Presentazione di Wu Ming 2

La scrittura meticcia è un contagio reciproco,

difficile da raggiungere attraverso i pixel

di Wu Ming 2

 

Sono un tipo ripetitivo, non posso negarlo.

Se qualcuno, dal 2012 ad oggi, avesse partecipato a tutti gli incontri iniziali del nostro laboratorio di scrittura meticcia, mi avrebbe sentito ribadire ogni volta un concetto che mi è caro, con ben poche differenze di parole e sintassi.

Persino quest’anno, così infarcito di eccezioni e anomalie, sono riuscito a propinare la solita tiritera, sostenendo che il nostro lavoro a più mani non avrebbe seguito un metodo preciso, industriale, ma si sarebbe compiuto grazie a una pratica, da costruire con pazienza, ogni gruppo attraverso le proprie dinamiche. Come quando si mangia per stare insieme e non viceversa: la scrittura come strumento per esprimere un’identità collettiva e provvisoria, la narrazione come esperienza conviviale.

Si era alla metà di febbraio. Tempo di incontrarsi una seconda volta, poi l’Università avrebbe chiuso i battenti, per non riaprirli più, trasferendo tutte le attività didattiche su piattaforme on-line, al riparo da virus (biologici) e contagi, ma solo in apparenza più salutari per gli esseri umani.

Per un mese abbondante ho pensato che il laboratorio, ai primi vagiti, fosse morto in culla.

Come avremmo potuto godere a distanza del profumo di un tavolo apparecchiato di storie? Come avremmo imparato a giocare di squadra, se non avevamo più un campo dove sperimentare moduli e tattiche?

A nulla mi sembravano valere le testimonianze di studenti e professori, che mi parlavano di videolezioni tutto sommato riuscite, con pro e contro, e mi ricordavano il vecchio adagio bolognese, secondo il quale piotòst che gnint, l è méi piotòst. Bisogna fare di necessità virtù.

Nel caso di un laboratorio, dove non ci sono lezioni, ma ritrovi e banchetti a base di parole, ero convinto che incontrarsi sullo schermo di un computer avrebbe azzerato il senso dell’avventura. Non un piòtost, ma un totale, irrimediabile gnint.

Avevo ragione e torto allo stesso tempo, come sempre accade quando si affronta una contraddizione.

Molti di coloro che hanno criticato, per vari motivi, la provvidenziale didattica a distanza, presto o tardi si sono sentiti accusare di luddismo. Nemici della tecnologia, nostalgici, conservatori, incapaci di piegare il mezzo ai propri scopi. Ora: è senz’altro vero che l’umanità progredisce e inventa nuovi utensili a partire da vecchi attrezzi utilizzati in maniera impropria. Da un’ascia usata per piantare un paletto può essere nato il martello, non lo metto in dubbio. Tuttavia, non è detto che qualunque strumento si presti a qualunque lavoro, a prescindere dalle sue caratteristiche. Arare un campo con una chitarra non porterà l’Uomo a nuove conquiste. Il mio rifiuto di un laboratorio a distanza non nasceva da un pregiudizio nei confronti delle macchine o dei rapporti virtuali. Sono convinto che la scrittura collettiva fosse molto più complicata ai tempi di don Milani, con i suoi famosi foglietti, di quanto non lo sia oggi, grazie ai programmi di videoscrittura e di condivisione dei testi. Tuttavia, ci sono aspetti specifici dell’interazione on-line che rendono molto difficile l’innescarsi di una creatività di gruppo. Chiunque l’abbia sperimentata, si sarà accorto di quanto sia complicato gestire i turni di parola, e di come si finisca per cedere a uno scambio sequenziale: adesso parli tu, poi parla lei, poi parlo io. E qualcuno non parla del tutto, perché non ha in testa un vero e proprio “intervento”, ma giusto qualche idea confusa, qualche frase, che avrebbe “buttato lì” in una situazione più informale, e che invece non riesce a esprimere nel botta-e-risposta tipico del colloquio tra mezzibusti.

Nonostante questa e mille altre perplessità, l’entusiasmo dei partecipanti, il loro desiderio di “provare comunque”, e le sollecitazioni del professor Pezzarossa, mi hanno convinto a tentare l’impresa. L’assenza di un metodo, ancora una volta, si è rivelata preziosa. Non avendo uno schema di lavoro prefissato, una routine precisa, è stato più facile improvvisare una pratica adatta all’imprevisto.

Certo non avrei mai pensato che tutti i gruppi sarebbero riusciti a concludere il loro racconto, nonostante le difficoltà più scontate e quelle più imponderabili, mentre ognuno era alle prese con nuovi ritmi di vita, di studio e di lavoro.

Sarà scontato sottolinearlo, ma è stato tutto molto faticoso. Non lo dico per dare più lustro al risultato finale, ma per sottolineare che il passaggio dall’aula allo schermo non è indolore come tanti vorrebbero, e ha qualche speranza di riuscire davvero solo se tutti moltiplicano gli sforzi. Una retorica facile ha dipinto gli insegnanti “a distanza” come lavoratori fortunati: stai a casa, ti gestisci gli orari, eviti la confusione della classe, gli alunni sono più gestibili… Al contrario, posso garantire che si tratta di lavorare il doppio per raggiungere un risultato meno soddisfacente. Perché se il “risultato” di una lezione sono tot studenti che danno l’esame, e il risultato di un laboratorio sono tot racconti collettivi, allora può darsi pure che la differenza non si veda. Ecco qua i verbali d’esame, ecco qua i racconti. Invece la differenza c’è, e non sta solo nel maggiore impegno richiesto.

La distanza facilita l’esclusione di chi ha “meno da dire”, come si è già visto. Inoltre, favorendo un confronto seriale, a turni, spinge ad arroccarsi sulle proprie posizioni e non consente di vedere, materialmente, l’emergere di soluzioni condivise, la possibilità di alternative, l’aprirsi di vie di fuga e uscite laterali dallo stallo di ipotesi contrapposte.

L’interazione attraverso lo schermo non crea davvero un gruppo: non se ne respira il clima e non lo si sente respirare. Nelle edizioni precedenti del laboratorio, quando mi capitava di seguire il lavoro collettivo di quattro o cinque persone, avevo la netta sensazione di rapportarmi a un soggetto diverso dai singoli individui, e sempre più definito via via che l’esperimento procedeva. Quest’anno invece mi sono sempre relazionato con singoli che si riunivano e collaboravano in quella determinata occasione, ed è mancato del tutto il costituirsi del gruppo più ampio, quello di tutti i partecipanti, uniti da un’esperienza comune: ogni piccolo collettivo ha fatto storia a sé.

Quindi evviva, siamo riusciti anche quest’anno a mescolare le nostre parole, a raccontare a più voci, a scrivere a più mani. Abbiamo trovato il modo di affrontare ostacoli mai visti, e come accade quando si supera un pericolo insieme, e si condivide un viaggio, questo ci ha restituito un po’ di quella convivialità che abbiamo smarrito tra un pixel e l’altro, costretti a parlarci attraverso un microfono e a salutarci affacciati da un’inquadratura.

Quindi evviva, ma non rifacciamolo. Non consentiamo all’eccezione di trasformarsi in regola. Non permettiamo che uno sforzo straordinario venga sminuito con un semplice: “Visto? E tu che dicevi che non era possibile!”.

La scrittura meticcia è un contagio reciproco, ha bisogno di mescolare corpi e fiati, non solo belle frasi e trame avvincenti.