(Non) è un paese per negri (Mouctar Diawara, Sofia Kaloteraki, Silvia Pignatelli, Francesca Trognoni)

Aprile 2035

Succede sempre così. La notte prima di un giorno importante Salim dorme male, si agita, parla nel sonno e poi, ogni volta, decide di alzarsi prima del tempo, cercando di non svegliare Laura, che in realtà è già sveglia da un pezzo.

Si ripete ogni volta lo stesso copione, e anche Laura recita la sua parte. Fa finta di dormire per qualche minuto, sperando di riprendere sonno, ma alla fine raggiunge Salim in cucina.

Anche stamattina va così. Laura è rimasta sola nel letto, si gira e si rigira, ha caldo, si scopre, guarda l’orologio: sono ancora le 4.20, più presto del previsto. Sente Salim nella stanza accanto che prepara il caffè, sente i suoi passi nervosi e se lo immagina che gira intorno al tavolo, mentre ripete il discorso preparato in fretta il giorno prima. Laura tira un sospiro, si infila la vestaglia e scivola nella stanza accanto.

Come al solito, Salim non se ne accorge.

– Già in piedi?

Salim si gira di scatto. Abbozza un sorriso e balbetta qualche parola.

– Forse ci voleva una camomilla, al posto del caffè – gli sorride Laura.

Salim prende i fogli dal tavolo, un’occhiata veloce, una pagina dopo l’altra, alza gli occhi al cielo e poi guarda Laura, sconfortato.

– Dai Salim, stai tranquillo. Sai quello che devi dire, l’abbiamo ripetuto mille volte.

– Mi sembra di non ricordare niente, Laura.

– Dici sempre così, poi inizi a parlare e chi ti ferma. Pensa a quanto eri agitato quando sei venuto a parlare da me in radio per la prima volta. Sono passati dieci anni e non sei cambiato affatto. Dai, passami quei fogli e inizia a ripetere.

 

Aprile 2025

Mi ricordo quel giorno. Era di aprile, faceva caldo e si sentiva odore di fiori e di vita.

Dopo sette anni in Italia ancora mi stupiva l’alternarsi delle stagioni, questo magico gioco della natura.

In quel giorno, però, la primavera stentava a entrare nel mio cuore. Due giorni prima Ousmane era morto, ucciso da un colpo di pistola

Tu al tempo non mi conoscevi, ma io ascoltavo la tua voce in radio, ogni giorno: una voce profonda, calda. Parlavi con un leggero accento del paese, mai troppo marcato.

Mi fidavo già di te. Sapevo che avresti capito.

Al mio arrivo alla radio ti vidi e per la prima volta diedi un volto, un corpo a quella voce.

– Piacere, Laura. Grazie di essere qui.

– Salim, piacere mio.

Ci stringemmo le mani e qualcosa mi disse che quelle mani le avrei strette ancora.

Ero emozionato e nervoso: stavo per parlare in pubblico per la prima volta, in una lingua che non era la mia, che avevo, sì, imparato abbastanza bene, ma in cui spesso mi sentivo ancora prigioniero. Tu mi prendesti la mano per tranquillizzarmi, mi guardasti e a fior di labbra mi dicesti di rilassarmi. Facile per te, che questa cosa la fai tutti i giorni nella tua lingua, pensai subito. Però quel gesto mi sciolse davvero.

– Buon pomeriggio a tutti gli ascoltatori e benvenuti ad una nuova puntata di Kalima, parole dal mondo. Oggi è qui con me Salim  Magoro. Tra le vittime dell’attentato di Biancavalle di due giorni fa c’è anche Ousmane Jakande, di 40 anni, a cui Salim era molto legato

– Buon pomeriggio Laura, buon pomeriggio a tutti. Ousmane era mio amico, ci siamo conosciuti quando siamo arrivati a Castelnegro, nel 2018. Ci siamo incontrati a Lampedusa, nel centro di accoglienza da dove poi ci hanno smistati e siamo arrivati qui. Dopo un po’ di tempo, abbiamo trovato lavoro al mercato come facchini

– Fermiamoci un attimo, Salim. E arriviamo al 29 agosto di sette anni fa. Come ogni mercoledì ti rechi al mercato per lavorare. Poi cosa succede?

– Succede che a un certo punto vedo un uomo sulla quarantina avvicinarsi a noi con una pistola in mano…

 

In quel momento sentii una fitta al cuore, le parole si bloccarono in gola, non riuscii più a parlare. Tu mi hai scritto su un bigliettino “hai bisogno di una pausa?”. Ho fatto no con la testa. E allora, di nuovo, hai messo la tua mano nella mia e sei intervenuta tu.

 

– Un uomo armato, dunque, è venuto verso di voi e ha iniziato a sparare.

– Ero spaventato, non sapevo cosa fare. Sono scappato, ma un proiettile mi ha colpito. Altri due, tra cui Ousmane, sono riusciti a scappare, un altro fratello è rimasto anche lui ferito. Ho perso i sensi e mi sono risvegliato in ospedale. Non ricordavo cos’era successo, me lo hanno raccontato una volta sveglio.

– Che cosa hai provato in quel momento?

– La prima cosa che ho pensato è stata “cosa racconterò alla mia famiglia? Lo avranno già saputo?”. Ho provato vergogna, perché da dove vengo io, se ti sparano in strada sei un criminale Come avrei spiegato a mia madre che ero stato colpito per il colore della mia pelle? Sono arrivato in Italia perché la mia vita in Africa non era quella che volevo. Quando sono partito non avrei mai pensato di vivere una cosa del genere. Cosa posso dire, Laura? Ancora non mi spiego perché. So soltanto che quello che è successo l’altro ieri a Biancavalle

– Scusami se ti interrompo, cosa ci faceva il tuo amico a Biancavalle?

– Ousmane, dopo l’attentato di sette anni fa, ha deciso di andarsene da Castelnegro. Anche gli altri compagni se ne sono andati. Io ho pensato che andarmene non avrebbe cambiato niente. E quello che è successo al mio amico lo dimostra. Possiamo scappare, ma l’odio delle persone è ovunque.

 

Finita l’intervista andai in bagno e scoppiai in un pianto che per me fu una liberazione, era la prima volta che piangevo dopo non so quanti anni.

Sentivo, Laura, che anche se Ousmane non lo conoscevi, d’improvviso era diventato anche tuo fratello.

Uscimmo insieme dalla sede della radio.

Pioveva.

Subito ripensai a casa mia, in Africa, dove non esiste la primavera ma la stagione delle piogge.

Per la prima volta, in sette anni, mi sentii di nuovo a casa.

 

Aprile 2035

Adesso una casa ce l’hanno insieme, Salim e Laura.

Lui guarda fuori dalla finestra, lo sguardo carico di angoscia.

Laura lo osserva e pensa alla forza che l’ha spinto a fare della sua lotta personale, una lotta a favore di tutti. Allora sì! Può capire pienamente quello sguardo che mira lontano, vivido e impaziente. Quello sguardo in cui Laura tante volte, in quasi venti anni, ha intravisto la profondità del deserto e del mare.

 

Quando lasciò il suo paese, attraversando in camion il continente africano, fino alla Libia, Salim non poteva immaginare quello che lo aspettava, poteva soltanto stringere i denti nell’incertezza di un futuro che non oltrepassava l’indomani. Arrivare al giorno dopo era già un sogno che si realizzava.

Ogni tanto ne parla con orgoglio, altre è come se volesse lasciare quei ricordi coperti dal silenzio, silenzio martire di ciò che non ha ancora raccontato.

Tante volte le ha raccontato di come partì da casa sua con scarsissime risorse, in una giornata così secca e calda che già dal primo giorno credeva non gli sarebbe bastata l’acqua. Doveva arrivare in Niger e riuscire a prendere il passaggio per la costa della Libia, era riuscito a recuperare dei soldi ma gliene mancavano ancora la metà.

La strada era lunga, una volta attraversata la frontiera ed entrato in Niger, sapeva che avrebbe accettato qualsiasi cosa per guadagnare la cifra richiesta. Seguirono quattro mesi di attesa, nei quali si procurò pochi soldi, lavorando nei campi. Soldi che gli bastavano appena per mangiare. Allora lasciò la campagna e si spostò nella città da cui partivano le auto. Intorno a lui regnava il caos, gente disperata come lui cercava il passaggio, si costringeva a lavorare in condizioni pessime e pur così molti rimanevano bloccati per anni interi. Salim cercò con fermezza in tutta la città, fino a trovare lavoro nel negozio di un compaesano. Lavorò con intensità, più ore possibili, per partire al più presto.

Dopo qualche mese, pagò finalmente il viaggio fino alla Libia. Gli autisti non comunicavano neanche con i passeggeri: non ricevevano alcuna informazione sul viaggio, il percorso, le tappe. Avrebbero potuto mollarli nel bel mezzo del deserto, senza spiegazioni, e invece alla fine arrivarono in Libia – dove la terra finisce e comincia il mare. E di là dal mare, l’Europa, la terra della prosperità.

 

Aprile 2018

Il mio corpo, sulla barca, insieme ai corpi degli altri che viaggiavano con me, veniva travolto dalle onde. Chiusi gli occhi, come se volessi calmare gli animi di tutti, calmare il mare stesso.

Il viaggio iniziò. Alcuni restavano immobili dalla paura, simili a statue in profonda preghiera. Chissà se respiravano.

Altri mi fissavano con gli occhi spalancati, lanciando sguardi di terrore ad ogni minima agitazione dell’acqua. Non c’era dubbio: eravamo uniti, in quelle ore di viaggio, dallo stesso battito cardiaco di agonia.

Sono sbarcato in Sicilia, ringraziando il cielo di aver finito il viaggio senza incidenti.

Al nostro arrivo ci hanno presi dalla costa e portati nell’hotspot per i richiedenti asilo. Non ebbi neanche il tempo di interrogarmi su dove mi stessero portando, che subito mi ritrovai, insieme ad altri compagni, a bordo di un pulmino diretto verso nord. Durante il viaggio pensai che, almeno quella volta, avrei avuto un posto dove dormire e che qualcuno mi avrebbe aiutato a rimanere in Italia.

Ancora non capivo l’italiano ma sentii, dopo tanto tempo, un’onda di pace che mi fece addormentare dopo tante notti insonni.

Quando aprii gli occhi vidi un cielo cupo e nebbioso, era già buio. Il bus rallentò in vista di un grumo di case. Mentre imboccavamo l’ultima curva, la pace scura di quel paesino si trasformò in una folla agitata, senza direzione, con dei cartelli in mano.

Ci domandammo cosa stesse succedendo e pensammo alla migliore delle ipotesi: saranno striscioni di benvenuto!

La gente era concentrata in due gruppi, l’uno contro l’altro, ma a noi ancora non era chiaro nulla. Tuttavia non tardai a capire che non si trattava affatto di striscioni di benvenuto.

Venimmo sistemati nell’ex asilo del paese, ormai chiuso da due anni. Qualche giorno dopo, tentarono di bloccarci l’accesso al nostro alloggio, urlando inferociti. Gli operatori della struttura, non riuscendo a dialogare con quella gente, si videro costretti a chiamare la polizia.

Confuso, pensai che ormai il peggio era passato. Non sapevo che doveva ancora arrivare.

 

2018-2025

Anche Laura se lo ricorda bene, quel periodo. Lei e Salim ancora non si conoscevano. Forse si erano intravisti il giorno della manifestazione, quando lei e i compagni del collettivo erano andati a protestare contro i cittadini del comitato “No Clandestini”. Quelle persone le conosceva tutte, non era cattiva gente. Erano spaventati. Qualcuno li aveva spaventati.

Gli immigrati ci ruberanno il lavoro, porteranno degrado nel nostro paese, ci trasmetteranno la malaria e l’ebola. Però non siamo razzisti.

Il sole era tramontato e i membri del comitato avevano iniziato la loro sfilata minacciosa, muniti di fiaccole e striscioni. Il sindaco non si era lasciato intimorire, come in altre città, dove per placare l’ira dei residenti, i migranti venivano “dirottati” verso altre mete.

Eppure Laura non poteva non pensarci: forse una scelta del genere avrebbe evitato quanto accadde qualche mese dopo.

La notizia dell’attentato la trafisse come un pugnale. Non poteva essere vero. Solo feriti, per fortuna nessun morto. E purtroppo, se non ci scappa il morto, la notizia passa in fretta. Il gesto di un folle, è la spiegazione che si sente in tv.

E invece lei Gino, l’attentatore, lo conosceva. Era un compagno di scuola di suo fratello, qualche anno più grande di lei, che non le era mai stato troppo simpatico.

In quel momento Laura aveva capito che non poteva più stare in silenzio. E così le era venuta in mente l’idea del programma radiofonico, un programma che facesse ascoltare a tutti la voce dei nuovi arrivati.

Decise di chiamarlo Kalima, che in arabo vuol dire “parola”, proprio perché era convinta che solo attraverso la parola, il dialogo, il confronto, sarebbe stato possibile cambiare le cose. E galeotta fu Kalima, che sette anni dopo le fece incontrare Salim.

Dopo l’intervista in radio erano scesi al bar a bere una birra. Salim le aveva detto che aveva provato l’alcol per la prima volta in Italia, e che anche se era musulmano non pensava di fare un grande torto ad Allah se ogni tanto si faceva un bicchiere.

Alla fine i bicchieri erano diventati due, tre, quattro, e tra una risata e l’altra Laura e Salim si erano salutati con la promessa di rivedersi presto.

A Laura era piaciuto subito quel ragazzo, anche se era più giovane di lei aveva l’aria di uno che aveva vissuto molto di più.

Passarono i giorni, ma Salim non si fece sentire. Dopo due settimane, Laura decise di invitarlo a cena da lei. Lui accettò di buon grado e quando si trovarono l’uno di fronte all’altra, lei ebbe la sensazione che fosse particolarmente imbarazzato.

Stapparono la bottiglia di vino che aveva portato Salim, iniziarono a chiacchierare e l’atmosfera si distese subito. Quella sera Laura aveva preparato un piatto tipico del paese di Salim, seguendo una ricetta trovata su internet. Anche se lui non lo ammise mai, dalla sua espressione, mentre lo assaggiava, Laura capì che il suo piatto si discostava molto dall’originale.

– La prossima volta lo cucini tu! – gli disse ridendo, senza immaginare quante volte sarebbe successo.

Salim e Laura quella notte la passarono insieme, e dopo quella molte altre, e anche molti giorni, fatti di lunghe passeggiate, gite improvvisate, libri letti ad alta voce fino a tardi e discorsi fitti.

Trascorso qualche mese, lei gli propose di trasferirsi a casa sua. Lo amava profondamente, come mai aveva amato qualcuno in vita sua. Ma la loro storia non era stata sempre facile, c’erano questioni su cui proprio non si trovavano d’accordo. Come quella del matrimonio.

Avevano deciso di sposarsi per fare avere a Salim la cittadinanza italiana. Per Laura il matrimonio non aveva alcuna importanza ed era convinta che una semplice cerimonia al comune sarebbe stata più che sufficiente, lei che in chiesa non ci entrava più da anni. Non aveva però fatto i conti con Salim, che voleva a tutti i costi un matrimonio musulmano.

– Ma cosa ti cambia? – gli chiedeva lei infuriata quando litigavano. Non lo comprendeva. Lui che le era sembrato uno di così larghe vedute, si impuntava su una faccenda del genere. Per Salim era inconcepibile non sposarsi davanti all’Imam, tutti i suoi fratelli e le sue sorelle lo avevano fatto, e la sua famiglia non avrebbe mai accettato che proprio lui, il figlio più grande, non seguisse la tradizione.

Ma Laura fu irremovibile, – O in comune o niente – diceva, – sei tu che vuoi la cittadinanza, a me non me ne importa niente del matrimonio, né tantomeno della religione, figuriamoci se mi converto all’Islam e mi sposo in moschea!

E alla fine l’aveva avuta vinta lei, anche se ci era voluto un anno per convincere Salim a rinunciare al suo desiderio. Si sposarono, non senza un certo rancore da parte di lui che, in cuor suo, sperava di riuscire, un giorno, a farle cambiare idea.

 

2025-2030

Fu solo dopo il matrimonio che si crearono le condizioni, fuori e dentro di me, per dedicarmi alle mie ambizioni: migliorare questa società per le generazioni future.

Estirpare le radici che generano l’odio e dimostrare che un’altra via è possibile, che la convivenza può essere regolata a beneficio di tutti.

Mi buttai a capofitto nelle attività dell’associazione con la quale già collaboravo da qualche anno, con lo scopo di cambiare questo paesino, le sue convinzioni, i suoi pregiudizi, le false notizie che si susseguivano in quei giorni.

Mi occupai dell’organizzazione di dibattiti sulla politica in Africa e in Occidente, di eventi culturali e di proiezioni cinematografiche, coinvolgendo i nuovi arrivati nelle varie attività. Con le poche risorse che avevamo a disposizione riuscimmo a mettere in piedi una piccola scuola di lingua dove si insegnavano inglese, francese, arabo, italiano. Fu un grande successo, ma la novità più grande fu il laboratorio per bambini, che aveva luogo nella stessa auletta della scuola.

Vedendo l’entusiasmo dei loro figli, gli abitanti del paese iniziarono, piano piano, ad avvicinarsi all’associazione, dimostrando interesse per il nostro lavoro e guardandoci finalmente con occhi diversi, spogli dei pregiudizi che per tanto tempo li avevano imprigionati.

Nel 2030 l’associazione costituiva il centro della cultura di Castelnegro, fatto che mi spinse, un po’ per gioco, un po’ per provocazione, a candidarmi alle elezioni comunali. Con mia grande sorpresa venni nominato assessore alla cultura.

– E questo è solo il primo passo – mi diceva Laura con un entusiasmo senza freni. – Magari un giorno potresti diventare sindaco, chissà.

­– Ma come ti viene in mente? Se credi possibile una cosa del genere, allora io posso ancora sperare che un giorno ci sposeremo in moschea!

– Ma quando la smetterai di rompermi le palle con questa storia?!

– Allora scommettiamo! Se io divento sindaco ci sposiamo in moschea. D’accordo?

 

Aprile 2035

Sono passate quattro ore da quando si sono alzati. Salim ora sembra più disteso, anche se non riesce a contenere l’emozione. Anche Laura è emozionata.

È ancora presto, ma a Salim piace essere puntuale.

– Come sto? – le chiede. – Vado bene così?

Laura sorride divertita e annuisce, tanto sa che quando Salim si mette una cosa in testa è inutile cercare di fargli cambiare idea. Ne hanno già discusso il giorno prima, di come si sarebbe dovuto vestire, ma Salim ha deciso di indossare comunque quell’orribile camicia a quadri.

Anche Laura si prepara, un velo sottile di fard e di rossetto, i lunghi capelli biondi raccolti e gli orecchini che le ha regalato lui per il compleanno.

Sono pronti. Sarà meglio andare.

– Guido io, – dice Laura.

Entrano in macchina e si dirigono verso la piazza principale, un luogo inedito per questo tipo di eventi. È stato Salim a sceglierlo, per condividere questo momento con la gente del suo paese. Ci saranno solo un piccolo palco e il microfono.

– Vuoi ripetermi il discorso per l’ultima volta? – gli chiede.

– Va bene, – risponde lui, questa volta senza sbirciare sui fogli ripiegati che tiene in mano – Allora, vediamo… Buongiorno a tutte e a tutti!

 

È con non poca commozione e immensa gioia che oggi sono qui a parlarvi per la prima volta come sindaco di Castelnegro.

Quando, nel 2018, sono arrivato in questo paese non avrei mai creduto possibile qualcosa del genere. Ero solo, emarginato, escluso.

Alcuni hanno cercato in tutti i modi di annientarmi, sia fisicamente che psicologicamente, e con me tutti gli altri deboli e oppressi. Al mio arrivo non conoscevo ancora la lingua italiana, ora capisco finalmente quali frasi mi accolsero a Castelnegro. Non le ripeterò, perché questo è un linguaggio che oggi ci lasciamo, tutti insieme, alle spalle. Oggi strappiamo finalmente le pagine più vergognose della storia di questo paese e ricominciamo.

Ringrazio voi perché avete dimostrato che Castelnegro non ha bisogno del razzismo e non ha bisogno di chi semina terrore.

Abbiamo bisogno, invece, di restare umani, sempre e comunque. Non possono esserci compromessi per tutto questo, non si possono porre limiti all’umanità.

Dobbiamo ricordarcelo ogni giorno, in ogni momento, perché è quando ce lo dimentichiamo che l’odio trova il terreno fertile per germogliare ancora.

Ho bisogno del vostro sforzo, della collaborazione di ognuno di voi.

Oggi il mio pensiero va al mio amico Ousmane Jakande. Con le unghie e con i denti mi batterò per proteggere ogni essere umano dalla violenza e dal razzismo. Casa per casa, strada per strada, scuola per scuola, continuerò a portare avanti questo meraviglioso progetto.

Sarà per me un piacere essere alla guida di questo paese.

Buon lavoro a tutte e a tutti

E ricordate sempre: RESTIAMO UMANI.

Grazie.

 

Applausi. In piazza ci sono tutti: i compagni dell’associazione, gli amici di una vita, i ragazzi che per la prima volta hanno votato e che con orgoglio rivendicano quel voto a Salim. Alcuni sono proprio i figli di quelli che, anni prima, quando Salim arrivò nel paese, si mobilitarono per mandarlo via insieme ai suoi compagni. Alcuni di quei genitori sono ancora schierati contro di lui.

Laura pensa a dove ora è arrivato suo marito e non può fare a meno di sorridere, dagli occhi le scende anche qualche lacrima, lei così forte, così orgogliosa, in questo momento non può nascondere la commozione.

Se lo ricorda ancora come fosse ieri, invece sono passati già dieci anni dal loro primo incontro alla radio, però Salim ha ancora lo stesso sguardo da ragazzo incazzato e un po’ goffo, ancora impacciato nell’esprimersi in italiano. Forse è lei che in qualche modo lo cerca ancora, quel ragazzo, perché Salim ora è un uomo, ha tagliato i capelli afro, parla alla gente in un italiano forbito, è sciolto e della sua goffaggine è rimasto ben poco.

Laura nota una certa preoccupazione nello sguardo di Salim. Dal vialetto vede arrivare un corteo di poche persone: sono i contestatori. Lo sapevano da giorni che un gruppo di oppositori si stava mobilitando per dimostrare il proprio dissenso.

UN SINDACO NERO? NON NEL NOSTRO PAESE!

SALVIAMO CASTELNEGRO DAI CRIMINALI!

L’INVASIONE È ARRIVATA A COLPIRE ANCHE LE ISTITUZIONI!

CHE SE NE TORNI IN AFRICA A FARE IL SINDACO!

Laura non è come Salim, questa gente non smetterà mai di odiarla. Ora però deve essere superiore, deve abbandonare l’impulsività di ragazza. D’altronde, ormai, non sono che un gruppetto isolato. Si avvicina a Salim.

– Non preoccuparti, non saranno nemmeno dieci. Sei riuscito a costruire tutto questo, ti ricordi? Era un paese senza più speranza e tu ci hai salvato. Non farti rovinare la festa da quattro scemi!

Con l’aria sollevata lui la bacia e la stringe forte a sé. Erano mesi che non si scambiavano una frase affettuosa, che non si concedevano un gesto distensivo.

Rimandiamo i brutti pensieri e le preoccupazioni a domani, perché oggi è un giorno di festa. È un giorno di felicità.