«Il meglio dell’umanità». Un laboratorio di scrittura accogliente. Introduzione del prof. Fulvio Pezzarossa

Queste note introduttive, divenute appuntamento annuale sull’arco di un decennio, intendono offrire una risposta coerente e perseverante sotto l’aspetto culturale all’incremento di presenze e identità altre e inattese nella nostra società, in capo ai percorsi variabili e diffusi delle migrazioni.

Il termine plurale vuole contrastare il linguaggio mediatico fisso nell’evocare invasioni e orde sconvolgenti, ribadendo la necessità di opporsi ai messaggi costruiti sulla grossolana efficacia dello stereotipo e della sensibilità pregiudiziale. Richiamando l’autonomia molteplice di traiettorie frutto di scelte personali, non solo restituiamo ad ogni persona il diritto alla libera mobilità, ma in esse possiamo riconoscere l’archetipo narrativo inesausto del Viaggio dell’eroe[1] in cui il giovane affronta ostacoli e barriere, scontri e persecuzioni, sconfitte e slanci, sino a raggiungere una maturazione soggettiva che consente l’integrazione sociale.

L’avventura rende possibile all’individuo un progetto esistenziale che riscatta nell’immagine infantile i tratti fisici, di mentalità ed emozionali dell’uomo adulto, profilo che le (il)logiche razziste rifiutano di riconoscere nell’alterità, minoritaria e primitiva per vocazione naturale, e dunque elemento centrale a definire l’alienità mostruosa.[2] Lo straniero è rappresentato con tessere identitarie di astrattezza artificiosa, secondo strategie che organizzano spazio geografico e gerarchie sociali ed economiche, ricorrendo all’efficace alfabeto che promana da quegli eccessi di culture, utili a perimetrare in modi non innocenti arbitrarie porzioni di umanità.[3]

Infatti migrano non solo braccia ma persone intere, come acutamente avvertiva Max Frish[4] misurando ostilità aggressiva verso i nostri lavoratori in Svizzera, suggerendo uno sguardo a duplice direzione per connettere emigranti in uscita ed in arrivo, se vogliamo affrontare un tema fondamentale e rimosso della storia nazionale. Perciò il plurale del fenomeno migratorio vale pure sull’asse diacronico rispetto alle vicende del lungo secolo post-unitario, quando poi s’invertono movimenti di popolazioni spinte verso il nostro territorio, in tempi concentrati che esasperano le difficoltà di mobilità e radicamento, mettendo in discussione paradigmi incerti di identità nazionale, di cultura regionale, di frattura Nord/Sud, di globalizzazione produttiva e di vissuto. Elementi fluidi che ancora segnano l’Italia con dinamiche contraddittorie e malamente interpretabili con gli insufficienti strumenti del sistema scolastico che emargina la geografia, la storia contemporanea e delle religioni, sfiora lingue e culture extraeuropee, lasciando spazio alla illusoria autonomia informativa dal tendenzioso caos della rete.

Se davanti ci compaiono umani a figura intera, non solo braccia da sfruttare ma individui dotati di capacità intellettuali ed emozionali, il gesto di abbracciarli risulta spontaneo ma ingenuo, quando i suoi esiti non conseguano reali mutamenti per entrambi gli interlocutori. L’offerta di accoglienza in una nicchia intellettuale non può risultare semplicemente (auto)consolatoria, senza mettere in discussione gerarchie e ruoli, compiacendosi che l’accoglienza nella nuova lingua madre comporti scolastica ortodossia e ribalta mediatica per i caritatevoli dispensatori di sapienza autoctona. Senza affrontare i meccanismi che stratificano la realtà sociale, si frenano soluzioni incisive almeno nel territorio dell’immaginario, non limitate a esprimere comprensione e garbato rilievo rispetto a interlocutori bisognosi di stimoli più larghi della modalità solo assistenziale da maestrine deamicisiane. Siamo convinti che occorra, come abbiamo esplicitato quest’anno impostando la nostra esperienza bolognese, attingere alla marginalità feconda dell’attualissimo insegnamento di Don Lorenzo Milani, quando lo scomodo sacerdote si trovava di fronte individui altrettanto fastidiosi e incongrui a un rinnovato slancio di coerenza nazionale. Nella fase di riassetto postbellico, nel pieno di un mutamento epocale e di paradigma storico, egli rimarcava (e poneva come obiettivo condiviso dai suoi allievi) la rivoluzionaria coerenza nel rivolgere particolare attenzione a quei giovani emarginati, stigmatizzati e confinati, che in ogni lato del mondo “aspettano di essere fatti eguali”[5] attraverso il movimento e il mutamento sociale, costringendo a sperimentare modi e strategie di acculturazione attraverso esperienze collettive e pratiche condivise, fuori dagli schematismi gerarchici della pedagogia ufficiale.

Va ricordato che quella marginalità evoca attività agrarie e pastorali, messe in crisi dall’avvio di un’industrializzazione massiva alimentata dal flusso migratorio fra campagna e città finalmente consentito dopo l’interdetto fascista, e tuttavia in analogia col Risorgimento ottocentesco rinsalda un patto di unità nazionale segnato da squilibrio e parzialità, nutrendosi delle stesse situazioni ad escludendum che attraversano tutta la nostra storia, come mostra David Forcags.[6] E tuttavia ne risulta un’opportunità paradossale per figure e ceti espulsi da quel processo coesivo parziale, costretti a elaborare un sentimento identitario fuori dalla retorica dei ceti dominanti, un senso comunitario basato sul vissuto, lo scambio e la messa in comune di destini in viaggio, che s’appoggiano spesso a occasioni di scrittura estemporanea, come nell’emersione dei franchi narratori, ennesima variante dei testi dell’italiano popolare, frutto per tanta parte anch’esso delle spinte migratorie.

Risulta utile dunque accennare ad altri aspetti alla base del progetto del nostro laboratorio collettivo di scrittura, che ha guardato ai fondamenti teorici di una pedagogia innervata dagli studi culturali, per superare l’empiria di alcune esperienze del mondo scolastico,[7] continuando a sperimentare adattamenti e aggiustamenti, richiamati nelle presentazioni dei successivi volumi editi da Eks&Tra. L’ipotesi di fondo risulta infatti messa in discussione dalle variazioni imprevedibili e complesse dei processi di mobilità, così che successivamente negli anni emergono profili diversificati negli allievi di origine non autoctona: alla partecipazione di immigranti veri e propri, personalità inserite, orientate, fornite di progettualità, professionalità ed intraprendenza, iscritte in una stanzialità salda e progressiva al pari della persistente quota di figure di seconda generazione, si sono sostituiti (come nella più ampia realtà) profughi, rifugiati o richiedenti asilo, portatori di esigenze di dissimile natura. Espressione dell’alterità certo, ma distinti dai protagonisti del primo trentennio di migrazione secondo profili di età, competenze culturali, origini nazionali, e specialmente tragitti per la gran parte di epica tragicità; condizioni che sviluppano obiettivi diversificati, per i quali spesso il suolo italico è solo margine del sospirato nuovo mondo, piattaforma di transito per ulteriori agognati approdi. Questo rappresenta una sfida rispetto alla accentuata preminenza di tratti nazionali (da cui le discutibili nominazioni: nuovi italiani, italieni ecc.) che possano ispirare le proposte anche di semplice inclusione linguistica, riferibili a richieste e aspettative spesso transitorie, semplice corredo utilitario a sbocchi che forse li attendono in altri orizzonti culturali.[8]

Questo rende aleatori temi forti e pressanti sino a poco addietro, come quello della cittadinanza, imbarazzante macigno che permane ad esprimere il ritardo sospettoso di strategie inclusive da parte delle istituzioni,[9] che approfittarono della reazione emozionale all’assassinio di Jerry Masslo (e scrivo nel vivo della identica tragica vicenda di Soumayla Sacko, che qualche propensione al razzismo sfruttatore e mortifero della “brava gente” dovrebbe suggerire),[10] e il varo dei provvedimenti legislativi del Ministro Martelli, per affiancali con l’imbarazzante Legge 91 del 1992 sui criteri di cittadinanza, fondati sull’arcaico e barbarico sistema di preminenza del sangue.[11] Grazie ad essa, milioni di lontani discendenti dei nostri espatriati, purché portatori di un’unica goccia di italico plasma, possono partecipare in pieno alla vita nazionale, pur estranei a lingua, storia, luoghi, tantomeno partecipi del circuito economico, eppure conferendo il loro voto spesso decisivo, a differenza di chi invece da decenni in Italia cresce e vive, lavora, studia e paga (in ogni senso), spesso sin dalla nascita.

I recenti dati ISTAT attestano numeri crescenti fra la popolazione immigrata di accesso alla cittadinanza italiana,[12] pur essendo scomparso dall’agenda politica la proposta basata sullo ius soli che deve rimanere obiettivo futuro per consentire anche nel nostro paese una socialità civica fondata sui valori della moderna democrazia libertaria, fraterna ed eguale. Tale riferimenti assumono ancor più rilievo a fronte del montante estremismo destrorso, fascistoide, gerarchico, razzista e intollerante, che prolifera dalle sponde mediterranee alle pianure centro-orientali del continente, a comporre l’effettivo background culturale del degenerato progetto europeo,[13] che alimenta i processi decisionali delle istituzioni ormai condizionate dal torvo e rancoroso pensiero che investe masse impoverite e disorientate, pronte a scaricare (nel senso balistico, purtroppo) su strati ancor più deboli e marginali i fantasmi terrorizzati del proprio inconscio, non certo placati da muri e barriere.[14]

Questi crescono su una narrazione che ricava potenza da una elementare semplificazione, riducendo i dati del reale a un binarismo arcaico e spontaneo tra amico/nemico, noi/loro, casa/ignoto, eppure persuasivo nel consentire una interpretazione a due toni (non a caso: bianco/nero !) dell’esistente, consolatoria rispetto al disagio che presentano complicanze e ombre nell’espandersi della globalizzazione. La quale poi spietatamente lo utilizza nei rapporti esterni fra stati e nella accentuata stratificazione gerarchica e sociale interna, richiamando a un perenne stato di emergenza[15] rispetto all’incognita dell’alterità, suscitando ansie di sicurezza attentamente coltivate quale strumento di governo, che spesso travalicano in pulsioni ad annientare l’impurità.[16]

Da tali premesse deriva l’esigenza di un deciso capovolgimento dello storytelling imperante che, inserito nel naturale incontro quotidiano fra persone comuni, si offra come territorio per processi di convergenza e di aggregazione incentrati su un elemento astratto, immateriale, gratuito, cerebrale, passibile di stigmatizzazione quale abitudine elitaria e di tradizione, com’è la letteratura ancora in grado di sintonizzarsi con l’evolversi della attualità: “La circolazione dei testi in uno scenario globalizzato rimette in discussione lo statuto del letterario, riconfigura i legami con le tradizioni locali e costringe a fare i conti con le questioni politiche: i rapporti di forze tra regioni più o meno sviluppate, i problemi di egemonia linguistica e culturale, gli interscambi asimmetrici tra le varie zone del pianeta”.[17] A questa risorsa fluida hanno attinto i nostri corsi, imponendo una svolta decisa all’esperienza iniziale del concorso riservato ai migrant writers, promosso da Eks&Tra dal 1994 e poi protratto in collaborazione col nostro Dipartimento bolognese, nel quale si puntava sull’esemplarità attrattiva di figure di spicco della popolazione migrante, capaci di applicare le risorse italofone nell’orizzonte creativo di prosa e poesia.[18] L’ingenuità dell’approccio, seppur decisivo nell’additare strategie inclusive e dialogiche, ha dovuto tuttavia misurarsi con un panorama critico spesso disinvolto nell’esaltare pretese innovazioni linguistiche e tematiche, finendo per bruciare con un atteggiamento di disinvolta profezia autoavverante[19] potenziali che in altri contesti dell’Occidente si sono venuti più liberamente affermando.[20] Mentre da noi ancora si evoca la comparsa di scriventi redentori di un’intera tradizione autoctona, si dovrà ricordare che l’altrui imperialismo coloniale vero e robusto, con tutto il corredo di errori ed orrori, ha tuttavia trasmesso e condiviso un patrimonio di lingua e cultura che l’Italia mai ha voluto (e saputo) concedere alle figure subalterne, fuori e dentro la penisola. Di conseguenza gli stessi prodotti interculturali scontano ritardi, separatezze, incertezze, e pure un supponente atteggiamento tutoriale per nulla tramontato, come appare da disinvolte periodizzazioni finalistiche della letteratura migrante, essendo uno degli elementi che condiziona i testi offerti dal mercato editoriale, ampliamente ventriloquizzati dall’apparato produttivo,[21] ma investe la stessa impostazione di alcune esperienze laboratoriali.

Perciò la scelta di una reattività spontanea e veramente collaborativa nelle nostre attività, testimonia come la messa in comune della ideazione narrativa, e la sua formalizzazione entro modalità espressive che non necessitano obbligatoriamente di una scrittura eccezionale e diversa, possono svolgersi col contributo attivo e coinvolgente (effettivamente in entrambe le direzioni) anche di richiedenti asilo accolti a breve distanza dai fortunosi approdi transmediterranei, lungo i labirinti dei campi e delle strutture di accoglienza (se vogliamo considerarle tali). Il parlato nella lingua italiana è strumento di connessione rispetto alla vigile disponibilità di studenti attivi, ai quali si prospettano meno onerosi ma non meno complessi tragitti di espatrio, per un’esperienza vissuta nella tensione emozionale della creazione che pone al riparo da una disponibilità semplificatoria, fonte di pietoso assistenzialismo utile solo a smorzare le carenze emotive ed etiche del soggetto occidentale, giustificate dall’immagine dell’Altro vittimizzato, evitando però l’intervenire diretto negli assetti dell’ordine politico.[22] E del resto non è secondario che queste storie migranti, per usare una definizione rilevante di Federica Sossi,[23] siano il viatico fondamentale per superare la soglia burocratica che apre ai nuovi arrivati la condizione sospesa di potenziali ospiti. Perciò l’occasione da noi creata ha lo scopo di recuperare i significati più profondi di questo approccio al nuovo contesto, strappandoli dalla confinazione entro spazi indifferenti, negati alla possibilità di un dialogo reale, in quanto le procedure testimoniali raccolte tra questure o centri di accoglienza e hotspot, la cui disumanità si rispecchia negli astrusi acronimi: CARA CPT CIE CAS CPR SPRAR …, ripetono un atteggiamento di investigazione, tesa a sorveglianza e contenimento, anziché ad un potenziamento dell’espressività, e della sostanza reale e umana del narratore, che necessita per realizzarsi appieno di un rapporto reciproco, ben oltre la semplice registrazione a verbale, essendo che solo nella dimensione relazionale fra individui diversi la cultura ci rende umani.[24]

Dunque l’esperienza sviluppata dal Dipartimento di Italianistica e dall’Associazione interculturale Eks&Tra punta a mettere in rilievo competenza operativa nell’insegnamento dell’italiano L2, ruoli attivi nell’associazionismo, curiosità intellettuali di studenti che si imbattono nella proposta non frequente della scrittura creativa come disciplina universitaria, con l’ufficialità di crediti ed esami, non trascurando però di accogliere anche allievi motivati da libera passione, puntando a dar vita a classi che esprimano varietà di percorsi, di età e di profili professionali.

L’efficacia di tale sforzo può forse ricavarsi dallo slancio di energie, che in più casi hanno superato la stretta dimensione propedeutica del laboratorio, consentendo ad autoctoni o migranti, talora attivi in un percorso universitario e di specializzazione, di dar vita ad autonome pubblicazioni.[25] O sono emerse figure sorprendenti, capaci di innestare la recente memoria del Togo (Abdou Samadou Tchal Wel) o del Niger (Ide Maman) in una produzione testuale singolare per i contorni alternativi rispetto all’oggetto narrativo o al tema poetico, segnata da disinvolti passaggi fra idiomi coloniali, la dimensione internazionale dell’arabo, il materno bambaraa o hausa, raccolti in buon italiano. Essi stimolano a considerare una articolazione sfaccettata di termini correnti, quali appunto: poesia, il cui significato risulta declinato con inattese angolature e coloriture rispetto alla semplice confluenza nella tradizione letteraria italiana quale modello inclusivo. Il rischio che esso agisca come ordine gerarchico in una logica postcoloniale, è simmetrico a fragili manifestazioni di una creolità d’accatto, ma incontra il desiderio costante dell’acquisizione di risorse standardizzate per superare le semplici basi funzionali dell’italiano parlato.[26] Altrettanto contraddittorio può sembrare il ricorso al contenitore antologico, che non impedisce come detto transiti verso l’autonomia realizzativa, cercando tuttavia di evitare un modello troppo abusato, che lo offre quale correlato oggettivo di un condominio babelico di voci, ove s’incrociano in modi pittoreschi figurine di interlocutori globali incapaci d’autonomia.

Se l’interrogativo persistente è quello avanzato da Gayatri Spivak: Can the subaltern speak?,[27] va tuttavia arginata la corriva tendenza a inserire il tema migratorio entro strategie di compiacimento sensibile e avventuroso, che anche sul piano della invenzione narrativa vanno a riempire sommariamente lacune del vivere occidentale, come indicato da Daniele Giglioli o Antonio Scurati,[28] attraverso prospettive variate, non canoniche ma all’esito piatte, come troppo spesso ha scelto la stessa letteratura della migrazione, occupando perciò quell’interstizio tra invenzione e testimonianza che configura racconti oscillanti fra Storia e storie. Esperimenti di pur breve convivenza intellettuale aiutano a incrinare stereotipi rappresentativi di mondi troppo lontani, e che tuttavia perdono l’aura di misteriosa e terrifica minaccia quando all’accadimento standardizzato dalla cronaca subentrano protagonisti reali. In tal senso può dirsi che l’operazione anticipi il normale atteggiamento empatico e di immedesimazione col personaggio immaginato che si sviluppa nella fase di lettura, mentre qui il reticolo di scambi e partecipazione, e pertanto la comprensione delle ragioni dell’altro, avviene in fase di costruzione del racconto, essendo poi che il ruolo partecipativo dell’Altro travalica la semplice funzione di informante nativo. E questo anche può considerarsi sviluppo della vocazione cittadina alla tollerante convivenza in una universitas dal millenario profilo arricchito da plurime nationes, che andrebbe meglio approfondito e valorizzato rispetto al superficiale obiettivo accademico della internazionalità, e ancora raccordato alle traiettorie dei tanti studenti che vi convergono, espressione della persistente pluralità del territorio italiano.

La coscienza che il percorso sul piano creativo e dell’immaginario costituisce un surrogato del pieno possesso di cittadinanza, offre tuttavia esiti particolari, che evitano forzature di comodo e strategie edulcorate ricorrenti nel sistema ufficiale di produzione testuale. Infatti nelle raccolte di racconti prodotte da Eks&Tra (che col libero accesso in rete rilanciano la condizione di una letteratura girovaga e di strada, che ha connotato in vari modi genesi e distribuzione dei libri dei migranti),[29] risulta decisamente attenuata la propensione a esibire le fisionomie dell’estraneo secondo quella pornografia dello straniero denunciata da Walter Baroni,[30] dato che “La diversità e il multiculturalismo possono diventare forme di esotismo e narcisismo, e l’esagerazione della differenza genera nuove forme di pregiudizio”.[31] Di conseguenza i personaggi e le azioni che li muovono, raffigurano spesso personalità frutto di reale meticciato, in contrasto con profili rigidi di culture e nazionalità. L’istanza di esprimersi attraverso un gioco di reciprocità, attenua l’incombere dell’assetto autobiografico,[32] e questo anche discende dai profili dei partecipanti, con larga presenza di cosiddette G2 tra gli studenti, protagonisti poi di esperienze di transiti lavorativi o di scambi Erasmus, con trascorsi in orizzonti europei per tanti partecipanti, dalla Scandinavia ai Paesi Baltici, al Belgio.[33] E certamente non va dimenticato che l’assetto narrativo a dimensione collettiva smorza tentazioni di esibizione individuale, confermate nel taglio ironico e nella traccia giocosa dei brevi profili (Io in 10 righe) che corredano i volumi.

Altrettanta libertà consente il tema proposto, punto d’avvio e di confronto da sviluppare su più declinazioni convergenti nella stesura plurale grazie alla maieutica leggera di Wu Ming 2, che porta l’attenzione senza schematismi sugli aspetti strutturali degli esercizi narrativi, coi loro passaggi canonici (incipit, personaggi, scene, ritmi, dialogo, finale …), favorendo l’emergere di soluzioni dal dibattito sul caso specifico, non sempre riconducibile a sequenze prefisse. Ne deriva uno scarso utilizzo di suggestioni derivate (scontate per scuole di scrittura) da classici o autori mainstream (per recenti richiedenti asilo !?), evitando l’esemplarità dei riscontri testuali dal canone occidentale, e rivolgendosi piuttosto a modi narrativi concorrenziali, pervasivi dell’immaginario giovanile globalizzato, quali film, serial tv, graphic novel, che suggeriscono la necessaria fluidità di scansioni, tempistiche, episodi. Tali aspetti sono di certo condizionati da un progetto che ha tempi contingentati (30 ore ufficiali, raddoppiate con disponibile entusiasmo), fuori da un’ottica professionalizzante, mentre spicca la destinazione didattica. Questo ha costretto a rinunciare ad uno dei punti forti della proposta iniziale, la compresenza anche fra i docenti di vissuto e cultura autoctona o esterna, al quale si è sostituta la categoria non meno stimolante del meticciato, che è stata fissata in un volume di fama internazionale, oggetto di larghe indagini quale Timira, frutto dell’interazione di Wu Ming 2 e Antar Mohammed,[34] a più riprese vivace allievo del nostro laboratorio.

L’efficacia della impostazione ci pare comprovata dalla variabilità nelle scelte dei modi narrativi e dei generi letterari, con oscillazioni dalla favola alla fantascienza, dal crudo realismo referenziale all’atmosfera emozionale, l’interesse per la lingua o il gergo della rete e la ricostruzione del parlato dialettale della migrazione nostrana, i tratti epici o la memoria amara dell’espatrio bellico forzato, la traccia immaginifica del percorso orientale accanto alla necessaria coscienza dei naufragi mediterranei. L’istanza di stimolare un gioco di reciprocità, la necessità di includere in una sola voce esperienze molteplici e un amalgama di sentimenti, le scelte strutturali, i tratti del simbolico che assorbono difformità di provenienze culturali, condizioni sociali ed esperienze soggettive, scaturiscono dai profili di una gioventù studiosa affatto inerte, o tormentata da ragioni curriculari, che si accosta alle scommessa del racconto provenendo spesso da efficaci esperienze di aiuto ed assistenza nei contesti di accoglienza dei richiedenti asilo. In questo la conferma della necessità di forme di sostegno che non pretendono di scavalcare le esigenze materiali, ma tracciano percorsi di empowerment complessivo di soggetti che potranno avvalersi per una reale agency anche della pregnanza delle risorse culturali. Un contributo forse modesto, ma parte di una strategia mirata ad un processo di individuazione di figure reali coinvolte nel tanto dibattuto percorso migratorio, in risposta alle immagini massificanti e oscure che sorreggono la gestione di una perversa strategia politica tesa a mantenere un rassicurante Ordine delle cose (come ha mostrato il celebre film di Andrea Segre), funzionante solo nell’evitare un raffronto diretto, lo sguardo negli occhi dell’Altro, che immediatamente esprimono l’esistere di una visione e di una cultura alternativa.

Pertanto si è cercato di mantenere un assetto modulabile del laboratorio a seconda della varietà dei contesti e del mutare degli elementi contingenti spazio-temporali che coinvolgono i partecipanti,[35] preferendo al possibile moltiplicarsi dei corsi in risposta all’ampia richiesta di adesioni, piuttosto la ricerca di occasioni di vivacità dialogica oltre la fase di costruzione dei testi. Essa prosegue nelle presentazioni in orbita universitaria, nelle librerie o nelle manifestazioni sensibili al tema delle mobilità delle culture, dando spazio alla voce diretta dei giovani narratori chiamati ad affrontare anche il rituale della consacrazione pubblica quali autori.

Tali incontri intendono altresì ribadire quei fondamentali principi della ospitalità fissati nella nostra civiltà e nel canone letterario sin dalle Supplici di Eschilo, e che Georges Didi-Huberman[36] evoca come necessari a risarcire il senso di frustrazione e di immobilismo paralizzante che stravolgono l’illusione di una nuova Europa, incapace di riconoscere la spinta fondamentale per l’essere umano rappresentato dall’insopprimibile “désir de passer”, sanzionato in chiave criminale al pari di assurdi delitti di solidarietà, atti di resistenza alla frenetica erezione di muri ostacoli barriere difese lame e fili spinati, che strangolano in un’atmosfera mortifera la vita e l’intelligenza degli impauriti e paralizzati suoi stessi abitanti. Perciò assume particolare valore, secondo il filosofo francese, ogni proposta che contrasti il dilagare di una cieca politica securitaria e populista, avvalendosi dei potenziali offerti dagli strumenti creativi (immagini, suoni, parole, gesti e azioni) che costruiscono “un immense monument d’accusation” tramite oggetti “inscrites dans le circuit de la culture européenne”, così da restituire fondamentale dignità ad ogni persona, specialmente a coloro che, pur nella limitata temporalità del passaggio, esprimono una missione profetica riconosciuta da Annah Arendt e Pier Paolo Pasolini nei rifugiati dei loro tempi quali avanguardie e testimoni di un possibile futuro realmente umano.

Di questa ricostruzione, o risemantizzazione del nostro esistere come italiani ed europei abbiamo urgente necessità nel momento in cui i burocratici e spietati organismi comunitari si concentrano su un’inattuabile strategia di frontierizzazione transcontinentale, sulla quale riflette Achille Mbembe,[37] basata sull’espansione del dominio postcoloniale, disegnando l’utopia panottica su una gigantesca spazialità intrisa solo di perdita e di dolore, col ricorso a strumenti tecnologici che generano un “lieu-zéro” “ de la non-relation et du déni de l’idée même d’une humanité commune”. Da quel vuoto tuttavia emergono “corps d’abjection”, percepiti come esemplari di ripugnanti masse di una subumanità indistinta, in quanto ridotti a spettrali forme di nuda vita dai dispositivi di filtro ed estraniazione quando fortunosamente approdano al nostro continente, dove infatti “ils n’ont ni noms propres, ni visages singuliers, ni cartes d’identité”.

Contro tutto questo opera il nostro progetto, dando preminenza a una tecnologia arcaica ed elementare come la scrittura, riconoscendo ad ogni soggetto potenziali paritari, conferendo loro un’identità culturale che infrange l’anonimato stigmatizzante del sans papiers, invertendo l’ossessiva diffusione dell’ansia e del sospetto verso il nuovo e lo sconosciuto. Se la bieca narrazione imperante punta sulla dialettica panico/rassicurazione, con la pretesa di esibire incontrastata la capacità “de contrôler et de governer les modes d’apparition” dell’estraneo e del diverso, tanto più esigente diviene la necessità di pratiche di capovolgimento di questi dispositivi sociali, pur nella coscienza della fragilità di una prospettiva intellettuale, capace tuttavia con forza contrastiva di affermare “avec une vigueur renouvelée ce qui se fait en son nom contre les Autres, ceux-là qui, pense-t-on, ne sont pas des nôtres”, costruendo percorsi di resistenza e occasioni che dimostrino la possibilità di farli perfettamente a noi eguali.

 

 

I racconti che l’e-book presenta, scaturiscono da una ricerca di forme narrative incardinate nelle notizie di una cronaca precipite, evitando però una dimensione utopica contrastiva ma defilata dal confronto diretto con situazioni reali, le quali dunque offrono elementi di ingombrante pregnanza, di scontro e sofferenza che la foga del messaggio politico dissolve nel clamore della propaganda, traendo forza dalla linearità della sua costruzione.

Già in (Non) è un paese per negri lo sforzo di rendere un’interpretazione di adeguata complessità punta sull’evidenza di un razzismo ormai sfrenato, che trascende dall’aberrante chiacchiericcio di rete alla mortale selettività di un genocidio dilatato e distillato, che si lega ad infiniti ostacoli su intere quadranti continentali, a minacciose battaglie navali contro inermi e sommersi, proseguendo la caccia al nero fin dentro gli spazi pubblici di una civitas che rinuncia ogni giorno ai tratti che storicamente caratterizzano la sua tradizionale umanità tollerante e aperta, stante che l’aria della città europea dovrebbe rendere liberi.[38] A questo è riferito un testo che esibisce un’intelligente intenzione performativa, rovesciando la narrazione imperante che straripa in un’orgia di passaggi di quotidiana e montante disumanità. Spunta un possibile futuro appena distopico, con la presenza attiva nella politica locale di protagonisti venuti dall’inquietante orizzonte africano che tanto orrore suscita in benpensanti dal corto sguardo, dimentichi che la nostra comune madre proprio da lì si è mossa per una vocazione migratoria che è l’istanza caratterizzante del suo profilo sapiens (e dunque, come definire gli opponenti ?). Il racconto si proietta dunque in una possibile imminente normalità, immaginando il riscatto del simbolico protagonista Salim, che non solo conquista la donna bianca, ma amplia un normale percorso di integrazione raggiungendo nel 2035 il ruolo di Sindaco di un beffardo Castelnegro, unico lembo del territorio italiano dove la fantastica avventura può compiersi, pur nel permanere di un livore largo e ostile. Quel fantastico paese rimarca lo spropositato dislivello rispetto a situazioni affatto distruttive che Londra o New York, e altre decine di grandi metropoli d’Occidente, da tempo vivono, avendo realizzato (seppure in termini non sempre lineari) congruenti spazi di socialità per le generazioni migranti, saldamente installate nel contesto urbano come nel corpo delle comunità. A tal fine punta a una intelligente strategia dialogica Laura, che rifiuta una pratica di giornalismo irresponsabile e arbitrario, mettendo in campo una alternativa semplice giocata sulla forza diretta della parola altrui, appunto la kalima riconosciuta indispensabile a un dialogo rispettoso e incisivo, al quale anche s’affida l’inusitata strategia politica del compagno, che nella tenacia e nella flessibilità si mostra vincente.

Il secondo racconto Mulini a vento offre un caustico ritratto del pullulare inarrestabile dei cosiddetti Comitati del No, e sforzandosi di  capovolgere il punto d’osservazione, ne porta in rilievo un personaggio profondamente segnato da quella nevrosi da assedio, generata da ferite e lacune interiori, che secondo Wendy Brown sono la componente di psicologia sociale che sorregge il ricorso alla strategia capillare del muro quale taumaturgico rimedio alla contaminazione della diversità. Recinzioni, difese, ostacoli, una congerie di impedimenti accrescono in realtà in Aldo la coscienza di un’insuperabile prostrazione, schiacciato  dall’immagine paterna che incombe ed esaspera la sensibilità a ombre e paure esteriori. Di ciò approfitta l’infido amico Mario, e la combriccola del paesino agreste, il cui compatto schierarsi contro un pugno di profughi ne consente il surrettizio sfruttamento, tenendoli nella minacciosa sospensione fra aggressività e respingimento. L’elementare strategia si alimenta dalla pretesa efficacia di una rivendicazione vittimistica, che in realtà sovverte il peso e le ragioni delle situazioni ed esaspera i torbidi richiami a un’aggressività di facciata, che diviene incontrollabile per il più debole del gruppo, sino a danneggiare i compaesani. Utile a coprire frustrazioni e impotenze diffuse in figure di mediocre ed avvilito spessore, essa genera sul piano delle convinzioni e delle azioni un reticolo protettivo che finisce per ingabbiare l’autoctono, più che non l’ignoto e sospettato nemico che pare assediare lo spazio simbolico della casa-Heimat, alimentandosi il terrore nel compiacente circolare di voci che trovano fondamento non tanto nell’oggettività fattuale, bensì nel rilancio assertivo da parte dei media.

Dica: Lo giuro offre allora un punto di riflessione sulle manipolazioni mediatiche sortite dalla informazione reticolare, che di fatto procede alla disinvolta frantumazione nella illusoria possibilità di abbracciare e riordinare un processo di democrazia affidato alla ipotetica equivalenza delle opinioni individuali; ne risulta un incontrollabile strumento di dominio degli strati sociali più sprovveduti, spaesati e parcellizzati, in balia di un verbo esterno che ricompone la profilazione algoritmica in mitica verità postideologica. Contro l’assuefazione a un’informazione tendenziosa, muove con ambizione personale arricchita da motivazioni robuste Sofia, che sceglie il percorso scomodo dell’indagine diretta sulle tensioni sociali della propria città, scontrandosi col formulario accomodante che sembra premiare il rivale Zambelli. Una doppia passione anima scelte di vita e professionali della ragazza salentina, che allo standard comunicativo della stampa locale oppone la pungente gestione di un suo blog, con la collaborazione decisiva del compagno Youssef, che elabora una strategia beffarda orchestrata alla vecchia maniera nel concreto di azioni direttamente agite. Ad esse s’aggiunge lo spiazzante ricorso alla memoria della narrazione manzoniana, già capace di rivelare le strategie della comunicazione falsata nelle riflessioni post-rivoluzionarie di una sua vittima, come Renzo. La tradizione letteraria quale territorio della piena italianità risorgimentale conosce dunque anch’essa una sorprendente trasformazione; e mentre si mescolano in modo volutamente stridente lingua sciacquata in Arno e le voci di una nuova affettività provenienti dal mondo africano, s’intuiscono profili potenzialmente rivoluzionari, coraggiosi e fantasiosi nell’affrontare i nodi del potere comunicativo da parte di seconde generazioni, essenziale componente di una nuova realtà di popolo. Esso comprende anche le cosiddette                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         “coppie miste” che, auspicata novità di meticciato autentico all’aprirsi degli anni Novanta, ora appaiono rivelare l’incertezza di percorsi concreti di integrazione calati nel tessuto accidentato del quotidiano, costrette a vivere nella clandestinità un fondamento di vita, mentre all’opposto sono espressione della dimensione dell’intimità che si allarga a sostenere realtà esistenziali aperte e disponibili contro e oltre tutte le pregiudiziali astrattamente costruite.[39]

Anche in Una storia contemporanea lo svolgimento narrativo sceglie una via di rappresentazione mediana, senza conferire epica malvagità alla curiosa figura del protagonista del tutto negativa, ma segnata da una fragilità che anche la mancanza di un nominativo esplicita, così come il narrato si offre tutto in soggettiva, sino a restringersi in frammenti di diario. Del resto il principale tratto del suo nevrotico egocentrismo sta nella introversione di una vita nascosta e sfuggente, che attraverso rituali ripetitivi tenta di esorcizzare mutamenti, trasformazioni e novità. E tuttavia essi non valgono ad evitargli (continuando col palinsesto manzoniano) di essere comunque travolto dei guai, pur non avendoli cercati. A disturbare la voluta piattezza del vivere, a cui fa riscontro il legame con una strumentazione antica e rassicurante come la macchina da scrivere, irrompe nello spazio domestico la figlia (ovviamente fastidiosa ed estranea) che funge da sensibilità profonda che alla fine, pur senza nessun reale riscatto, pare costringerlo ad una presa di coscienza. La quieta passeggiata notturna con l’inseparabile cane si trasforma in avventura microcriminale, con invasione di proprietà e furtarello, sfiorando senza consapevolezza un’umanità sofferente sbirciata senza emozioni, che finisce però travolta dalla sua irresponsabilità. Provocando l’inagibilità di un centro d’accoglienza, immagine minacciosa del caos che tanto rifugge, si trova ad essere esaltato quale protagonista dei “comitati contrari all’accoglienza”, ruolo dal quale rifugge non certo per atto consapevole e aperto, ma piuttosto con la piccineria di un ritorno all’anonimato, incapace persino di esplicitare l’avversione al nuovo e al diverso pur di non emergere dalla immobilità consolatoria, alla quale anela col grigiore dell’uomo medio.

Se col precedente siamo a fronte di un personaggio che corrisponde all’ignavo dantesco, col successivo episodio misuriamo invece la possibile declinazione opposta per troppo di vigore partecipativo, che risulta nociva per sé e deleteria per gli altri, lasciandosi la protagonista Anita trascinare dall’ingenua e non controllata disponibilità a mettersi in gioco nei confronti di nuove e attraenti presenze. I profughi irrompono nel suo vissuto senza lo schermo e l’ausilio di una strategia effettiva, così che la ragazza pare colpevole non solo di un’ingenua disponibilità al soccorso delle esigenze più immediate, che finiscono per sostenere occasioni di devianza favorendo il malaffare di Youssouf, ma di aver trasferito la precedente esperienza scolastica (nonostante gli sforzi dei colleghi di un’organizzazione di sostegno sociale) in un approccio didattico che non può rimanere estraneo e privo di responsabilità condivisa, come si trattasse non di uomini volitivi ma di semplici fanciulli. La semplicità della giovane non le consente di cogliere il livello reale di sfida fra maturità concorrenti, e il racconto ha un suo interesse nel richiamarci ad una coscienza vigile rispetto al cosiddetto “buonismo”. Quegli esseri che la commuovono e la turbano, finiscono inconsapevolmente inferiorizzati grazie proprio a quegli slanci generosi di spiccia disponibilità, che impediscono però ad entrambe le parti un vero percorso di mutua presa di coscienza e di crescita: ”Anita percepiva poca differenza fra quei bambini e questi ragazzi, lontani da casa, con ancora addosso i segni di un lungo viaggio, sperduti in un contesto culturale totalmente diverso”.

Il motivo del superamento della frattura culturale che si instaura tra i due orizzonti fra i quali oscilla la mente di un viaggiatore così particolare come il migrante, innesta plurime reazioni, tra le quali la spinta all’autoprotezione per cancellare l’angoscia del vuoto sempre spaventoso che turba il pensiero. Ne può scaturire il capovolgimento della nostalgia, l’attenzione tutta schiacciata sul presente e l’attualità, che configura la tentazione al passing entro la dimensione occidentale,[40] da cui si genera l’ostinato rifiuto del passato, con le sue abitudini, i rituali, le cerimonie, i sapori. Ma, come in ogni altra nevrosi, ecco apparire il lapsus, l’interstizio dove il rimosso trova modo per riaffiorare, come capita a Saeed, ricondotto suo malgrado a misurarsi col passato e i suoi traumi dalla generosità che la moglie Bahareh rivolge ai compatrioti iraniani affidati all’accoglienza volontaria. La sua mediazione vorrebbe essere efficace non solo nei confronti degli ospiti, ma anche per evocare attrattivi orizzonti per i figli, che al mondo di provenienza familiare guardano con ansia di riconquista e comprensione, intrecciando percorsi di vecchia e nuova migrazione. Proprio questo vorrebbe evitare il capofamiglia, orgoglioso del successo del presente, ma in segreto tormentato dall’esito fortunoso della fuga che aveva sacrificato il giovane fratello, reincarnato nelle figure infantili alla cui commossa amicizia è al fine costretto a cedere, rinunciando alla maschera rigida dell’occidentale e recuperando l’orgoglioso della duplicità culturale che può configurarsi in sorprendente convergenza, come dimostra la coincidenza dei colori nazionali della vecchia e della nuova patria: Verde, bianco e rosso.

Se nel caso precedente era scelta volontaria la rimozione della lingua materna, l’ultima narrazione (La lingua rimossa) cerca di trasporre in una vicenda ordinaria il tema centrale di un’accoglienza che trova misura corretta quando può consentire nello scambio paritario il riconoscimento dell’alterità, coi suoi tratti connotativi e specifici, a partire dall’impianto persuasivo e attivo di un mutuo equilibrio dialogico.  In una situazione quasi fiabesca, attivata anche dal narrare che lega avo e nipote, forme di dispiegata ostilità, di inconciliabile opposizione espressa nei rapporti di avversione e protesta, condite da smarrimento e paura, tra gruppi stanziali e nuclei di recente arrivo per i quali viene meno l’atto umano per eccellenza della parola, dispersa nell’emissione e priva di ricezione: “la distanza fra noi e il gruppetto fece sì che le parole si perdessero nel vuoto”. In questa atmosfera di sospensione irreale, che allude al mito e risponde al dramma profondo di una inconciliabile separatezza, interviene un essere straordinario, sacro nella sua stramba estraneità a tutti i contesti, eppure preziosa memoria di antichi episodi di guerra e sopruso che affiorano attraverso un approssimato vaticinio poetico, e Dante (!) con forza proclama che “ogni essere umano è figlio di migrazione”. La riconquista di una posizione all’interno di una città estranea, testimonia di una rivendicazione allargata ad un insieme di soggetti, tra i quali gli immigrati sono parte di una massa di esclusi, sfruttai, dimenticati, e silenziati. Il finale del racconto raffigura perciò un corteo di subalterni che conquista una voce corale e possente, in grado di infrangere le ansiose sordità della popolazione cittadina ponendo le basi per una nuova e disponibile comunità, aperta su tutti i versanti a recenti e vecchi protagonisti.

Questo messaggio vorremmo spendere come risorsa utile a misurarsi col vociare confuso e ridondante che sbraita negazioni, condanne, ostilità e divieti, ribadendo dunque fiducia nei miti fantastici e nella capacità della narrazione a dar forma a un’utopia cogente, l’ineludibile riconquista di una parola che, rispetto ad esperienze non lontane e riconoscibili in senso storico e in chiave geografica, ricordano come il silenzio sia funzionale ai regimi lugubri e mortali.

Non si è voluto dunque azzardare un bilancio ma piuttosto un proposito doveroso e impellente, che abbisogna (nell’auspicato prolungarsi del sostegno da parte del Dipartimento) di continuità e sviluppo in un progetto ostinato e contrario al vorticare di una cronaca aberrante che scava abissi oltre la valicabile linea della modernità liberale. Senza pretese illusorie, ma convinti dell’impossibile separatezza dall’accadere di ogni essere, schierandosi nel raffronto drammatico che ci sovrasta fra paura e libertà,[41] spendendo la risorsa più altamente umana, creativa, solidale e socializzante, del verbo nell’impellente necessità di farne impiego solidale. La proposta del racconto collettivo funziona ancora come corale proclama di una disponibilità a misurarsi attraverso un sostegno condiviso rispetto ad una tragedia epocale per la quale è impellente la funzione sincronica e attiva della figura del testimone,[42] scansando l’oggettiva convergenza fra la grigia passività dell’osservatore qualunquista e il rinvio al recupero tutto ideologico di una memoria postuma alle contingenze traumatiche e ai loro meccanismi repressivi, dimostrando perciò che qui e ora non “abbiamo perso la capacità di parlare”.[43]

NOTE

[1] J. Campbell, L’eroe dai mille volti, Torino, Lindau, 2016.

[2] G. Giuliani, Zombie, alieni e mutanti. Le paure dall’11 settembre a oggi, Milano, Le Monnier, 2015.

[3] Z. Bauman, Intervista sull’identità, a cura di B. Vecchi, Bari-Roma, Laterza, 2003; M. Aime, Eccessi di culture, Torino, Einaudi, 2004; L’invenzione dell’etnia, a cura di J.-L. Amselle e E. M’Bokolo, Milano, Meltemi, 2017.

[4] G. Helbling, Quelle braccia che tutti citiamo, «Area», XV, n. 20, dicembre 2012, http://www.areaonline.ch/Quelle-braccia-che-tutti-citiamo-0a629500

[5] Aspettano di essere fatti eguali. Dialogare con l’altro, è il titolo scelto per il corso dell’anno 2018, con un riferimento al celebre passaggio da Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967, p. 80: «In Africa, in Asia, nell’America Latina, nel Mezzogiorno, in montagna, nei campi, perfino nelle grandi città, milioni di ragazzi aspettano di essere fatti uguali. Timidi come me, cretini come Sandro, svogliati come Gianni. Il meglio dell’umanità». Da cui il titolo di questo intervento.

[6] D. Forcags, Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità ad oggi, Roma-Bari, Laterza, 2015.

[7] Riflessioni che ho fissato in Black University. Esperienze di un laboratorio di scrittura interculturale, «Educazione Interculturale», VI, 2007, pp. 73-81, e Interscrittura. Un laboratorio di scrittura interculturale, in Letterature migranti e identità urbane. I centri interculturali e la promozione di spazi pubblici di espressione, narrazione e ricomposizione identitaria, Atti del Convegno Letterature migranti e identità urbane, Bologna. 11-12 ottobre 2007, a cura di M. Traversi e M. Ognisanti, Milano, F. Angeli, 2008, pp. 35 – 50.

[8] Mancano, anche da parte di noi organizzatori, riflessioni e analisi su un corpus largo, continuo e sostanzialmente omogeneo, rappresentato da decine di narrazioni di almeno un paio di centinaia di allievi.

[9] Le politiche del riconoscimento delle differenze. Multiculturalismo all’italiana, a cura di Ralph Grillo, Jeff Pratt, ed. it. a cura di B. Riccio, Rimini, Guaraldi, 2006.

[10] Si veda l’indispensabile IV Libro bianco sui fenomeni del razzismo curato dall’Associazione romana Lunaria, Il ritorno della “razza”, giugno 2018, https://www.lunaria.org/wp-content/uploads/2018/06/Focus-N4_ilritornodellarazza.pdf

[11] Familismo legale: come (non) diventare italiani, a cura di G. Zincone, Roma-Bari, Laterza, 2006.

[12] http://www4.istat.it/it/immigrati

[13] «Scritture Migranti», 9-10, 2015/2016, Europa/Europe.

[14] W. Brown, Stati murati, sovranità in declino, Roma-Bari, Laterza, 2013.

[15] G. Agamben, Lo stato d’eccezione, Torino, Bollati-Boringhieri, 2003.

[16] A. Appadurai, Sicuri da morire. La violenza nell’epoca della globalizzazione, Roma, Meltemi, 2005.

[17] F. Bertoni, Letteratura. Teoria, metodi, strumenti, Roma, Carocci, 2018, p. 25.

[18] Per notizie e materiali di una proposta culturale di larga complessità, mai studiata, si rinvia al sito: http://eksetra.net/

[19] F. Pezzarossa, «Il “dopo” che alcuni leggono e celebrano non è ancora arrivato». La breve parabola delle scritture di migrazione italiane, in Pluriverso italiano: incroci linguistico-culturali e percorsi migratori in lingua italiana, Atti del Convegno internazionale, Macerta-Recanati, 10-11 dicembre 2015, a cura di C. Carotenuto, E. Cognini, M. Meschini, F. Vitrone, Macerata, Eum, 2018, pp. 305-335.

[20] «È una bella notizia che la razza padrona stia in ansia rispetto a chi dovrà stare a sentire» afferma a commento delle aperture editoriali britanniche Hanif Kureischi, Il colore dei libri, «Robinson», 1 luglio 2018, p. 1, affiancato da Salman Rushdie.

[21] F. Pezzarossa, Migrant Writers? Tell them to stop! An overview of recent Italian migrant works, in: ReadinItaly. Italian Studies Postgraduate Forum, Reading, University of Reading, 2013, pp. 1-11; Al finire di esigue narrazioni. Come evapora la letteratura migrante, «Between», 2015, 10, pp. 1-31.

[22] Si veda a questo proposito la rilevante recensione di A. Caroselli e M. Mellino, La trappola umanitaria. L’umano come cifra dell’accumulazione neoliberale, in «Deco[K]Now. Spazi e pratiche di decolonizzazione del sapere», 16 luglio 2018, http://www.decoknow.net/trappola-umanitaria-accumulazione-neoliberale/ a D. Fassin, Ragione umanitaria. Una storia morale del tempo presente, Roma, DeriveApprodi, 2018.

[23] F. Sossi, Storie migranti. Viaggio tra i nuovi confini, Roma, DeriveApprodi, 2005; col prezioso sito: http://www.storiemigranti.org/

[24] La cultura ci rende umani. Movimenti, diversità e scambi,  Torino, UTET, 2018.

[25] E. Losso, I disintegrati. La guerra di San Barbaso, Castelfranco Veneto (TV), Panda, 2015; I. Amid, Malinsonnia, Tricase (LE), Libellula, 2017; G. Mohammed, La vita non è una fossa comune, Forlimpopoli (FC), L’arcolaio, 2017; ma specialmente J. Karda, Scischok, Leonforte (EN), Euno, 2018, primo collettivo italiano tutto al femminile, formato da Claudia Mitri, Vanessa Piccoli, Lolita Timofeeva, al quale anche collabora Laila Wadia.

[26] R. Cacciatori, “Voi avete il tempo, noi le storie”, p. 11, introduzione all’antologia Sulla stessa barca. Incontri di scrittura creativa tra cittadini italiani e stranieri, «El Ghibli», XVI, 57, luglio 2018, Esperienze di cittadinanza condivisa attraverso la scrittura, http://www.el-ghibli.org/, sottolinea un’aspettativa rivolta all’apprendimento basale dell’italiano, non certo l’ossessione dell’ibridismo. Del resto contraddetta anche da autori che abbiamo accolto nelle nostre stesse esperienze, da Julio Monteiro Martins, a Christiana de Caldas Brito, a Livia Bazu.

[27]G. C. Spivak, Can the Subaltern Speak?, in Marxism and the Interpretation ofCulture, edited by C. Nelson, L. Grossberg, Urbana, University of Illinois Press, 1988, pp. 271-313.

[28] D. Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio, Macerata, Quodlibet, 2011; A. Scurati, La letteratura dell’inesperienza. Scrivere romanzi al tempo della televisione, Milano, Bompiani, 2006.

[29] I materiali antologici dei corsi bolognesi sono reperibili in: http://eksetra.net/libreria/ . Sul fenomeno della vendita girovaga dei libri di migrazione, si veda il monografico a più voci di «El Ghibli», n. 55, luglio 2017.

[30] W. Baroni, Contro l’intercultura. Retoriche e pornografia dell’incontro, Verona, Ombre Corte, 2013.

[31] H. Kureishi, Gli stranieri questi sconosciuti. Il nuovo mito del migrante, in Love+Hate. Racconti e saggi, Milano, Bompiani, 2018, pp. ??-??, a p. ??.

[32] C. Mengozzi, Narrazioni contese. Vent’anni di scritture italiane della migrazione, Roma, Carocci, 2013.

[33] Per tutti lo studente belga che ha suggerito ai compagni italiani un lavoro sulla vicenda di Marcinelle: Collettivo  Senzafiltri, Comme chez soi, in Un passo dopo. Racconti meticci, interculturali, collettivi, S. Giovanni in Persiceto (BO), Eks&Tra, 2015, pp. 18-36 http://eksetra.net/wp-content/uploads/2015/06/unpassodopo-ebook.pdf

[34] Wu Ming 2 e A. Mohamed, Timira. Romanzo meticcio, Torino, Einaudi, 2012.

[35] Sulle contingenze pratiche, di disponibilità spesso condizionata, R. Cacciatori, “Voi avete il tempo, noi le storie” cit., p. 12.

[36] G. Didi-Huberman, Ceux qui traversent la frontière, in «EuropeanSouth Journal», n. 2, 2017, Insurgencies from the South and Human Rights, pp. 145-154 (le cit. a p. 150) http://europeansouth.postcolonialitalia.it/journal/2017-2/FES_2_2017_9_Didi-Huberman.pdf

[37] A. Mbembe, Le gran débarras, in «AOC/Analyse Opinion Critique», 2 mai 2018 (le cit. a p. 2, 3, 4, 5, 1) https://aoc.media/opinion/2018/05/02/le-grand-debarras/

[38] Ma va tenuta presente la spaventosa ricostruzione di G. Chamayou, Le cacce all’uomo, Roma, manifestolibri, 2010.

[39] H. Kureishi, Love+Hate cit.

[40] V. Romania, Farsi passare per italiani. Strategie di mimetismo sociale, Roma, Carocci, 2004.

[41] R. Escobar, Paura e libertà, Perugia, Morlacchi, 2009.

[42] D. Meneghelli, Il diritto all’opacità. Autori, contesti, generi nella letteratura italiana della migrazione, «Scritture Migranti», 5, 2011, pp. 57 – 80.

[43] La lingua rimossa cit.