La lingua rimossa (Martina Guidi, Ide Maman, Vittoria Rubini)
Davanti al portone del numero 3 di Via Larga c’era un piccolo giardinetto. Un glicine minuto, ma forte e rigoglioso, avvolgeva la ringhiera di ferro battuto e da questa si riversava sulla strada. I boccioli più fioriti erano proprio quelli che si erano spinti più fuori, oltre il piccolo confine della ringhiera. Il glicine lo avviluppava, e se avesse avuto tempo per crescere, lo avrebbe divorato fino a farlo scomparire. Proprio dietro quel glicine no-border stava la casa di Majdi.
Era un giovedì e come tutti i giovedì, il piccolo Momi andava a trovare il nonno dopo la scuola. Quel giovedì pioveva e invece della solita passeggiata al parco, decisero di rimanere al calduccio, davanti al caminetto che scoppiettava in salotto.
– Nonno, oggi la mia maestra in classe ci ha detto che a Kaji ci prendono in giro per il modo in cui parliamo. Perché parliamo così?
Momi concluse la domanda tracciando un enorme punto interrogativo nell’aria. Gli occhi di Majdi si illuminarono: lui sapeva come erano giunti a comunicare in quella maniera strana, con quei gesti che buffamente parevano ribadire il contenuto delle frasi. Ben lieto che il suo adorato nipotino, tra le altre mille che avrebbe potuto fargli, gli avesse posto proprio quella domanda, Majdi iniziò a raccontare, mimando il gesto della notte.
– Era notte quando giungemmo in città. Io e gli altri sette compagni eravamo in viaggio da una settimana. Quella notte arrivammo a destinazione: l’Hotel Colomba.
Il gesto della colomba era tra i preferiti del piccolo Momi. Gli infuse una sensazione di pace profondissima che sembrava promettergli una narrazione inedita, in cui magari il nonno non avrebbe utilizzato i soliti gesti della fuga o della pistola. Dunque si sedette comodo e si mise ad ascoltare.
– Quella sera non c’era nessuno ad attenderci, a parte il proprietario dell’hotel e Miriam, la ragazza che si occupava della struttura. Nessuno striscione, nessun megafono, nessun indice puntato verso di noi. Che fosse la volta buona senza rompipalle? Anche Miriam sembrava stupita: si parlava ormai da giorni del nostro arrivo, sulla televisione locale, sui giornali, alla radio, pure al bar la mattina, dove in mancanza di notizie più eccitanti si condiva il cappuccino con le lamentele sul gruppo di immigrati in arrivo. Infatti, quella pace durò poco. La mattina dopo, tutto già rientrava nel solito copione: urla e cori da stadio ci svegliarono di soprassalto.
– Nonno, che cos’è un copione? – chiese Momi, tracciando nell’aria un altro punto interrogativo.
– È un libretto che viene dato agli attori – rispose il nonno – con su scritte le battute da recitare. Noi certo non andavamo a teatro, ma osservavamo le persone che ogni volta ci trovavamo davanti a manifestare contro il nostro arrivo. Sembrava avessero tutte lo stesso copione … In poche parole, dicevano tutti le stesse cose. I personaggi erano sempre gli stessi, anche se interpretati da attori diversi, ma tutti con le stesse battute! Noi non li vogliamo! Stop immigrazione! Via gli extracomunitari dalla nostra terra: aiutateli a casa loro! E via dicendo… Cosa volessero da noi, Momi, non l’ho capito nemmeno adesso.
Momi lo guardava attento. Majdi lo prese sulle ginocchia e continuò:
– Sai, quando ero piccolo come te, mio nonno mi raccontava spesso le storie del suo popolo. Nelle giornate d’estate, quando arrivavano i temporali forti, ci mettevamo fuori dalla veranda e lui raccontava, raccontava… Ricordo bene l’odore del finocchietto selvatico che si levava dall’erba intorno alla casa. E proprio quello stesso profumo era lì, davanti all’hotel, e si alzava forte e deciso dalla terra calpestata dai manifestanti. Era come se mi incitasse a non demordere, a non perdere la speranza. All’inizio, non capivamo bene cosa stesse succedendo, svegliati così all’improvviso! Uno dei miei compagni, Kalid, sembrava non aver chiuso occhio, come se si aspettasse già proteste del genere. Dalla finestra non distinguevamo bene i volti, gli ombrelli e la fitta pioggia non aiutavano. Per un paio di ore facemmo finta che non ci fossero, ma dopo un po’ era davvero troppo. Kalid – sicuramente il più impulsivo e impaziente del gruppo – si alzò in piedi e spalancò la finestra. Le urla del comitato radunato lì fuori entrarono violente nella stanza. Kalid si affacciò e iniziò a gridare.
– Voi che vivete comodi nelle vostre case, vi siete mai chiesti se noi ne avessimo una? Vi siete mai chiesti perché siamo qui? Ci accusate urlando, senza neppure mostrare i vostri visi!
Purtroppo la distanza tra noi e il gruppetto fece sì che le parole si perdessero nel vuoto. Kalid si girò verso di noi, proponendo di scendere e parlare con loro faccia a faccia. Kushtrim, il più vecchio tra noi, richiuse la finestra e ci propose di ignorarli, ma ancora sentivamo le loro urla rimbalzare sui vetri. Non smettevano di gridare al megafono e continuare a dirci che no, non potevamo stare lì, per il bene dei loro figli, che dovevano essere presi presto dei seri provvedimenti contro il degrado -sottinteso quello creato da noi con il semplice fatto di essere lì. Ma il degrado, per noi, era altro: era il pian terreno inzuppato dall’acqua che si infiltrava nel pavimento, la fanghiglia che si espandeva e piano piano minacciava di mangiarsi le nostre cose, se non addirittura noi stessi. Sembrava che persino la natura volesse farci scomparire.
Momi si strinse al petto del nonno, intimorito dal racconto. Majdi continuò, accarezzandogli la testa per confortarlo.
– E invece eravamo ancora lì e nonostante quell’accoglienza poco calorosa, non avevamo perso energie. Proprio quando sentimmo parlare di degrado, decidemmo di esporci alla pioggia e al comitato. Uscimmo dall’hotel. Mentre gli altri restavano sotto il porticato, io e Kalid ci dirigemmo davanti al gruppo dei dimostranti, che stavano in piedi sotto gli ombrelli, al di là della ringhiera.
– Voi che vivete comodi nelle vostre case, – ripeté Kalid a voce molto alta – vi siete mai chiesti se noi ne avessimo una? Vi siete mai chiesti …
Nessuno riuscì a sentire la fine della frase. Solo “nel fango” e poi “muore” echeggiarono sottovoce. Il rumore della pioggia e del vento coprirono tutto. Kalid rimase in piedi, di fronte alla ringhiera, gesticolando e gridando parole silenziose. Il suo viso era contratto e concentrato, la bocca si muoveva, le labbra si aprivano e si chiudevano, ma nessun suono le attraversava. Sembrava recitare la scena di un film muto, ma con gli effetti sonori della pioggia, che si rovesciava sul terreno, e del vento, che sibilava e gli scompigliava i capelli. Allora il comitato anti-accoglienza riprese voce. Le loro parole erano forti e chiare, sovrastavano la pioggia, come il rumore di un tuono che rimbombò vicino, annunciando l’arrivo di ancora più acqua. E poi un lampo, il flash di una macchina fotografica. Dapprima rimasi in piedi, in silenzio, ad osservare la scena. Poi mi avvicinai e feci per gridare, ma non appena aprii bocca, le parole si fecero solide, si trasformarono in fili spessi e ruvidi e si avvolsero su se stesse in un gomitolo intricato. Rimasero lì, tra la gola e la lingua, pesanti, così pesanti che pensai di soffocare.
Majdi concluse la frase portando entrambe le mani attorno al collo.
– Sembrava che fossimo diventati muti.
– Come muti, nonno?
– Muti, come pesci! – disse Majdi muovendo le labbra, come una singolare creatura marina – Ero scosso, impaurito, non capivo cosa ci stesse succedendo. Tornammo dai nostri compagni e quando raccontammo loro ciò che ci era accaduto, non sentimmo nessun nodo in gola, ma le parole uscirono agili e leggere. Gli altri ci guardavano come se fossimo impazziti, nessuno credeva al nostro racconto. Kushtrim ripeteva che non eravamo noi a non poter parlare, ma semmai i manifestanti a non sentirci. Muti non lo eravamo di certo perché lui, per quanto vecchio, aveva sentito ogni nostra parola. Si avviò allora verso i manifestanti, per dimostrarci che doveva esserci un errore. Tornò poco dopo. Il viso turbato, incredulo, come chi aspetta la fine di uno scherzo di cattivo gusto. Era tutto vero: di fronte a loro, la lingua si annullava. Come se si potesse trattare di un’epidemia, a uno a uno provammo a rivolgerci al gruppo che ci accusava, ma nessuno riusciva a parlare. Cominciammo ad agitarci. Cosa ci stava accadendo? Le urla del comitato facevano da sottofondo alla nostra preoccupazione. Dopo un po’, stanchi di gridarci contro sotto la pioggia, decisero di lasciarci in pace, minacciando di tornare il giorno dopo, in compagnia della polizia, se non ce ne fossimo andati. Partirono e poco dopo smise di piovere. Il cielo era sempre grigio e basso e sembrava avvisarci di non sperare troppo in quella momentanea tregua, che di lì a poco sarebbe tornato un acquazzone. Ma per fortuna la pioggia si dimenticò di noi, per tutta la giornata. Poi arrivò il buio, e con esso il freddo. Kalid e Koros andarono a cercare della legna, sperando di trovare qualcosa di asciutto per accendere un fuoco. Stare davanti a un fuoco aiuta a raccontare, lo senti anche tu, vero Momi? E a volte anche a fare chiarezza su storie già passate. Dopo pochi minuti li vedemmo ritornare, ma non erano soli: un vecchio barbuto, vestito di stracci ma più asciutto di noi, li accompagnava con passi lenti e strascicati. Il vecchio ci guardò e ridacchiando, con la sua voce bassa e ruvida, che suonava come un sacchetto di plastica accartocciato, chiese se poteva scaldarsi, nel giardino della nostra “grande villa”. Kalid ci spiegò che si erano incontrati poco lontani, sotto al ponte della tangenziale e quando il vecchio li aveva visti raccogliere la legna, si era subito avvicinato. Viveva lì da tanti anni e come unica compagnia aveva i ratti e il rombare del traffico. Nessuno in città si ricordava di lui, tanto meno del suo nome.
– E come si chiamava? – chiese Momi disegnando nell’aria il solito punto interrogativo.
– Si chiamava Dante. Ci disse il suo nome sghignazzando forte: “Sono Dante il poeta… il poeta dei ratti!”. Ci raccontò che aveva provato a fare il poeta, anzi, lo aveva fatto a lungo, nelle piazze, assieme a tanti altri. Si erano impegnati perché gli abitanti di quella città, immersi ormai nelle comodità e nell’agio, non dimenticassero la propria storia di migrazione. Non dimenticassero di quando le loro famiglie erano scappate dalla guerra e dalla sofferenza ed erano arrivate qui. Sai Momi, ogni essere umano è figlio di migrazione, più o meno recente, più o meno vissuta. Dante aveva lottato per tanti anni, ma passo passo molti suoi compagni avevano gettato la spugna: chi diceva di non avere più tempo, chi aveva abbandonato ogni speranza, in tanti lasciarono perdere. Così Dante rimase solo e nonostante questo, continuò a urlare nelle piazze. Ma a forza di urlare, la voce di Dante si spense, come se uno spesso muro di vetro lo separasse dalle persone. Le sue parole, che una volta erano state pesanti come pietre, iniziarono a dissolversi, perdendosi tra le emissioni di zolfo delle fabbriche vicine. Così la gente iniziò ad ignorarlo. Fu allora che si trasferì sotto la tangenziale. Ricordo bene il suo sguardo: gli occhi scintillavano di una luce viva, ma scura. Guardava il mondo e rideva, di un riso dissacrante, lontano. Un vecchio profeta, dimenticato da tutti. Terminata la sua storia, mi chiese di parlargli di noi, da dove arrivavamo e da cosa stavamo scappando.
Gli risposi che tutto era iniziato quando stavo in Duniya. Come raccontai anche a te, piccolo mio, l’ultimo periodo facevo un sogno ricorrente. Mentre dormivo, sotto una baracca, sentivo una voce da lontano che mi diceva “scappa, scappa, scappa via”. La sentivo continuamente e si avvicinava, mi svegliava di sobbalzo. Provavo a riaddormentarmi, ma la sentivo ancora, era rimasta nella mia mente. Era una voce spaventosa e non sapevo di chi o di che cosa potesse essere. Una notte fu più forte del solito, mi spaventò talmente che andai a controllare mia madre e mia sorella. Chiamai mia madre tre volte, ma lei non mi rispose. Stavano entrambe dormendo profondamente. Senza svegliare nessuno, tornai nel mio letto e mi addormentai di nuovo, con un occhio chiuso e l’altro aperto. Allora mi apparve in sogno mio padre, che correva, e mi ripeteva di correre, correre, ed io chiedevo: – Papà, perchè? – ma mio padre non rispondeva, continuava a dirmi di correre. Dietro di lui c’erano due uomini che sparavano col fucile. Mi svegliai tutto agitato, di nuovo. Quella notte non ho più dormito bene. Ho capito di chi era la voce, a cosa somigliava: era la voce della guerra, la guerra che aveva ucciso mio padre e che ora voleva uccidere anche me. Ma io ero divenuto più forte della guerra, perché io avevo nel mio animo solo la pace.
Majdi mimò il gesto della pace e abbracciò forte il nipotino, che lo ascoltava attento e sicuro tra le sue braccia.
– E poi nonno?
– Gli raccontai anche di ciò che era appena successo e delle nostre preoccupazioni. Ma fui interrotto all’improvviso. “Anche noi abbiamo perso la capacità di parlare – disse una voce – cercando di difenderci da accuse ingiuste. E non siamo più riusciti a recuperarla”. Dalla penombra uscì una donna, giovane e con lunghi capelli neri. Si chiamava Amara. Salutò Dante, già si conoscevano. Ci disse che veniva Ocksa, il ghetto lì vicino e cercava proprio noi, per chiederci un aiuto. “E gli altri dove sono?”, domandò. Si aspettava che fossimo di più, tanti di più, centinaia. Ci disse che anche nel ad Ocksa si era diffusa la notizia del nostro arrivo, ma si parlava di numeri esagerati. Il ghetto era dove Amara viveva. Capimmo dal suo racconto che Dante non era l’unico ad essere stato dimenticato, ma tantissime altre persone erano state scacciate dal centro, perché ritenute incompatibili. Era stato lasciato a loro disposizione, nella più estrema periferia, un edificio abbandonato, a più piani, malridotto, ma con acqua ed energia elettrica. Ormai erano passati quasi quarant’anni da quando il ghetto era stato aperto, e la condizione di vita era peggiorata, all’aumentare della gente che ci viveva. Amara era nata là, come tanti altri, ed era cresciuta in quella bolla di vetro, fatta di stenti, scarsissima igiene e delinquenza. Era venuta a cercarci, convinta che li avremmo aiutati. L’indomani, tutti gli abitanti del ghetto si sarebbero diretti in città per un corteo silenzioso nelle vie del centro. Stanchi di essere reietti, emarginati, per di più senza voce, volevano camminare tutti insieme per farsi riconoscere, per far vedere quante persone quella città aveva escluso, per far vedere che non era più possibile far finta di niente. Kushtrim e Koros erano molto titubanti: partecipare al corteo voleva dire scappare, di notte, da quell’hotel che ci dava accoglienza, senza avvisare Miriam. Non era corretto. Dopo varie discussioni decidemmo di dividerci: io e Kalid seguimmo Amara e Dante, gli altri rimasero all’hotel. Passammo la notte a Ocksa e la mattina presto ci avviammo. Il percorso per arrivare in città era lungo cinque chilometri. Avremmo impiegato almeno un’ora, ma non ci spaventava il tempo né la strada da percorrere. Dovevamo guadare un fiumiciattolo e attraversare la vecchia zona industriale, piena di rovi e vecchi recinti, mezzi rotti e arrugginiti, che delimitavano gli stabilimenti, per poi sbucare vicino ad una delle porte della città. Eravamo tanti, più di quanti mi sarei immaginato: almeno cinquemila persone. Lenti, come una nuvola che all’alba si appoggia sulla valle fino a coprirla, entrammo in città. Eravamo muti, ma i nostri corpi non lo erano affatto. Donne, bambini, uomini, anziani, ognuno di noi gesticolava. Come onde del mare alzavamo le braccia al cielo, e poi verso terra e davanti a noi. Aprivamo e chiudevamo i pugni per segnalare la nostra presenza. Ci esprimevamo attraverso gesti che racchiudevano per noi grandi significati: la sofferenza, l’ascolto, l’umanità. In cima al corteo un grande striscione guidava il nostro esercito muto. “Siamo in tanti, non potete ignorarci per sempre”, c’era scritto a caratteri blu. La città, apparentemente vuota, iniziò a brulicare: visi meravigliati si affacciavano dai condomini, dalle porte dei negozi, dai garage. E noi continuavamo, come un’onda, ad invadere le vie del centro. La polizia non tardò ad arrivare. Sentimmo dapprima le sirene in lontananza e poi li vedemmo venire verso di noi, dal fondo della strada. Restammo uniti, decisi a continuare il nostro percorso silenzioso. La camionetta si avvicinava. Ed ecco il primo miracolo: un signore anziano sbucò in strada, poco più avanti di noi, e diretto verso la polizia cominciò a gridare in nostra difesa.
– Ecco la gente che rifiutate, ecco gli esclusi di questa città. Non possiamo far finta di niente: ci sono donne, bambini, anziani che non ho mai conosciuto, un mondo a parte che vive nella miseria. Basta, è giunto il momento di unirsi a questa gente, o ci siamo dimenticati la solidarietà tra esseri umani?
Un’altra donna si unì, e poi un altro uomo, e un bambino insieme alla nonna. A poco a poco ci vedemmo circondati da persone di tutte le età, che urlavano a nostra difesa, ripetendo le parole dello striscione. Ricordo lo sguardo di Dante, un’espressione mista di felicità e meraviglia. Tutti noi, intanto, continuavamo il rituale dei gesti: in alto, in basso, davanti. Ma stavolta non sembravamo più un esercito di muti. Il corteo parlava con voce sempre più forte, portata dalla gente che si stava aggregando. Pareva che ci stessero aspettando da anni, tanto fu veloce la risposta al nostro appello. Ed ecco il secondo miracolo: la polizia si mise da parte, ci lasciò passare. E noi, immersi nelle urla di chi ci aveva raggiunto, riscoprimmo all’improvviso la nostra voce. Esplodemmo come onde sullo scoglio: adesso la città vibrava, risvegliata dalla nostra lingua rimossa. Caro Momi, difficilmente riuscirò a rivivere una sensazione così forte: eravamo un’unica cosa, un insieme così grande e potente che ci sembrava di poter combattere contro tutte le ingiustizie di questo mondo. Il corteo continuò tutto il giorno, e molta più gente si unì. Alla fine uscimmo di nuovo dal centro e ci dirigemmo davanti all’hotel, dove ci aspettavano Kushtrim, Koros e gli altri. Ed eravamo così numerosi che il comitato antiaccoglienza, e la polizia in soccorso, si videro circondati da un fiume in piena. Spaventati, cercarono di scappare, ma li chiudemmo in un cerchio umano. Dopo averli bloccati lì, dicemmo loro tutto quello che da sempre cercavano di negare, tutto quello che non avevano avuto il coraggio di ascoltare. Ecco, piccolo Momi, quello fu un grande giorno e fu lì che nacque la nostra lingua. Decidemmo tutti insieme di non dimenticare mai il nostro mutismo, ma di ricordarlo sempre, utilizzando i gesti che ci avevano aiutato a sconfiggere la paura dell’altro.
E adesso su, Momi, è ora di far merenda. – disse Majdi alzandosi.
Momi rimase sulla poltrona, in silenzio. La storia di suo nonno, Kalid, Kushtrim, Amara, Dante e di tutti gli altri protagonisti di quell’ avventura lo aveva talmente colpito che gli sembrava fossero tutti lì, in quel salotto, per stringersi attorno al calore del fuoco, vicino a lui. Si sarebbe ritrovato anche lui, un giorno, incapace di parlare? Avrebbe avuto la forza di reagire? Di sicuro, avrebbe ricordato quella storia per sempre.
Majdi intanto aveva iniziato a preparare la merenda, dopo aver acceso il piccolo televisore che tenevano sul mobiletto verde in cucina. Il tg presentava le notizie in sottofondo. Il nonno aveva iniziato a tagliare dei pomodorini. Momi entrò in cucina e si sedette. Con il viso tra le mani e i gomiti appoggiati al tavolo, si mise a fissare lo schermo. Le immagini di un gruppo di persone, stremate e affamate scorrevano veloci: Emergenza migranti: in cinquecento sbarcati questa mattina.
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