Liberazione (Irene Signoriello, Ubaldo Ranaldi, Maria Giovanna Mingotti)

Sorridi, rilassa il viso, sembrerai una pazza. Chiudo la portiera: perché sono qui? Perché dovevo parlare, devo parlare, devo… non dovevo trascinarmi fino a qui. Ora Sorridi. La gente intorno, verso la piazza, verso i centri, il centro. La gente sopravvive come. Perché non ho rifiutato? Samuele mi ha vista arrivare, mi ha vista. La sai quella barzelletta? Sì, la so. Il ciottolato è irregolare, inciampo, faccio fatica, la so, faccio fatica a parlare, mi chiedeva di. Devo fare un figurone al comizio, come rappresentante. Il discorso che mi ha preparato, gliel’ho chiesto, mi aspetta la. Persona in bicicletta, non metterla. È festa, devo parlare sul palco davanti a tutti e dietro gli altri, il paese, gli amici, parlare. Il 25 aprile, oggi la liberazione, dai, la ridistribuzione dei migranti, lontano dai quartieri periferici, lontano dal negozio, non è sorto dal nulla, pensare alle periferie, alle scuole, ai. Siamo qui per ridistribuire, no, qui per scacciare o rinchiudere… Corbara. Per accogliere, non accogliere. L’ha pagata a caro prezzo, perché? Mi faranno storie, non posso dire altro che liberazione, dire vogliamo liberarci dai migranti: li mandassero, o smettessero, smettiamo, smetti di guardare a terra, guarda in faccia. Il paese è già lì, mi aspettano, il pubblico, parla, dice sigillare le frontiere, lui sì, non si può sprecare risorse, personale, controllo. Delinquono, ci mancano solo loro e poi. Neretti. Perché è una bella giornata? Il sole, caldo, della liberazione, possono fare quello che vogliono, illumina il pati, il palco. Ognuno vive come merita. Troppa gente, domenica, è festa, mesi a raccogliere firme, per il comizio, alzare la voce, sigillare. In periferia, dov’è il negozio, ci sono scuole, ci sono centri di detenzione, no, accoglienza, il suo negozio, dannato negozio. Mancano quelli di, gli altri. Anziani prendono il caffè, sempre lì davanti, con un bicchiere in mano, dovrei, forse dovrei andare a parlargli per questa cosa, anziani che hanno fatto. Mi giro dall’altra parte, due bambini giocano davanti al palco, parlano, ridono e corrono via, lontano dai rumori. Sorridi, rilassa il volto, è un giorno di sole, di liberazione. Sarà una vera liberazione. ma non per me, no. Ormai sono arrivata. A meno che…

***

Marco, tre spritz! Continuava a fare avanti e indietro, dal banco ai tavoli fuori, e al solito la clientela iniziava ad essere numerosa e rumorosa e un tanto impaziente per l’aperitivo. Il mazzo lo avete già, no? Siamo sempre forniti figliolo, che credi? Pensa piuttosto a metterci l’acqua tonica, oggi lo voglio amaro come la vita. Risatine varie, tra i tavoli, qualche bestemmia per la briscola. Marco passava di tanto in tanto anche alla cassa, quando il padre si intratteneva con i vecchi di fuori che gli offrivano da bere. Il solito venerdì, sempre le stesse facce, ma in fondo non mi dispiace stare il pomeriggio al bar: una parola con quello e con quell’altro, un’occhiata al Corriere, due spuntini per l’aperitivo, solo ogni tanto devo alzare un po’ la voce per farmi sentire da quelli sordi. Oggi mi si chiudono gli occhi, portami un caffè corretto, va’. Giulione, se hai finito i gettoni è inutile che ti fissi davanti alla macchinetta, non ti sputa un soldo. I suoi coetanei passavano giusto quando era festa o quando capitava qualcosa per convincerlo a farsi offrire, ma oggi niente di nuovo al Bar Occidentale. Marco, non li ho presi gli spicci, segnali sul conto! Segno. E fanno cinquanta.
Stava sparecchiando a un tavolo, quando sentì che qualcuno offriva un giro a tutti, mentre si parlava di politica. Stiamo portando avanti una raccolta firme per impedire l’apertura di un centro migranti nella nostra città. Era una donna slanciata, vestita bene, con tacchi, giacca e tutto il resto. Sulla quarantina, ancora attraente. La ridistribuzione dei migranti sul territorio nazionale prevede di stanziarne alcuni anche qua da noi, come sapete, ma il fatto è che non abbiamo né le risorse né il personale necessario a controllare quelle persone. Marco le passò accanto. È la proprietaria del negozio in periferia, vicino alla scuola dismessa dove ho fatto le elementari. Mai entrato nel suo negozio, è antiquariato. Voglio firmare, sicuro! Ho sentito che li vogliono mettere nella vecchia scuola. Visto! Invece di rimetterla in piedi per i nostri ragazzi la diamo ai neretti. E poi chi li controllerà laggiù, in periferia quelli possono fare come vogliono. La donna era accompagnata da due uomini, suoi coetanei all’incirca. Gente che non conosco. Il Comune non può sprecare strutture e personale per accogliere i migranti e dargli di che vivere e controllarli. Senza contare che se iniziassero a delinquere poi non verrebbero rimpatriati, molti non si sa da dove vengono e anche di quelli con il foglio di via solo una piccola percentuale viene rispedita a casa, gli altri finirebbero nelle nostre carceri a pesare sui contribuenti. Vero, vero. Li mandassero da un’altra parte, a Roma, a Milano, non capisco perché bisogna sorbirceli noi. Ma li mandassero a casa loro, in Africa, o smettessero di farli sbarcare. Inoltre stanziarli nella zona della vecchia scuola squalificherebbe ancora di più quell’area, già piena di extracomunitari, e lo so per esperienza personale, visto il mio negozio.
Marco continuava a servire, non troppo concentrato su quello che dicevano. La politica non mi è mai interessata più di molto. So solo che da qualche anno sbarcano immigrati in continuazione, ne parlano sempre in televisione e anche i clienti al bar. Ma qua in città si vedono sempre le stesse facce. Se si stanno accalorando tanto forse è solo l’alcol oppure è la tipa ad averli accesi. A firme raccolte, tra un mese, faremo un comizio per confermare ufficialmente l’invio della proposta in Comune, ovviamente siete tutti invitati a partecipare, celebreremo così il 25 aprile. Mostreremo al sindaco e alla Regione che i cittadini non possono essere scavalcati, che la gestione dell’accoglienza deve essere concordata tra tutte le parti sociali, che abbiamo il diritto di protestare e rifiutare di accogliere quando ci si preoccupa per la nostra sicurezza e quando mancano fondi, personale e aree adeguate. Brava! firmo anche io Anna, mi hai convinto. Adesso i due amici della donna stavano distribuendo fogli per le firme, si era creato un bel crocchio di gente intorno a loro e anche suo padre, che si era allontanato dal bancone per ascoltare, approvava con aria grave, muovendo la testa come faceva sempre quando si trovava in mezzo a gente con la stessa idea, cosa per altro non rara, in quel bar. Marco, tu non firmi? La domanda lo prese alla sprovvista, non ci aveva ancora pensato. In fondo che me ne importa, ma visto come stanno andando le cose, è meglio non contrariare i clienti, tanto non mi cambia nulla a me, al mio bar Occidentale. Passami la penna Beppe, che poi vado a lavare le tazze. Firmato, entrò in cucina e si accorse che bisognava dare proprio una bella pulita.

***

Stava passando l’aspirapolvere nel salotto. Il basso continuo del televisore era sommerso dal rumore dell’elettrodomestico che in quel momento passava sotto il tavolo apparecchiato per una persona. Per tutte quelle ore di pulizie, Franca aveva alzato di continuo lo sguardo, dall’aspirapolvere al quadrante dell’orologio a fianco del calendario, per un controllo costante: difficile immaginare qualcosa di più serio per quel 15 aprile dell’imminente partita di burraco con le amiche.
La figlia era in ritardo e Franca sperava tornasse prima del suo appuntamento, per salutarla; sentendo il rumore delle chiavi nella toppa capì di essere stata accontentata. Anna, dov’eri finita? Chi ti sposerà se tieni la tua casa in questo modo? azzardò aprendole la porta. Mamma, ero a raccogliere firme, lo sai che sono impegnata. Sì, sì lo so, ma credevo saresti tornata prima. La figlia si diresse verso la cucina dove l’acqua, bollendo in una pentola, creava un borbottio pensoso che si propagava per la stanza. Franca con un’occhiata veloce registrò la faccia di Anna: è stanca, preoccupata; si è seduta davanti alla tv ma non la sta guardando. Si lasciava piuttosto attraversare dal suo rumore. Convocata riunione straordinaria del governo: il Ministro dell’Interno riferirà in Parlamento oggi pomeriggio sulla questione migratoria.
Oggi ho conosciuto il Signor Corbara, disse Anna all’improvviso, mi ha detto che conosceva il nonno, erano amici. Franca ebbe un moto di fastidio, si girò e versò del sugo in una padella: solo il talkshow serale riempiva il suo silenzio. Quando avevi intenzione di parlarmene? Il negozio ora appartiene a me, avevo il diritto di sapere, continuò Anna alzandosi. La madre sentiva lo sguardo della figlia che perforava le sue spalle ed era come se la inchiodasse al legno della credenza. Sono vecchia, speravo di non dover mai parlare di questo con lei. Si girò, guardò gli occhi chiari di Anna, occhi chiari come i suoi, gli stessi del nonno, e ne percepì l’allarme. Si diceva di tutto dopo la guerra, Anna, chiacchiere che sono svanite appena le cose hanno cominciato ad andar meglio. Cercò di far cadere il discorso, ma lei rimaneva lì, in piedi a fissarla. Si accorse ora che il completo con cui la figlia andava a parlare per il paese era mollo e sporco di terra alla base dei calzoni: dov’era finita? Mamma, non te ne vai da qui finché non mi dici quello che voglio. Provò ad articolare frasi scollegate. Anna, non ero ancora nata. Tuo nonno era una brava persona. E poi durante la guerra valgono altre regole. Sono cose successe tanto tempo fa. La Libia ospita decine di centri di detenzione dove quotidianamente avvengono violenze e torture. Anna, noi non possiamo cambiare il passato, non ne siamo responsabili, lo subiamo. Aveva ormai abbandonato la cucina per cercare di avvicinarsi alla figlia, trovare un contatto, ma Anna si era ritirata dalle sue mani, dal suo tocco, con un moto di repulsione. Perché non lo ammetti? La guerra è guerra, la gente sopravvive come può e poi vive come merita, aveva risposto flebile, sopraffatta da quello che le sembrava un interrogatorio ingiusto. Franca era stata questo per tutta la vita: una donna esile, vissuta senza pretese cercando di non farsi trascinare nel buio, mettendo in ordine la casa, senza aprirla al mondo. Devi perdonare. È un mondo passato, erano brutti tempi, insistette. Ma Anna si era già voltata, perentoria. Non posso più nasconderlo.

L’immobilità della sala era turbata solo dallo sciabordio dell’acqua e dal sugo sui fornelli, quest’ultimo cominciava ad emanare un leggero sentore di bruciato, e dalle immagini che si susseguivano sullo schermo. L’ossessione rimane quella di sigillare le frontiere e impedire alle persone di ricevere protezione. La madre diede un ultimo sguardo alla figlia ammutolita davanti alla tv. Si preoccupò un istante per lei, ma non disse più nulla, prese la borsetta e aprì la porta. Scese le scale, aggrappata al corrimano. L’angoscia, la vergogna per quella verità che era riuscita a far naufragare nel fondo della sua coscienza stava emergendo. Ma non voleva pensarci. Si affrettò verso la casa dell’amica. Forse arriverò in tempo per l’ultima partita.

***

In macchina, seduto dietro, con la testa che sbucava fra Anna alla guida e scatoloni di dépliant ammassati sul sedile del passeggero, Samuele si sentiva come un bambino. La Peugeot grigia, in quei mesi, si era riempita di materiali politici gettati alla rinfusa, tra il solito carico di cornici, vasi e altri oggetti d’arte. Restava giusto lo spazio che gli consentiva di farsi riaccompagnare a casa.

Samuele fischiettava, il pomeriggio era stato proficuo: quelle 20 firme raccolte, compresa quella di una vecchia signora che aveva visto servire alla Festa dell’Unità, lo avevano messo di buon umore. Guardava Anna da dietro il sedile: aveva una felpa viola di pile, un paio di jeans, capelli sciolti; è la prima volta che la vedo senza giacca, tacchi e tutto il resto. È bella comunque, sarà stata di fretta. Fermiamoci a bere qualcosa! No Sam, grazie. Non intendevo fermarmi qui, tranquilla, precisò divertito vedendo che la macchina aveva appena imboccato Viale Dante. In quella strada, che prendeva il nome dal padre della lingua italiana, di italiano restava ben poco. Ristoranti cinesi, supermercati pakistani, bancarelle ambulanti di marocchini si susseguivano lungo i marciapiedi. Samuele, mentre la radio gracchiava qualcosa sul meteo previsto per Pasquetta, indicò una donna che pedalava, sporte appese al manubrio e uno scialle colorato sulla testa. La sai quella barzelletta? Se vedi una zingara in bicicletta non metterla sotto, perché la bicicletta potrebbe essere la tua. Gettò un’occhiata ad Anna, mentre ridacchiava; lei, di rimando, abbozzò un sorriso, forse per non deluderlo.

Domani possiamo dedicarci alle vie vicino alla stazione, venerdì Festa dell’Agricoltura e poi abbiamo finito. Samuele aveva estratto dallo zaino di Anna l’agenda con la loro tabella di marcia: la suddivisione delle strade del paese, pomeriggio per pomeriggio, fino a domenica 25 aprile, giorno della cerimonia pubblica. A che ora chiudi il negozio domani? Ci dovrebbe essere anche Davide, vi passo a prendere io, se no qui dentro in tre non ci stiamo, rise. Ora alla radio passava una canzone pop inglese, ritmata ed energica, che ben si conciliava con il suo stato d’animo. La chiusura della raccolta era vicina, mancavano solo quattro giorni, e il numero delle firme era molto superiore a quello che avevano previsto: domenica sì che sarà una vera liberazione. Domani? Domani forse non ci sono, vi lascio da soli. Samuele, stupito, avrebbe voluto chiederle il motivo, la prima assenza in tanti mesi, poi lo squillo del cellulare di Anna lo interruppe. Scusa, me lo passi? Dovrebbe essere nello zaino. Samuele infilò la mano in una tasca e agguantò il telefono, vide sullo schermo illuminato il nome Franca. Anna, senza togliere gli occhi dalla strada, abbassò il volume della radio e allungò la mano. Samuele notò una strana smorfia sul suo viso, poi spinse il tasto rosso, rimanendo taciturna. Tutto ok? Non ho voglia di sentirla, tutto ok. La macchina percorreva le vie del centro, le strade erano deserte, solo al Bar Occidentale, il solito frullo di gente.

Conosci il signor Corbara? azzardò lei a un tratto. Samuele già frugava nel proprio borsello alla ricerca delle chiavi di casa. La guardò perplesso, il nome non gli ricordava niente. Forse lo hai visto, è un signore molto anziano, sulla novantina, che vive in campagna. Samuele si stupì. Perché è tanto interessata a questo Corbara? La macchina stava rallentando; afferrò la maniglia e aprì la portiera. Grazie Anna, allora se domani non ci sei, ci sentiamo per domenica, farai un figurone. Se possono esserti d’aiuto, butto giù anch’io due righe per il discorso, ma tanto sei più brava tu. Le fece l’occhiolino e uscì dall’automobile che subito ripartì.

***

Il sole era ancora alto nel cielo. Il signor Corbara alzò lo sguardo a fatica, facendosi ombra con la mano. Da qualche ora i merli che volavano intorno al casolare gracchiavano eccitati; si avvicina un acquazzone. Non fece in tempo a rientrare in casa che sentì il motore di una macchina entrare nella sua proprietà e poi spegnersi. Corbara si stranì, burbero e solitario com’era, non erano molte le visite che riceveva durante l’anno. E questa cosa vuole? Da una Peugeot grigia scese una donna con un grande sorriso, caloroso e amicale. Buongiorno, mi chiamo Anna De Stefani, lei è il signor Domenico Corbara, giusto? Il vecchio si pulì la mano callosa, sporca di terra, strofinandola sulla camicia e annuì: Minghì, piacere. Ha un minuto per me? Il vecchio guardò la mole di documenti che la ragazza portava con sé, fra qualche minuto quelle carte si sarebbero inzuppate d’acqua. Venite avanti, e sta per piόvre.

La sua casa era un trasandato covo di ricordi; facendole strada si sentì spogliato. Ma Anna era già entrata, appoggiando sul tavolo il suo carico di fogli e, spigliata, aveva già iniziato a parlare. Si starà sicuramente chiedendo perché sono qui. Le ruberò solo poco tempo, mi aspettano a casa, disse per sembrare rassicurante. Forse ci siamo visti in paese? Io sono la proprietaria del negozio di antiquariato. Con un comitato di amici stiamo raccogliendo firme contro l’apertura di un nuovo centro di accoglienza per migranti nelle vecchie scuole. Guardi, io non mi sarei mai sognata di fare politica, ma i migranti stanno diventando troppi, sembra un’invasione.

Mentre ascoltava infastidito, Corbara era distratto dallo sguardo della donna che si muoveva per la stanza, soffermandosi sulle onorificenze al merito partigiano e sulla foto, ormai ingiallita, che lo aveva immortalato, giovane, insieme alla sua brigata. Ha detto che è proprietaria del negozio di antiquariato? Antichità giusto? Anna, un po’sorpresa, annuì. Corbara si diresse verso la stanza da letto, dalla quale tornò con una vecchia foto che ritraeva due giovani adolescenti. La didascalia in inchiostro blu recitava: Antonio e Domenico, 1940. Anna aggrottò la fronte. Le servirono alcuni secondi per riconoscersi nei lineamenti e negli occhi del nonno. Guardò quel misterioso vecchio con aria interrogativa; lui annuì. È strano che io non abbia mai sentito parlare di lei, mio nonno era un gran chiacchierone.

Corbara scrutò Anna con attenzione. Sembra che il destino abbia giocato con me per tutti questi anni, fino a portarti qui. Riaffiorò in lui il ricordo dei pomeriggi passati insieme ad Antonio a fantasticare sulla fine di quella merdosa guerra che aveva impoverito e incattivito tutti. Il ricordo della scelta che li aveva divisi. A sognare più forte ero sempre stato io, tanto che poi avevo deciso di raggiungere la Brigata del Diavolo dopo aver compreso che sognare non mi bastava più. Antonio era sempre stato più docile, pratico e con i piedi per terra, nessun grande ideale, nessuna chimera a cui sacrificarsi. Tuo nonno è stato per tanti anni un grande amico, quando l’amicizia era l’unico appiglio a cui tenersi stretti, in un mondo che stava diventando macerie. Cosa è successo poi? – domandò Anna incuriosita. Io mi sono unito ai partigiani, Antonio non avrebbe mai abbandonato la madre malata, tua bisnonna, ed era rimasto l’unico uomo in casa. Ha fatto quello che ha ritenuto giusto: occuparsi della famiglia e mettere su un bel negozio per portare il pane a casa.

È proprio per il negozio che sono qui e se lei ha a cuore il ricordo di mio nonno dovrebbe contribuire a salvare questo patrimonio minacciato dall’arrivo di altri migranti. Da bambina scrutavo meravigliata ogni pezzo in vendita, inventando per ognuno delle storie. L’ho sempre amato quel negozio, tirato su con l’impegno dal nulla! Corbara, che sulle prime aveva cercato un modo per liquidare in fretta la donna, non riuscì a contenersi. Quel negozio non è sorto dal nulla! sbottò d’improvviso, meravigliato lui stesso della rabbia che avevano sprigionato quelle parole. Si alzò di scatto dalla sedia e raggiunse la finestra che si affacciava sull’orto. La salvezza della tua famiglia l’ha pagata un’altra famiglia. Madre, padre, quattro figli. Ebrei. La delazione che fece tuo nonno è la vostra eredità, insieme al negozio. E proprio tu ora parli di invasione? Mentre pronunciava quelle frasi il suo sguardo era su Anna, visibilmente sconvolta, interdetta. La penna, con cui aveva giocherellato per tutto il tempo, giaceva ora immobile, sopra i documenti. Ora, sul suo viso, i segni della vecchiaia sembravano essersi acuiti, come se il tempo in quella casa avesse ripreso a scorrere, ma più velocemente, per mettersi al pari con il mondo.

Guardò fuori, pentito per quel rancore sopito ed ora esploso. I rospi avevano preso a gracidare insistentemente. È meglio che tu vada. Sta per arrivare un temporale, la natura non mente. Disse placido prima che lei potesse far ordine nei suoi pensieri e protrarre quello spiacevole incontro. La vide raccogliere le sue cose in fretta, confusa, offesa e la guardò andare via. Quando il rumore del motore si fece lontano, rombò un tuono e la pioggia iniziò a cadere.

***

Attorno al banchetto si era formato un capannello di gente incuriosita, i volantini andavano a ruba tanto che Anna dovette andare in macchina a prenderne altri. Al parcheggio, poco distante dalla piazza, incontrò Samuele che con un gesto di cavalleria l’alleggerì dal pesante malloppo di volantini. Sempre in ritardo tu, eh? Scusa ma sono stato sveglio tutta la notte per scrivere il tuo discorso, come mi avevi chiesto. Grazie Sam, rispose Anna sorridendo, alla fine ho fatto da me. Va bene, ma ormai prendilo lo stesso, magari può servirti. Anna aveva notato il tono scocciato di Samuele. Scusa, sono una stronza: stasera spritz al Bar Occidentale, offro io! E sorrise, sapeva che quel tanto bastava per farsi perdonare. Non può capire il casino che ho in testa, non ora, non così. Darebbe di matto, faccio qualche battuta, sorrido, non se ne accorgerà. Nel frattempo, i suoi occhi si spostarono verso la folla che cominciava ad accamparsi davanti al palco in attesa che la festa avesse inizio. Diamo il via alle danze? Ti vedo un po’ nervosa, Samuele rise. Facile parlare per uno che non vuole prendersi il disturbo di salire sul palco, lo punzecchiò Anna, mentre sentiva l’adrenalina salire lungo la spina dorsale. Non basta essere bravi con le parole, ci vuole il tuo carisma Anna, questa gente si fida di te! Dico solo che avremmo potuto scegliere un’altra data, forse ora sarei più tranquilla. Cazzo, c’eri pure tu alla riunione di comitato, perché non hai contestato in sede? Ora è tardi per i ripensamenti, te la stai solo facendo sotto dalla paura. Settant’anni fa gli Italiani si liberavano dallo straniero nazista, noi vogliamo liberarci dallo straniero di oggi, questo devi dire. Fammi dare una lettura al tuo discorso, va’. Con un gesto d’istinto Anna accartocciò i fogli prima che Samuele potesse buttarci gli occhi sopra. Lascia stare, leggerò il tuo, sei ancora imbattibile. Anna si allontanò dal banchetto. Devo essere impazzita! Guardò i suoi appunti, poi quelli scritti da Samuele, un’ancora di salvezza rispetto all’autodistruzione che aveva programmato la sera precedente dopo un bicchiere di troppo. Da lontano sentì la musica abbassarsi e una voce che iniziava la presentazione.

Ringrazio tutti i presenti per averci permesso di festeggiare oggi la prima mozione popolare del comitato cittadino Fronte Liberazione. Panico. Non voglio salire su. Chicazzomelhafattofare. Sciogliti, non ci pensare, vai e leggi quello che ha scritto Samuele. La mia è una storia privata, è una storia che non esiste. La Storia non. Ora Sali sul palco e leggi. Diamo il benvenuto ad Anna De Stefani, portavoce del comitato, che con questa coraggiosa raccolta firme pone il primo mattone per la ricostruzione e la riqualificazione delle nostre periferie.        

Sorridi, rilassa il viso, sembrerai una pazza. Questa gente si fida di te. Questa gente si fida di me e io sto per fare un discorso pieno di, parole che non. Non se ne accorgeranno. Buongiorno a tutti! Il microfono fischia. Perfetto. Guardo la folla, Samuele in prima fila: se n’è accorto forse, mia madre se n’è accorta, lo sguardo di chi ha capito. Due file più indietro, due occhi piccoli, vitrei, scrutano. Il cuore si ferma per un istante, il sangue raggela. Corbara? è qui per. Bene, ora che siamo al completo possiamo dare inizio alla commedia. Butto il discorso scritto da lui, scusa Sam. Tiro fuori i miei appunti stropicciati da tasca. Me la voglio prendere questa croce, voglio urlarlo, delatore, urlare a questa piazza che mio nonno è stato un delatore, che questa storia non mi fa dormire, il mondo è un cazzo di carnaio in cui si sgomita per una boccata d’aria e giù gli altri. Sospiro: Signori e signore, lo spettacolo della mia disfatta.

Sono in piedi al centro del palco, il microfono in mano e la bocca che si muove ma l’amplificazione non sembra funzionare. L’unica cosa che si sente chiaramente è il coro del corteo antifascista che si sta riversando sulla piazza. Da sotto il palco vedo sgusciare via Alberto, diciassette anni freschi, figlio dell’elettricista Fregozzi. Corre con in mano ancora le forbici con le quali ha tagliato i fili dell’amplificazione rischiando di restarci fulminato, e raggiunge il padre alla testa del corteo. Sono incazzati neri perché ci siamo presi la loro festa. Sorrido mentre penso che questa storia non potrebbe avere un esito migliore ed ecco che mi arriva un uovo in faccia, il guscio si frantuma contro il mio naso pronunciato e il tutto mi esplode in pieno viso. Ora sì che non potrebbe andare meglio. Una pioggia di uova, frutta e ortaggi piomba sulla folla puntando il palco, puntando me. In piazza è il caos. Molti scappano, altri improvvisano una falange per affrontare il corteo ortofrutticolo-antifascista. Una vecchina tira fuori una sporta di tela dalla borsetta e raccoglie qualche verdura ancora intatta prima di andare via trafelata. Allargo le braccia per accogliere tutto ciò che arriva e, rischiando di scivolare sulla frittata che ormai ricopre tutta la superficie del palco, faccio un inchino rivolto all’unico spettatore rimasto: il signor Corbara.