Gigi tassista (Ones Farhat, Pietro Battaglia, Wang Yifei)

Era sera, l’ora di salutarsi.

“Ciao” disse Gigi, con voce morbida, restio a togliere gli occhi da Elena.

“Ci vediamo presto” rispose Elena, abbassando lo sguardo con un sorriso timido, che a Gigi parve attraente.

Non si mossero, non volevano separarsi.

“Devo tornare a casa. È tardi” disse Elena, come al solito.

“Ehi sì, il tempo è volato. Ti accompagno” disse Gigi, come al solito.

“Lei è molto gentile”, gli fece eco lei.

Sedevano nel taxi di Gigi – non era suo, ma della compagnia per cui lavorava – sul sedile posteriore, senza dir nulla. Anche lui non parlava, ma tra loro non c’era imbarazzo, come se il silenzio fosse un tacito accordo.

La luce di un lampione attraversava il finestrino, illuminando il viso di Elena. Gigi la rimirava. I suoi capelli biondi gli sembravano belli come un sole che non tramonta, e i suoi occhi marroni gli rimanevano in mente per giorni. Elena guardò fuori dal finestrino: Bologna “la rossa” le era sempre piaciuta e da lì la vista era magnifica. Rosso dei tetti, delle strade, delle pareti. Poi le due Torri, la Cattedrale.

Il profumo nella vettura raccontava a Gigi che genere di donna fosse lei: si truccava, ma non troppo, vestiva bene con abiti comodi, usava parole forbite. Dopo aver saputo quanto Gigi tenesse al suo taxi, gli aveva regalato un arbre magique che emanava quella fragranza rilassante.

Il taxi riprese la sua marcia a velocità ridotta e dopo pochi metri si fermò di fronte al portone di una villa signorile in collina. Aveva tre piani e dodici finestre sul davanti, decorate in stile spagnolo.

“Siamo arrivati” sospirò Gigi. Non gli andava di lasciarla andare, era ancora troppo presto, nemmeno le nove. Ma Elena doveva tornare a casa entro quell’ora, non sgarrava mai. Era molto misteriosa riguardo la propria vita privata, e lui non le domandava più di tanto. Era facile immaginare che avesse ricevuto un’educazione molto severa.

“Grazie mille. Buona serata! Ci sentiamo!” disse Elena abbracciandolo da dietro. Poi scese dalla macchina.

“Elena,” Gigi la chiamò d’un tratto, dal finestrino aperto “posso salire da te?”

Elena esitò. “Mi dispiace,” un rifiuto del genere non gli era nuovo, “ma potresti venire un’altra volta – esitò – Domani?”

Il volto di Gigi diventò raggiante, non se l’aspettava: “A domani! Domani ti porto a fare compere, non dimenticarlo!”.

“Ti aspetto.” sorrise Elena con dolcezza, le guance arrossate come mele mature. Fece un passo in avanti, si chinò e lo baciò sulla bocca.

“Ciao!”

“Ci vediamo”, concluse Gigi dopo aver messo in moto.

Si salutarono di nuovo da lontano, lui nel taxi, lei da lassù, mentre entrava in casa. Per la prima volta, al rammarico della separazione, si mischiava un grande entusiasmo.

“Domani, domani vado a casa di Elena. Potrò conoscere i suoi genitori? Cosa gli dico? Cosa mi metto? …” Il cuore di Gigi cantava.

Tornato a casa, ripensandoci, Gigi era preoccupato. Sarebbe piaciuto ai suoi? Si guardò allo specchio: era un bel ragazzo di 27 anni, alto e palestrato. I suoi occhi blu erano amichevoli, abituati a guardare le persone con attenzione.

La gentilezza nascondeva la sua forza d’animo e il suo essere introverso rendeva agli altri più leggero il peso della sua cortesia. Non a caso, aveva conosciuto Elena dopo averle dato un passaggio gratis sul suo taxi.

E già da quel giorno si era convinto che niente li avrebbe più separati.

Altro giorno, stessi raggi di un sole pallido, nascosto tra le nuvole. Gigi alzò lo sguardo al cielo, stufo di quel tempo instabile che ombreggiava la città: ‘’Si decidesse una buona volta! O pioggia o sole!”. E mentre aspettava che qualcuno si avvicinasse al suo veicolo e che il sole assumesse una posizione coerente, saltava da una stazione a un’altra della sua radio, in cerca della radiocronaca di Bologna – Frosinone. Aspettava quella partita da settimane, ci aveva pure puntato dei soldi, al centro scommesse sotto casa sua. La radio sembrava ignorare la sua curiosità, ogni stazione era l’eco di quella precedente e l’anticipazione di quella seguente, senza un solo accenno al campionato di calcio. Gigi continuava a cambiare stazione, finché una parola gli rimase impressa, la stessa che dalla cassa dello stereo sbatteva contro i finestrini da una decina di minuti: ‘legge anti-stranieri’.

‘’E’ ufficiale, il governo ha approvato la le…’’- click, altra stazione, magari alla prossima avrebbe trovato la partita.

‘’Migliaia di stranieri saranno rimpatriat…’’- click- ‘’legge disumana perché…’’- click- ‘’ la legge di cui il paese aveva biso…’’. Click.

Gigi era disperato.

Che fare?

Dopo attimi di agitazione finalmente eccola! Una stazione trasmetteva Bologna – Frosinone. Menomale, stava per perdere la pazienza. Ma si sa, al peggio non c’è mai fine: un ticchettio al finestrino lo distrasse proprio mentre stava per segnare Orsolini. Un signore sulla sessantina, vestito tutto di nero, con gli occhi piccoli e la bocca larga, salì a bordo appena Gigi alzò lo sguardo. Brontolando per la grigia giornata, dopo aver indicato l’indirizzo a cui doveva andare, iniziò una raffica di lamentele: considerazioni su considerazioni che lottavano con la radiocronaca per il dominio della piccola vettura:

‘’Ha sentito della nuova legge?’’,  tubava il cliente. Gigi non ne poteva più, prima non trovava la partita, ora questo passeggero. Sembravano tutti  ipnotizzati dalla stessa notizia e il poveretto fu costretto a sentirne parlare ancora una volta:

‘’Finalmente li buttano via, maledetti”. E mentre con fierezza pronunciava quelle parole, l’allegro passeggero si porgeva in avanti, per dirigere con maggiore potenza le sue parole alle orecchie di Gigi:

‘’I posti di lavoro aumenteranno del 80% e la criminalità scenderà del 70%. Anche lei deve essere sollevato dalla notizia, niente più delinquenti in giro, soprattutto per chi fa un lavoro come il suo deve essere un sollievo’’.

Stremato da una mezz’ora di parole indesiderate, Gigi capì che l’unico modo per placare la logorrea del passeggero era assecondarlo.

‘’Ha proprio ragione, – commentò – finalmente mi libererò dei passeggeri fastidiosi. Da domani le mie giornate saranno più sicure”, ma il tentativo di addomesticare l’irrequieto compagno di viaggio fallì miseramente. Iniziò infatti una complicata filippica sulla grandezza d’animo e di spirito del nuovo governo, sull’importanza del provvedimento, su quanto sarebbe stato proficuo per il paese muoversi già da prima: ‘’se questa legge l’avessero fatta un paio di anni fa, oggi saremmo uno dei paesi più ricchi al mondo!”- continuò con tono inesorabile. Gigi ancora una volta lo assecondò, tra pochi minuti quella radio umana sarebbe scesa dal suo taxi : ‘’meglio tardi che mai, vedrà che tra un paio di anni riusciremo a liberarcene. Solo al pensiero sento le tasche piene!’’.

Destinazione raggiunta per fortune di Gigi.

Con i nervi alle stelle, sia per il passeggero che per la partita lasciata a metà, il tassista si mise per strada per raggiungere Elena, unica consolazione in una giornata poco piacevole.

Prese la via principale per raggiungere la casa della ragazza ma proprio all’incrocio fu costretto a fermarsi. Un film apocalittico si era appropriato della grigia città: macchine lasciate in mezzo alla strada, sospese. Uomini, donne e bambini avvolti in una nube caotica, tra chiacchiere, risate, urla, cori. Il suo pensiero andò dritto a Elena, quella sera non l’avrebbe vista, era tutto fermo. Intanto nella confusione generale, una sola parola rimaneva percettibile e chiara: legge anti-stranieri. Le strade si erano trasformate in una tragedia di cui Gigi era uno spettatore forzato: presto arrivarono folle di persone munite di striscioni, di cori contrapposti, c’era chi piangeva di gioia per un cambiamento tanto atteso e chi continuava a tenere stretta la mano del vicino, dell’amico, del compagno di scuola o del proprietario del negozio sotto casa pur di non lasciarli cadere nel vortice di manganelli che li avrebbe trascinati via. Nel caos Gigi si accorse che un ragazzo stava battendo sul finestrino e urlando per attirare la sua attenzione:

“La prego, mi porti via di qua!”.

Un cliente è sempre un cliente, lo fece salire.

Nel buio della notte, solo la lucina interna del veicolo illuminava gli interni. Il panno delicato si insinuava negli interstizi tra la plastica scura del taxi, arrivando ad ogni granello di polvere, fino a rendere lucido ogni centimetro. Gigi, curvo e chino sui sedili, si prendeva cura della sua vettura parcheggiata in un vicolo semi deserto appena fuori casa.

Passò di lì, sul marciapiede, una donna di mezza età con il suo cane, e si intenerì vedendo quello spilungone rattrappito sui sedili a pulire il proprio taxi alle dieci di sera. Il cane, tirando come un ossesso, la trascinò a pochi metri, così poté vedere che l’uomo, senza ombra di dubbio, stava parlando da solo, intavolando chissà quali discorsi. Uno strattone al guinzaglio e la donna si allontanò con il cane, accelerando il passo, voltando le spalle al taxi.

Gigi non si era accorto di niente, continuava a strofinare e a sussurrare:

“Un traffico infernale oggi. Dovevamo vederci stasera, ma per colpa del traffico niente da fare. Quel ragazzo: andava a protestare per la legge. Gente che bloccava le strade, striscioni. Così non sono riuscito andare da Elena, ho fatto troppo tardi, lei mi aspettava. Le ho mandato un messaggio e non mi ha nemmeno risposto. Dalle nove in poi non può uscire mai, è stata chiara. La sua famiglia deve essere davvero severa. E suo padre poi: deve essere una persona intelligentissima, di quelle che ti inquadra con un solo sguardo e con un altro ti fulmina” – Gigi era alle prese con i vetri: si erano macchiati di qualche sostanza chimica: “ma che ti hanno fatto oggi? Maledetti fumogeni, maledetti casinisti. Come ti è sembrato l’ultimo ragazzo che abbiamo portato? Non sembrava arrabbiato e violento come tanti altri, mi sembrava solo triste. Se ne stava rannicchiato sul sedile, tutto zitto. Allora gli ho chiesto cosa avesse da manifestare, e lui mi ha solo detto di aver perso due amici dell’università. Erano filippini, li hanno portati via ieri. O erano pakistani? Bo, mi confondo sempre. Sarà anche stato molto triste, ma non ci ha nemmeno ringraziato per averlo scarrozzato in quel casino. Avrei potuto lasciarlo lì e arrivederci e grazie” – con i vetri aveva finito, posò lo spazzolone, dedicandosi ai cerchioni – “per colpa sua e delle sue proteste, non sono riuscito a passare da Elena. Questa volta mi avrebbe fatto salire su da lei” – aveva finito per quella sera, spense la lucina e chiuse le portiere, esitò ancora davanti al taxi prima di rientrare in casa: “Ti confesso una cosa: entrare in quella villa bellissima, confrontarmi con la sua vita, con la sua famiglia, forse mi spaventa un po’. Buonanotte, a domani”. Voltò le spalle e dieci minuti dopo era già a letto che dormiva.

Il taxi, ora scintillante, navigava nel traffico di Via Ugo bassi, la città era più calma e il sole di maggio batteva sui tettucci delle auto. La radio trasmetteva l’ultima partita della stagione: Bologna  – Lazio, mentre Gigi aspettava di caricare il prossimo cliente. Ultimi venti minuti, i rossoblù avanti per 1 a 0 con una rete di Destro. Gigi era al settimo cielo, se non fosse che Elena non rispondeva da due giorni ai suoi messaggi.

La radio taxi gracchiò un indirizzo nelle vicinanze, Gigi fece inversione, così da essere dal cliente in meno di cinque minuti. Al termine della partita ne mancavano dieci, la Lazio faceva pressione e si apprestava a battere l’ennesimo calcio d’angolo. Gigi sudava freddo per la tensione. Appena arrivato ai palazzoni grigi, pregò che non salisse un rompicoglioni o uno del Sassuolo. Gigi non vedeva anima viva, del cliente nessuna traccia, eppure il civico e la via dovevano essere giusti, c’era solo un marocchino con una lunga tunica sul marciapiede a venti metri. Gigi accostò al marciapiede, abbassò il finestrino e chiese allo straniero: “Sai dov’è Via Fiorello Bini 4?”. Lui per tutta risposta sorrise, sulla faccia scavata e olivastra aveva una folta barba bianca e dei baffi importanti, lo salutò e salì sul retro della vettura. Gigi si allarmò, pensando a una rapina, un dirottamento, ma prima che potesse protestare lo straniero scandì con un buon italiano:

“Ho chiamato io. Mi può portare in via Erbosa 35? Sa dov’è?”. Il tassista notò che il marocchino aveva con sé una valigia grigia e sbiadita, con spesse cerniere, delle dimensioni di un bagaglio a mano.

Quindi si ricompose: “Certo, anche se non ci vado spesso in quella zona”.

Si tranquillizzò: un cliente era sempre un cliente. Ripartì e tornò a concentrarsi sul match: “..Parolo la gira per Correa che punta Poli al limite dell’area, si sposta la palla…”. Mentre scivolava con la sua vettura tra strade secondarie deserte, Gigi alzò il volume della radiocronaca, dato che il marocchino se ne stava zitto e buono a guardare fuori dal finestrino. Lo squadrò meglio nello specchietto retrovisore: aveva molte rughe, dalla tunica turchese uscivano braccia e gambe esili. Era solo un vecchio stanco. Ma almeno lo lasciava ascoltare la partita in pace, non era poco e si guadagnò la sua simpatia. Ecco Via Erbosa: dov’era il 35? Era proprio una zona dimenticata da Dio, non portava mai nessuno da quelle parti.

“…ultimo minuto di recupero – la strada era deserta, sembrava abbandonata, era tutto chiuso –  la Lazio continua a spingere sulla destra, cross teso di Wallace, testa di Immobile: PALOO! E poi spazza Orsolini! L’arbitro fischia la fine! Il Bologna è campione d’Italia, campione d’Italiaaaa!” Gigi ululò di gioia e iniziò a strombazzare con il clacson e a cantare cori da stadio. Senza essersene reso conto, si era fermato in mezzo alla strada per la tensione. Era l’ottavo scudetto, dopo sessant’anni dall’ultimo: fantastico.

Il vecchio intanto era scomparso, sul sedile posteriore c’era solo la sua valigia grigia: dove si era cacciato? Lo vide subito, pochi metri più in là sul marciapiede, di fronte a una saracinesca abbassata. Scese dalla vettura:

“Ei tu, i soldi! Guarda che devi pagare, spendi quattordici!” – disse avvicinandosi al vecchio, che rimaneva impalato davanti a un locale abbandonato. Gigi stava per dargli un bello strattone, ma il vecchio si voltò e gli disse: “Tenga”. In mano aveva una banconota e due monete: quattordici euro precisi. Notò che aveva gli occhi lucidi. Erano davanti al civico 35, un ristorante chiuso con un’insegna luccicante “PUNTO PRANZO”, accompagnata da caratteri arabi. Sulla saracinesca campeggiava una scritta a bomboletta: “FOGNA CHIUSA”. Un’altra scritta sotto: “MARROCCHINO DI MERDA” . Scritte così erano su tutti i muri e sulle saracinesche di molti altri negozi chiusi. Tutto nella via sembrava svuotato, abbandonato.

Il tassista, ora a disagio, prese i soldi dalle sue mani e lo ringraziò.

“Per favore portami in un bel posto della città, – sussurrò l’altro con il capo chino – ti pago.” A Gigi sembrò quasi una supplica, così lo invitò a salire sul taxi.

“Qual è il suo nome?” chiese Gigi.

“Youseff” – rispose. Sembrava più tranquillo dopo essersi seduto, come si fosse messo al riparo. Va bene ti porto lontano, ma dove? I festeggiamenti dello scudetto erano già in corso, ma abbassò la radio e s’inoltrò nella città. Nessuno gli faceva mai richieste del genere, si sentiva con le spalle al muro. Era quasi ora di cena, di nuovo il traffico. Guardando al rallentatore fuori dal finestrino, a Gigi sembrava tutto irriconoscibile. Erano in Piazza Liberazione, e al posto del solito grande mercato, vedeva carcasse di auto e immondizia. La maggior parte dei negozi erano chiusi o sventrati, con le vetrine rotte e le insegne vandalizzate. Le macchine erano ferme, tutto bloccato. A pochi metri da loro davanti all’entrata di un condominio sentirono delle urla, erano poliziotti. Uno di loro dava ordini:

“VIA DI QUA! OBBEDITE E NON VI FACCIAMO NIENTE!”. Dal portone, incalzati dalle spinte di altri poliziotti, uscirono una donna, un uomo e tre bambini. Probabilmente indiani. Trascinavano valige mezze aperte, avevano i capelli in disordine, provavano a spiegare qualcosa ai poliziotti. Youseff aveva smesso di guardare, si teneva la testa tra le mani. Gigi fece un’inversione rischiosa, beccandosi qualche insulto qua e là e si diresse in zona stazione. Qualcosa da far vedere allo straniero avrebbe trovato, anche se tutto sapeva di miseria e devastazione.

Imboccato il viale della stazione le macchine cominciarono a defluire, ma in lontananza si poteva percepire un grande brulichio. Il taxi macinò metri e, ai lati delle strade, i marciapiedi diventarono affollatissimi, una vera e propria carovana di persone. Una carovana di grosse valige, di stracci, di disperati che arrancavano verso la stazione per andare chissà dove. Cinesi, marocchini, nigeriani, indiani, albanesi, rumeni. Donne, vecchi e tanti bambini avanzavano come alla moviola. Gigi non sapeva più che pesci prendere: dove lo porto questo poveraccio? L’anziano aveva ancora la testa tra le mani, non diceva niente da parecchio. Gli venne da pensare a Elena, chissà quando la vedrò. Oggi non si erano scritti. Ebbe una folgorazione:

“Youseff mi è venuta un’idea. – disse Gigi rallegrandosi – Hai mai visto Bologna dall’alto?”. Fece l’ennesima inversione e sfrecciò in direzione dei colli.

Il taxi di Gigi, dopo lunghi minuti di attesa nel traffico, raggiunse finalmente le strade che si inerpicavano sui colli. Ora davanti agli occhi dei due viaggiatori si espandeva la città, che vista da quella prospettiva sembrava immersa in una bolla di calma. Davanti a loro la villa di Elena sussurrava a Gigi di avvicinarsi. Alcune luci del terzo piano si spensero mentre altre si accesero e il tassista, spegnendo il motore, si chiese quale fosse la stanza di lei.

Youseff scese dall’auto, c’era un leggero vento, freddo ma piacevole. Gigi lo seguì. Appoggiati al taxi, in silenzio, ammirarono la città avvolta dal buio della notte, ma illuminata come un cielo stellato:  “mi sembra di abbracciarla tutta, da qui” – disse il vecchio. I suoi occhi brillavano, la voce tremante tradiva tutta la sua emozione:

‘’mi sembra di poterla abbracciare come mi ha abbracciato tanti anni fa.’’.

Così gli occhi lucidi di Youseff iniziarono a parlare, a raccontare la storia di un uomo che come tanti non meritava una legge del genere. Gigi, per la prima volta, si trovò a pensare alla bellezza di una città che aveva dato troppe volte per scontata.

‘’Sa una cosa, Youssef? Anche per me questo posto è molto importante. Vede quella villa dietro alle nostre spalle? Lì abita la ragazza che amo”.

Il racconto nostalgico di Youseff, il freddo della sera, il cielo stellato e la vicinanza alla casa di Elena gli diedero il coraggio di andare incontro alla ragazza e di soddisfare il bisogno di vederla che lo attanagliava giorni.

Dopo esattamente 30 passi, durati circa circa 2 minuti, durante i quali si sistemò più volte la camicia e i capelli, si trovò davanti al portone dorato della villa. Senza esitazione, in fretta, per non pensarci troppo, citofonò. Si sentirono passi avvicinarsi sempre di più, finché non raggiunsero la porta:

“Salve, come posso aiutarla?”. Davanti a Gigi si presentò una signora sulla quarantina, elegante e dall’espressione severa.

“Cercavo Elena, sono un amico”, e mentre diceva queste parole già  immaginava di varcare la soglia della porta e di avvicinarsi a lei.

“Eléna la mia domestica? – rispose con tono indifferente – È tornata al suo paese, non poteva più stare qui”.

“Cosa? Elena andata via?” Gigi non capiva. “Questa non è casa sua? Non ci posso credere!”. Scosse la testa, non riusciva quasi a respirare.

Elena gli aveva nascosto la verità. Gigi amava Elena con tutto il cuore, le aveva dato tutta la fiducia di cui era capace. Ma sembrava che a lei non bastasse.

Gigi tornò alla macchina sentendosi perduto. Visto che non aveva un bell’aspetto, Youseff cercò di confortarlo: “Tranquillo, amico, cos’è successo?”.

“No, no. Non so…”. Gigi si coprì il volto con le mani e spiegò l’accaduto. Solo poi riprese a respirare profondamente, sentendosi un po’ meglio. Si era fatto un’idea sbagliata di Elena. Di una ricca ragazza italiana.

“Forse si vergognava. Ma non ti ha mai mentito davvero. Forse non hai chiesto abbastanza.” Disse l’anziano, mentre accarezzava il tessuto della veste. Dette una pacca sulle spalle di Gigi e gli propose di andare a cercare Elena. “Non ti rammaricare prima che sia troppo tardi.” disse.

“Hai ragione”. Doveva trovarla e parlarle faccia a faccia. Prima doveva portare Youseff alla stazione. Il treno che lo avrebbe portato fuori dall’Italia sarebbe partito tra quaranta minuti.

Sulla strada, Gigi pensò cosa dire a Elena. Non gli importava che fosse straniera o una domestica, nemmeno che gli avesse nascosto qualcosa. La legge anti-stranieri l’aveva spaventata di sicuro. Doveva riprendersela, nulla avrebbe potuto separarli.

Gigi e l’anziano erano al binario giusto: erano arrivati in tempo. Un poliziotto schedò Youseff prima che salisse sul vagone. Il tassista lo aiutò a caricare la valigia. Si abbracciarono e si salutarono. Gigi scese dal vagone con gli auguri dell’anziano e la speranza di trovare Elena: se voleva trovarla doveva muoversi. Le porte si chiusero, il treno partì e Gigi osservò l’anziano marocchino allontanarsi.

Il sole del crepuscolo lo scaldò, colorando d’oro i finestrini del treno, dove si riflessero vaghi i profili dei passeggeri – in grandissima maggioranza stranieri. All’improvviso, Gigi si fermò sul binario.

Una figura femminile: era Elena. Sedeva su quel treno, al finestrino!

“Elena!” Gigi gridò con tutta la voce che aveva in corpo, senza preoccuparsi degli sguardi altrui. Corse verso la carrozza e bussò al finestrino: “Elena, sono io, Gigi!”

Elena lo fissò con occhi stupefatti. Sembrava volesse sorridergli, ma non lo fece. Le labbra si aprirono e si chiusero, ma Gigi non riuscì a sentire attraverso il vetro, in mezzo alla folla rumorosa. Gigi tentò di salire, il convoglio prendeva velocità.

“Elenaaa!” urlò a squarciagola, correndo accanto al treno, finché non cadde su un fianco. Sentì qualcosa di liquido sul volto. Non sapeva se fossero gocce di sudore oppure lacrime. Il treno si allontanò e scomparve alla vista. Era troppo tardi.

Gigi si mise in ginocchio. Una parte di lui era rimasta con Elena.

“Non è finita!” urlò Gigi, dando un pugno a terra.

“Ti troverò di nuovo, Elena – disse rivolto al treno – Per me, per noi, per chi sta soffrendo come noi”.

E in quel momento, ricordò uno striscione sulla strada che aveva visto: “Non protestiamo per gli stranieri, facciamolo per noi.”