra il Marocco e
la Nigeria, ha commentato il tassista intascando la sua percentuale di 50.000
lire più 35.000 lire per cambiare la fotografia del titolare del passaporto con
quella mia. Tutto è stato risolto nell’angolo di una via deserta in adiacenza
di piazzale Lagosta.
A casa, abbiamo festeggiato
l’avvenimento con due amici della Lega Ambiente, che alla fine della serata, ci
hanno proposto di partecipare ad un campagna di pulizia ai giardini di via
Benedetto Marcello domenica prossima: Paola teneva molto alle questioni
ambientali, e partecipava a quasi tutte le attività delle varie associazioni o
gruppi che cercavano la soluzione finale all’inquinamento, sognando una città
verde senza asfalto e senza auto come è raffigurata nella pubblicità del Mulino
Bianco.
La domenica mattina, dopo
aver affidato il bambino ai genitori di Paola, ci siamo avviati verso il luogo
prescelto per noi, indossando tute verdi e bianche adatte al lavoro di operai
ecologici.
Di solito, Milano nei giorni
festivi, e in particolare la domenica, si trasforma in un agnello soave e si
toglie la maschera del lupo cattivo nei confronti della gente che la maltratta
continuamente. C’erano poche persone ed altrettanto poche automobili che
giravano nelle vie. La prima fase del lavoro era di raccogliere le siringhe
abbandonate dai drogati la sera precedente, e poi mettere le foglie secche
cadute dagli alberi in grossi sacchetti neri della spazzatura e sistemarli
accanto all’entrata del giardino in modo che i camion delle nettezza urbana
potessero raccoglierli facilmente. Verso le undici sono apparsi degli
extracomunitari in un angolo poco lontano da noi, e ho visto da lontano la
presenza di due o tre prostitute di colore sulla strada accanto al giardino.
Tutto è successo in meno di
cinque minuti, come uno scenario predestinato a mettere in pratica l’ultimo
atto di questo mio viaggio che si è trasformato per tanti aspetti, nelle
avventure di Don Chisciotte: due dei miei connazionali mi si sono avvicinati.
All’inizio, erano incerti se
ero uno di loro o no, hanno provato a scambiare due parole con Paola
mostrandole un pezzo di hashish. A questo punto, io non ho potuto fare
l’indifferente, ho chiesto loro nel
nostro dialetto di allontanarsi. Questo li ha fatti esplodere contro di me con
insulti e tentativi di buttarmi giù, ma l’intervento di altri volontari, ha
messo subito fine a questa rissa insolita.
Le cose non si sono limitate
a questo, come speravamo, almeno io e Paola, perché due poliziotti in borghese
sono apparsi, non so da dove sono usciti. Uno di loro mi ha sbattuto contro un
albero, e ha cominciato a perquisirmi, mentre l’altro dopo aver mostrato le sua
tessera a Paola e ad altri volontari, si è messo a fare delle domande a loro.
Nel frattempo, ho visto tre poliziotti che conducevano via i due
extracomunitari che avevano tentato di venderci l’hashish.
Siamo finiti dentro la
cella, io, i due spacciatori e le tre prostitute nigeriane, tutti privi di
regolare permesso di soggiorno. Questa volta, come notai già in questura
durante un interrogatorio banale da parte dei due investigatori giovanissimi, non avevo molte possibilità di
cavarmela come era successo in passato.
Un poliziotto mi disse
mentre mi accompagnava in cella:
– Questa tuta ti sta bene,
ma perché non sei rimasto al tuo paese a fare lo spazzino?
Adesso ti manderemo
noi a quel paese!
Anche Paola era
all’aeroporto. Si vede che l’hanno avvisata della mia partenza, mi ha agitato
la mano da dietro il vetro della sala transito, era come un tifoso dopo una
sconfitta della sua squadra del cuore. Ho fatto notare per l’ultima volta al
capo scorta che doveva accompagnarci fino all’aereo in partenza per Lagos, che
io non ero nigeriano, che il mio documento era falso; lui e i suoi colleghi
hanno fatto per l’ennesima volta un sorriso ironico e mi hanno messo in coda a
una colonna di prostitute con i loro vestiti particolari.
Eravamo come ciarlatani
tristi, e appunto questo mi ha spinto a partecipare alle risate degli altri
passeggeri.
“Benvenuti a bordo”, ho
sentito la voce di una hostess davanti alla porta dell’aereo, l’Italia era
rimasta lì fuori, accanto a Paola c’erano altre persone che agitavano le mani
come alla moviola.