Milite (Ig)nota – Giulia Lecchini
Credevo di essere l’unica africana a Gradisca, pensò Milite mentre apriva la porta di casa all’uomo che stava aspettando.
«Mi chiamo Kali Tesfai. Sono qui per conto della Prefettura di Udine… Se non sbaglio, ha parlato al telefono con il prefetto Rota».
«La stavo aspettando, ma sono un po’ indietro con i preparativi… Vuole entrare?»
Tesfai annuì, e la seguì all’interno. Milite era imbarazzata. Viveva in una vecchia casa, che poteva benissimo avere ormai più di un secolo. I muri erano rovinati, l’arredo antiquato. Nel salotto, gli indicò il divano. Quella mattina, piuttosto presto, aveva ricevuto una telefonata che l’aveva scossa. Abraham era scappato, dall’Eritrea e dal suo esercito. Ma era morto, su una barca nel mar Mediterraneo: un’onda, il mare mosso, la fame, la sete. E ora doveva andare a Roma, lei, per parlare a una grande cerimonia.
«Ha preparato i bagagli? Viaggi leggera, starà via solo pochi giorni. Per il resto non si deve preoccupare. La salma di suo figlio la attende a Roma. È volontà dello Stato italiano celebrarla insieme a quello che rappresenta: libertà, giustizia…» Si guardò intorno, poi proseguì, come se avesse messo un punto per ricominciare da capo: «Proprio per questo è necessario che il suo discorso sia puntuale e significativo. Pregno. Conosce il significato di questa parola?»
Milite lo conosceva. Tesfai continuò: «Ci sarà una persona ad aiutarla proprio in questo. Ma da quel poco che ho sentito, lei ha un’ottima padronanza della lingua italiana… almeno per una straniera».
«La ringrazio. È merito della mia amica Selam…»
«Bene, bene…» rispose Tesfai. «Io so quanto è importante conoscere la lingua, sono un mediatore culturale. La professione del futuro, dicono. Il prefetto ha deciso di mandare me, piuttosto che venire di persona, per una questione di… sensibilità. Non voleva inserirla troppo brutalmente in un contesto che potesse spaventarla, e il fatto che io parlassi la sua lingua avrebbe potuto metterla a suo agio, ma sembra non essercene bisogno! Quindi forza, il tempo non è molto!»
Milite aveva una vecchia valigia nello scantinato, chiusa là dentro da quando era arrivata a Gradisca d’Isonzo, una decina d’anni prima. Le avevano assegnato quella casa sfitta in quanto rifugiata politica e lei aveva trovato un impiego per poterla conservare. Non si era più spostata da quel piccolo paese: il suo stipendio di donna delle pulizie non le permetteva di viaggiare e neanche il tempo che le lasciava per sé era abbastanza da poter pensare a una vacanza. Così Milite aveva coltivato la sua vita lì, al numero 37 di via Bergamas. Ogni tanto, ma sempre più raramente, arrivava a trovarla da Trieste la sua amica Selam. Erano arrivate insieme dall’Eritrea, poi lei si era sposata con un italiano che l’aveva portata in città, e non aveva più tanta voglia di raggiungere l’amica nella sua piccola casa in quel triste paesino.
La valigia era grigia di polvere, chiusa in un angolo come un ostaggio del tempo, simbolo dell’immobilità di un’esistenza. Mentre si accingeva a risalire, Milite notò un oggetto posato su una credenza: un vecchio quadernino di cuoio marrone, liso e bucato, su cui erano incise due parole: MARIA BERGAMAS. Quella parola, Bergamas, attirò la sua attenzione perché aveva dovuto impararla da subito: era il nome della via nella quale abitava e l’aveva scritta e ripetuta decine di volte, in tutti i documenti che aveva dovuto compilare, a tutti gli sportelli dietro i quali aveva atteso, in file interminabili, di adempiere ai suoi doveri burocratici. Lo prese e lo infilò nella tasca dei pantaloni.
***
Un taxi li aspettava davanti a casa.
«Stazione di Udine» disse Tesfai. Poi, rivolto a Milite: «Questa manifestazione avrà un’eco nazionale. L’opinione pubblica è divisa e i detrattori non aspettano altro che un appiglio. Un passo falso. Il governo non deve perdere altri consensi. Per questo viaggerai in treno. I cittadini italiani sono stanchi di tutti quei soldi buttati per aiutare chissà chi, e a loro chi ci pensa? Questo dicono. Al giorno d’oggi tutti i conti sono pubblici, tutto è tracciabile. Il tuo viaggio, Milite — posso darti del tu? — è organizzato secondo il criterio del risparmio: spendere. Il – meno – possibile». Scandì con particolare enfasi queste ultime parole.
Durante il viaggio, Milite rifletté sull’opportunità che le veniva offerta: tutto sarebbe cambiato. L’aria sapeva già di nuovo. Finalmente si sarebbe lasciata alle spalle il rimpianto, il peso del fallimento materno: l’abbandono del figlio in Eritrea, la fuga, sola e impaurita. Il finale era amaro, ma era sempre un finale. Abraham era morto. Non in Eritrea, dove il suo cadavere sarebbe finito in una fossa con altri cento; ma in mare, tra le onde. Lì era stato raccolto — raccogliere, pensò Milite, questa parola che, inconsapevole, porta in sé il significato dell’accoglienza — da esseri umani che si erano poi premurati di contattarla, perché questa è l’usanza in un paese civile, questo è il protocollo. A lui ora era riservato un funerale, una celebrazione, le aveva detto il prefetto, perché Abraham era una brava persona, e perché tutti meritiamo di vivere nel luogo in cui nasciamo, da cui nessuno deve essere costretto a scappare.
Alla stazione di Udine, il treno era fermo al binario. Mentre Milite prendeva posto a fianco al finestrino, il mediatore culturale rimase in piedi. Quell’uomo era strano. Per quanto fosse educato nei modi, averlo intorno era spiacevole, come un bell’abito appeso fuori dall’armadio che di notte si trasforma in una presenza inquietante. Si passò una mano sulla bocca, che lasciò trasparire un mezzo sorriso e con voce pacata chiese: «Milite, tu conosci il milite ignoto?»
«No» ammise lei con un sorriso curioso, chiedendosi tra sé come fosse possibile che un uomo si chiamasse Milite.
Lui disse solo: «Credo che lo conoscerai presto… Ma non sarò io a raccontarti questa storia. Il treno sta per partire e devo tornare al mio lavoro. A Roma ci sarà ad aspettarti un uomo, lo riconoscerai dal cartello con il tuo nome. Stanotte ti fermerai a Bologna. C’è una camera prenotata per te in un hotel di cui non ricordo il nome. Se ti trovi in difficoltà, non esitare a chiamarmi, è tutto scritto qui. Buona fortuna!»
Dopo averle passato una busta, Tesfai uscì e la donna lo vide attraverso il finestrino, allontanarsi. Fece un respiro profondo, che significava tutta la sua volontà di essere lì in quel momento, e di essere calma, ma che esprimeva l’esatto opposto. Il treno partì.
***
Una pacca sulla spalla. Abraham le dà una pacca sulla spalla e sorride. Le stringe la spalla con delicatezza, ma in modo deciso, e dice: «Scusami».
Milite aprì gli occhi.
«Mi scusi, biglietto prego».
Dopo lo spavento iniziale, il colpo al cuore di chi, colto impreparato, sa di averlo comprato ma è altrettanto certo che per una qualche coincidenza esso sia andato perso, Milite si ricordò della busta che Tesfai le aveva lasciato, e ne estrasse il biglietto. Il controllore guardò il pezzo di carta con aria arcigna, poi lanciò un’occhiata torva a Milite, e di nuovo al biglietto. Finalmente obliterò, gli animi di entrambi si rilassarono. Lui fece per andarsene, ma all’ultimo momento si girò e disse: «Signora, con i documenti, come siamo messi? Abbiamo tutto in regola vero?»
Milite portò d’istinto la mano alla borsa, nella quale rovistò preoccupata in cerca del documento d’identità, che certamente aveva e che non aveva potuto dimenticare. Lo porse all’uomo, provando una punta di vergogna mista a stupore: aveva obbedito alla sua richiesta con un movimento automatico, senza pensare se fosse stato suo diritto rifiutare. Lui, comunque, sembrava stupito da tanta legalità, anche un po’ deluso. Svogliato lesse il nome della donna.
«Milite?» disse strabuzzando gli occhi, sinistramente divertito. Parlava con tono sarcastico: «E cosa vorrebbe dire? Guerriera? Combattente?»
«È tigrino. È la lingua dell’Eritrea. In italiano si direbbe, credo, Maria, o almeno così mi hanno detto».
«Come il milite ignoto!» e nel pronunciare quelle parole il controllore se ne andò, scuotendo la testa.
Riponendo il documento nella borsa, Milite si ricordò lo strano quaderno che aveva recuperato nello scantinato: era rivestito di robusto cuoio, con un laccio dello stesso materiale che gli girava intorno, a chiuderlo. Al tatto era solido, possedeva l’autoritaria consistenza delle cose antiche. Lo aprì. Le pagine erano tutte scritte a mano, a caratteri grandi e chiari, alcune più fitte, altre meno; alcune strappate in parte o quasi totalmente, altre del tutto mancanti, come fossero state eliminate. La maggior parte portava l’indicazione di una data: 1921. Milite era felice di aver trovato e portato con sé il quaderno, che aveva tutta l’aria di essere un diario: avrebbe potuto distrarla in quel lungo viaggio durante il quale molte cose le si sarebbero affacciate alla mente, minacciando una tranquillità raggiunta con tanta fatica.
Inaspettatamente squillò il telefono, un vecchio Motorola tenuto insieme da un pezzo di scotch ormai nero, regalatole da Selam durante una delle sue ultime visite a Gradisca. A chiamare era un numero di cellulare che non conosceva.
«Parlo con Milite?» chiese una voce di donna, squillante e decisa.
«Sono io» rispose Milite.
«Eleonora Scanzi, sottosegretaria del Ministero degli Interni. Come Ministero, saremo presenti domani alla celebrazione in onore di suo figlio e dei suoi compagni. Mi scusi l’ora tarda, ma è di vitale importanza per noi sapere che lei è in viaggio, e che sta bene. La sua presenza è fondamentale per la buona riuscita della cerimonia di domani…»
«Ma io non sapevo che…»
La cerimonia sarebbe stata il giorno successivo? Milite non si sentiva pronta, a dire il vero non sapeva neanche quando sarebbe arrivata a Roma.
«Ma penseremo a tutto noi!» replicò con voce rassicurante la signora Scanzi. «Il mio team sta già lavorando al suo discorso — è la prassi, non possiamo certo permetterci di commettere errori —, istruzioni circa il suo arrivo sono già state diramate. Le procedure sono avviate. Lei butti giù solo qualche pensierino da inserire nel discorso, eh? Qualcosa su suo figlio, o ancora meglio sulla sua esperienza in Italia! Lei qui si trova bene? Benissimo, andrà tutto benissimo». E riattaccò.
Milite era frastornata da quella voce robotica che non aveva fatto una pausa nemmeno per respirare. Da una parte le dispiaceva che il discorso non sarebbe stato opera sua, ma era anche sollevata per il fatto di essere libera da ogni responsabilità. Avrebbe fatto bella figura davanti all’Italia intera. Anche il prefetto l’aveva rassicurata quella mattina. Quando l’avrebbe raccontato a Selam! Forse l’avrebbe anche vista in televisione. Quanto sarebbe stata invidiosa, lei che viveva in quella bella casa con la sua famiglia. E quando l’avrebbe sentita pronunciare il discorso, come le sarebbero sembrate inutili le sue lezioni d’italiano! Ma presto Milite si scosse, vergognandosi di se stessa: quella manciata di interesse nei suoi confronti l’aveva subito trasformata in una donna così piccola? Doveva restare con i piedi per terra, pensare a qualcosa da dire. Non era brava in queste cose: sapeva che soprattutto lo sforzo avrebbe inibito ogni spontaneità e sincerità, che, credeva, erano quello che le si chiedeva.
***
Scoprì che non era facile scrivere qualcosa che non sembrasse trito e banale. Da una parte c’era tanto da dire, ma dall’altra percepiva le sue esperienze come talmente ordinarie e consueti i suoi pensieri che si chiedeva a chi sarebbero mai potuti interessare. Riprese in mano il diario.
22 ottobre 1921
Perché gli uomini si perdono in questo modo? Perché sono così poco attenti e tanto sconsiderati? Il ricordo ci mantiene vivi, e vigili, la memoria della verità dà significato al futuro. La guerra ci ha spezzato, è un macigno di una concretezza che continua a spezzarci. Altre ce ne sono state, ma questa… La più disumana delle guerre, se mai una guerra può dirsi umana. Ragazzi che hanno combattuto in luoghi che non avevano mai pensato, né sognato, perché nemmeno sapevano della loro esistenza. Sradicati dalle loro famiglie e buttati nelle trincee di paesi lontani, trascinati in una guerra che non abbiamo neanche capito, che mai abbiamo voluto. Dispersi, orfani, mutilati, morte. Non esiste una famiglia che non porti i segni della guerra. I più evidenti sono le assenze di coloro che sono rimasti indietro: l’assenza è tra noi la presenza più assoluta. Questi fantasmi ci annebbiamo la mente, e dimentichiamo.
23 ottobre 1921
Mi si chiede di celebrare l’Italia e i suoi eroi. Ma chi sono gli eroi? Morti scomparsi per sempre, il loro sangue che si mescolava a quello straniero. Quante battaglie portano il nome dell’Isonzo, quanto è avvenuto qui… le acque del nostro fiume sembrano ancora rosse per il sangue versato. Colonne di soldati decimate, spezzate giovani vite che cadevano nella neve e nel terreno fangoso senza nemmeno la pietà di una degna sepoltura. Se è questo, che chiamate eroe, e se considerate tale mio figlio, allora sappiate che io vorrei non lo fosse mai stato. Non ho potuto neanche piangerlo, il suo corpo: solo uno fra i tanti sconosciuti sulle montagne di un confine sconosciuto. Quante cose della storia sono rimaste ignote.
***
Il controllore si affacciò alla porta dello scomparto: «La prossima fermata è Bologna. Deve scendere».
Stava già andandosene quando Milite lo fermò: «Lei conosce Maria Bergamas?»
«Maria Bergamas?» disse l’uomo dubbioso, poi sembrò capire e annuì, ridendo: «Signora, io non ho niente a che fare con la sua cerimonia e il suo viaggio, mi è stato solo chiesto di assicurarmi che scenda a Bologna. Le persone che dovrà incontrare da qui in poi, i loro nomi e le loro facce, non sono mestiere mio: io ho già fatto anche troppo, per lo stipendio che prendo!» e borbottò qualcosa sull’assurdità di quella situazione, le pretese della gente.
Milite rimase perplessa. Maria Bergamas portava il cognome della via dove abitava: pensava che questo significasse che fosse una figura importante e conosciuta. Ma forse si sbagliava.
Poco dopo, scese alla stazione di Bologna Centrale. Data l’ora, non era molto affollata. Aveva bisogno di mangiare ed entrò in un piccolo bar, dove ordinò un toast caldo. Non aveva più smesso di pensare a Maria Bergmas, al dolore che aveva letto nelle sue parole, rispetto alle quali provava una viscerale sensazione di vicinanza, ma allo stesso tempo un completo distacco. C’era qualcosa che non si spiegava. Anche Milite conosceva la violenza della guerra, il dolore della perdita e, come Maria, partecipava a una celebrazione legata al figlio. Ma perché la donna del diario non ne era felice? Milite lo era, orgogliosa di Abraham, commossa davanti al suo coraggio. Non conosceva una parola che esprimesse l’emozione di averlo ritrovato. Era la conclusione di una storia. La consolazione del ricongiungimento che a Maria Bergamas sembrava non essere stata concessa: forse da questo derivava il suo risentimento, pensò Milite.
***
«Milite!» urlò la cameriera. Il toast era pronto.
Quando Riccardo Lancieri, seduto qualche tavolo più avanti, sentì quel nome, gli si accese nella testa un’insegna luminosa. Osservò la donna di colore dirigersi verso il bancone. Rifletteva sulla bellezza di quella coincidenza.
Milite stava preparandosi a lasciare il bar, quando un uomo le si avvicinò.
«Scusi se la disturbo, ma non ho potuto fare a meno di sentire il suo nome. Lei è Milite, è la madre della cerimonia! Io volevo solo esprimerle la mia più sincera solidarietà… Sta andando a Roma, giusto?»
«Sì. Ma questa notte la passerò qui. Conosce l’indirizzo di questo hotel?» e gli mostrò il foglio con la prenotazione.
«Ma certo, è qui dietro, a due passi! Mi permetta di accompagnarla, ci metteremo solo qualche minuto. A proposito, io sono Michele».
Le porse la mano e lei la strinse. Non ne aveva strette molte negli ultimi anni e fu un tuffo al cuore, una sensazione di comunione così piacevole che Milite non prestò attenzione alla stretta di mano in sé, fiacca e distante, come se lui non fosse lì. Poi, senza perdere altro tempo, si incamminarono.
«È in Italia da molto tempo? Come si trova qui?»
«Sono dieci anni ormai. Ho una bella casa, la mia amica viene a trovarmi… non mi manca niente».
«E suo figlio? Se posso chiedere».
«Lui no, non è venuto in Italia».
«È rimasto in Eritrea?»
«Lo andavo a trovare un giorno a settimana, i primi tempi. Il campo militare non era molto lontano da casa, così… Ogni volta era diverso da quella prima, era un po’ meno lui. Lo incontravo appena oltre il perimetro della zona militare. Non so se fosse permesso e non era importante. Certo, erano in molti a saperlo, non lo facevamo di nascosto. Non facevamo niente di male. E lui veniva sempre, così…»
«È lì che l’ha lasciato?» la interruppe l’uomo.
«Io, giuro, io l’ho tanto cercato. L’ho cercato ogni giorno. Ogni giorno andavo più lontano, un nuovo campo militare ogni giorno, ma nessuno aveva notizie, nessuno sapeva… Mai nessuno mi ha detto di Abraham. Poi sono arrivata al campo di Keren. Lontano. Anche lì nessuna notizia, finché un ragazzo, un bambino, venne da me, a parlarmi di una tenda. Chi non ha coraggio, lì non può entrare, diceva. Chi entrava non aveva più pace. Abraham poteva essere lì. Lo cercai, ma invano. Ho visto tanti ragazzi, ma nessuno era Abraham. Forse, tutti lo erano. Perché nessuno era più se stesso, né nel corpo, né nell’anima… Dopo le atrocità, dopo le barbarie, stavano fermi, contemplativi, e come cani colpevoli non ti guardavano mai in faccia. Quei ragazzi assomigliavano alle mie piantine… Da soli non potevano più vivere. E io sapevo che in fondo ero sollevata, di non aver trovato quella tenda. E me ne sono andata, sono scappata e sono venuta qui. Non me lo perdono. Ora Abraham è morto, e chissà se era ancora lui quando è successo…»
Milite guardava il cielo con gli occhi che le brillavano. Non piangeva.
«Io lo nascondevo. Ma l’hanno preso. Ed ero io a dirgli di non disertare, di tenere duro, che sarebbe finita prima o poi. Non volevo un figlio eroe… ma poi, un giorno, non avevo neanche un figlio. E sono scappata».
«Come hanno fatto a trovare suo figlio? E come mai non l’hanno ucciso subito?»
«Oh, sfortuna e fortuna… verità e falsità. Sono poche le persone che sanno tenere i segreti… molti li seminano in giro, sperando che ne nasca qualche maestoso albero».
Lei sorrise tristemente ed entrò nell’hotel.
***
Stesa sul letto della stanza d’albergo, Milite si sentiva bene. Quell’incontro l’aveva riportata in sé, l’aveva messa nella giusta disposizione d’animo per scrivere il discorso. Dalla busta di Tesfai, prese una penna, poi, non avendo carta a disposizione, cercò sul diario una pagina da poter utilizzare. Scrisse senza pensare. La penna parlò di ottimismo e libertà, di prospettive e speranze. Scrisse del futuro, del cambiamento. Le sembrava un atto simbolico: dava un lieto fine a una storia che fino a quel momento era stata così tragica. Piano piano però la sua attenzione si focalizzò su un diverso contenuto:
26 ottobre 1921
Oggi è un giorno importante, dicono tutti. Tutti dicono: bisogna andare avanti, i morti vanno seppelliti, bisogna guardare al futuro e tu ne sei il simbolo: del futuro. Oggi tu celebri il funerale del passato. Ma io so che non c’è futuro per nessuno di noi, che anche chi ebbe la fortuna di tornare restò segnato per sempre. Non c’è modo di sfuggire a questo passato: per tutti noi niente sarà come prima.
Milite aveva voglia di chiudere il diario e buttarlo. Perché quella donna non era in grado di accettare la realtà, di lasciare andare il passato? Lei non aveva certo dimenticato, ma aveva imparato a convivere con quello che era stato: una vita come una stanza con un angolo buio, che ogni giorno fa meno paura. Maria Bergamas invece viveva ancora nel passato, nella guerra. Probabilmente la sognava ancora — anche Milite sognava Abraham — ma quei sogni bellici proseguivano durante le sue giornate, sovrapponendosi alla vita. Della realtà, Maria non vedeva coloro che erano rimasti, ma i buchi neri scavati dalle assenze. Dei compaesani percepiva non la voglia di ricominciare, ma i segni del dolore, le rughe tracciate sui loro volti dalle unghie della guerra. Milite voltò pagina:
27 ottobre 1921
Quel che è stato è stato. Ho scelto un povero ragazzo, che andrà a Roma. Non era Antonio. Mio figlio non sarà mai un monumento alla guerra, un inganno per altri giovani mandati al sacrificio. Antonio non è né milite né ignoto: lui è Antonio Bergamas, mazziniano, maestro elementare a Trieste, ucciso, ammazzato, non so dove, né da chi. Mentre io dovrò essere per sempre la madre orgogliosa. Se questa è Maria Bergamas, allora non sono io. Hanno parlato della gloria, di Vittorio Veneto, e dicono che il milite parla di quell’eroismo. Ma è falso. Non è niente, se non una storia da raccontare ai figli per non ripetere mai più l’orrore, non per rinnovare l’orgoglio di esso. Questo per me dovrebbe essere il futuro: non costruire monumenti alla guerra, ma fare la pace, ognuno di noi, senza aspettare che altri la facciano al posto nostro, nel sangue. Antonio, ti ho trascinato in quest’ingiustizia. Ora il tuo nome sarà per sempre legato al Milite Ignoto.
***
La mattina dopo alle 7, già sul treno per Roma, Milite teneva fra le mani una fotografia che aveva trovato nel diario. Raffigurava una donna vestita di nero, con un velo scuro che dalla testa le scendeva fino alle ginocchia. Al collo, tono su tono, un rosario; in mano un mazzo di fiori bianchi. Da sotto l’ampia gonna spuntavano due piedi che facevano sorridere. Guardava l’obiettivo con gli occhi ridotti a due fessure: come se avesse il sole puntato in viso, o come se si stesse ponendo un interrogativo complicato. Dietro, fuori fuoco, un uomo vestito in abiti eleganti, con un paio di baffi scuri e un cappello a tesa larga, appoggiato a un muro, la fissava. «Chi era il milite ignoto?» si chiese «e cosa aveva a che fare con Maria Bergamas e suo figlio?» Milite rifletteva sulla coincidenza che la univa a queste due figure: una rete che non vedeva né capiva, ma che la intrappolava. Non credeva al destino. Secondo lei, la vita procedeva attraverso una catena di scelte, nessuna delle quali era già scritta. Però, quel diario le era capitato tra le mani in un modo bizzarro, perché — destino a parte — la vita, se ascoltata, fornisce tutte le risposte, la danza da imparare per stare al passo con la realtà.
Il treno rallentava, e Milite, ansiosa di scendere, uscì dallo scomparto. Poco più avanti, si accorse di un giornale piegato a metà, sul quale riconobbe, scritto in caratteri neri e spessi, il suo nome. Lo afferrò e si sedette.
MILITE È NOTA
È Milite Yemane la migrante eritrea che oggi interverrà alla cerimonia in Piazza Venezia.
Niente si sapeva di lei, tranne che fosse la madre di una delle ultime undici vittime del mare: un giovane di nome Abraham, la cui memoria verrà celebrata oggi in Piazza Venezia. Milite e il figlio sono originari di Asmara, Eritrea. Da qui la donna è fuggita nel 2005, trovando rifugio e accoglienza in Italia, dove ora vive. Fuggendo, ha lasciato il figlio al soldo dell’esercito del regime. Abraham, che aveva già tentato di disertare, non era riuscito a nascondersi dal governo dittatoriale e dal suo obbligo di leva, ed era stato costretto ad arruolarsi. Così Milite perde le sue tracce, lo cerca, ma infine decide di partire per l’Italia, lasciandolo di fatto…
Strappò la pagina, gettò il giornale a terra e se ne andò.
***
Cercava di aprirsi un varco nel labirinto di persone che forsennate correvano per la stazione Termini, quando vide un uomo che portava in mano un cartello: “MILITE”. Lui l’aveva riconosciuta e i suoi occhi la seguivano da un po’.
«Piacere, Guido Morini, l’interprete».
I due si strinsero la mano, e dopo un momento di silenzio l’uomo continuò: «Forza, dobbiamo muoverci».
Il signor Morini le faceva strada tra la moltitudine che si accalcava lungo gli spaziosi corridoi della stazione. Fuori, li aspettava una macchina scura. L’autista sapeva già dove dirigersi: partì senza aspettare istruzioni.
«Ha passato un viaggio piacevole?» le chiese l’interprete.
«Faticoso» rispose lei. «Ma — scusi la domanda — lei parla il tigrino? Lo chiedo perché io stessa, dopo tanti anni che non lo parlo stento a ricordarlo…»
«Capisco la sua perplessità, ma sì: parlo tigrino. Fin da piccolo ho vissuto in Eritrea, mia madre ha lavorato all’ambasciata italiana, ad Asmara… sono cresciuto lì». Poi, cambiando argomento: «Dunque, la cerimonia le ruberà non più di due ore: in serata sarà già di ritorno a casa. Sono le 9, quindi abbiamo circa tre ore per prepararci e raggiungere il luogo della cerimonia. E leggere il discorso: mi dirà se c’è qualcosa che vuole cambiare. Inoltre, il Ministero ci terrebbe molto che lei, brevemente, dicesse qualche parola in tigrino. Una sorta di dichiarazione spontanea, che io tradurrò al momento. Così parlerebbe direttamente alla sua gente, e anche agli italiani, tramite me. Avrebbe più risonanza».
Milite non parlava tigrino da quasi dieci anni. Aveva continuato a usare la sua lingua madre i primi tempi in Italia, quando Selam veniva a trovarla, ma poi era stata l’amica ad ammettere di preferire l’italiano — diceva di sentirsi più a suo agio, gliel’aveva suggerito il marito — e così le loro conversazioni erano continuate in quella lingua. Milite stessa aveva capito quella logica, e ad essa si era piegata; così il tigrino era rimasto chiuso in un cassetto della sua mente: un libro di grammatica impolverato. Ma l’espressione sul viso dell’interprete le diceva che non poteva sottrarsi a questa richiesta.
***
Neanche un’ora dopo, in una lussuosa stanza d’hotel, Morini chiese a Milite di leggere il discorso: «Sono commossa di essere qui oggi e ringrazio tutti voi che partecipate a questa commemorazione. Ricordare e celebrare coloro che hanno rischiato e perso la vita per raggiungere la libertà è il nostro maggior dovere, per fare in modo che il loro sacrificio non sia stato vano. Il ricordo non si cancella, ma si rafforza nella memoria di tutti noi, per non ripetere mai più gli errori del passato. Il travaglio dei popoli che tentano di fuggire dai regimi totalitari è il travaglio di noi tutti. Il significato di questa lastra di marmo sia per noi il monito a costruire una società di pace e di lavoro. Il loro esempio sia per noi una guida per costruire un modo migliore per i nostri figli».
Immediatamente, senza neanche darle il tempo di esprimere qualche suo dubbio — Abraham non veniva mai nominato, neanche una volta, che razza di funerale era quello? —, Morini attaccò: «Solo qualcosa su cui riflettere, Milite. Il Ministero non si aspettava certo che lei avesse questa padronanza della lingua italiana… E io non vorrei che il messaggio non arrivasse come dovrebbe, se pronunciato nel modo sbagliato. Intendo dire che le persone potrebbero stupirsi, chiedersi addirittura se lei sia nata in Italia, chiedersi come mai — ce lo siamo chiesti tutti — lei parla così bene la nostra lingua… La risposta è che lei vive in Italia da molti anni. Ma allora suo figlio? Cosa ci faceva lui ancora in Eritrea? Io non vorrei che domande come questa possano sorgere in chi la ascolta, e sviare l’attenzione dal suo messaggio…»
«Ma la gente conosce la mia storia, ormai… l’ho letta anch’io, stamattina, su un giornale…»
«È proprio questo di cui parlo. Non aspettano altro che attaccarci. È contenta di quell’articolo? Di quello che dice di lei? Sia sincera». Milite abbassò lo sguardo e l’interprete continuò: «Vedo che mi capisce. Il messaggio di unione, fratellanza e solidarietà di cui lei si fa portavoce deve essere limpido e arrivare con forza a quelle persone. Facciamo in modo che non venga offuscato da futili questioni».
***
Due ore dopo, la stessa macchina che li aveva recuperati in stazione, li lasciò in una grande piazza rettangolare. Guardando avanti, Milite trattenne più volte il fiato: un enorme edificio di un bianco abbagliante si ergeva alto sopra di lei, come un altare sacrificale.
«Abraham è lì?»
«No» rispose Morini «quel luogo custodisce qualcun altro. Ma è lì che stiamo andando».
Sulla scalinata di quell’immensa struttura era stato steso un grande tappeto rosso che scendeva fino alla strada, dove un gruppo di poliziotti provvedeva a bloccare il traffico. Poi solo un podio dall’aspetto un po’ triviale, con microfono e leggio, e alcune sedie.
«Ma dov’è mio figlio? Posso vederlo?»
«La cerimonia inizierà nel giro di un’ora al massimo. Autorità, ospiti, spettatori, stanno già arrivando. Quella è la lastra commemorativa».
Era sorretta da un robusto piedistallo: Qui riposano nostri fratelli, migranti eritrei ignoti, che persero la vita sperando in una vita nuova, vittime innocenti di atroci crudeltà. L’Italia, solidale, gli accoglie.
«Dov’è mio figlio? Per lui mi trovo qui, per lui ho viaggiato…»
«Milite… suo figlio non è qui. Si trova a Roma, ma il suo corpo è già al cimitero».
«L’avete sepolto? Senza sua madre?»
«Deve capire che l’idea di questa cerimonia — anzi, l’idea di farla intervenire — è stata successiva, postuma. Molto postuma».
«Dove si trova? Mi porti là».
«Non c’è tempo, ora».
«Devo trovarlo, non può essere stato tutto inutile, di nuovo».
«Sarebbe comunque inutile… Purtroppo, al momento della sepoltura, il Ministero non sapeva del potenziale di queste persone, del ruolo che avrebbero ricoperto. Una volta portati qui, sono stati sepolti, ma nessuno aveva interessa a rivelarne l’identità, loro dovevano essere simboli. Lei sa cos’è un simbolo?» Milite non disse niente e Morini continuò: «Un simbolo è una cosa che significa più di se stessa. È una porta che introduce a un’altra dimensione, non visibile, ma non per questo meno reale. Anzi, molto più potente. È l’immaginario, il significato, la verità…»
«Cosa può saperne lei di verità… Che ne è stato di Abraham?» chiese Milite, con la voce rotta da un pianto di cui però non portava i segni sul volto.
«Abraham è stato sepolto, si trova in un cimitero qui vicino, insieme con i dieci compagni che verosimilmente hanno tentato la traversata con lui. Al momento della sepoltura, le dicevo, la loro identità non era rilevante, né si credeva di poter risalire in alcun modo ai loro nomi, ma…»
«Come l’avete identificato?»
«Fortuna. Abraham aveva con sé, avvolta in una busta di plastica, chiusa in una tasca dell’impermeabile che portava, una vecchia fototessera in bianco e nero, che ritraeva lei, sua madre. E i giornalisti, sa come sono. La foto è passata sui quotidiani, un paio di volte in televisione. Aggiunga il fatto che lei porta un nome importante, Milite, che non si dimentica. Qualcuno l’ha riconosciuta. Per questo l’abbiamo contattata all’ultimo momento, cosa per cui riceverà senz’altro delle scuse ufficiali. Le ha già ricevute?»
«E Abraham?»
«Come le dicevo, le loro identità non erano rilevanti. Sono stati seppelliti subito. Le tombe non portano alcuna indicazione. Erano ignoti. Ma potrà dirgli addio, ora sa almeno dove si trova».
Milite lo guardò negli occhi e gli disse: «Lei conosce Maria Bergamas? Mi può dire chi è?»
Morini si ritrasse, ma per lo stupore, e rispose: «Certo… Maria Bergamas è una grande donna, che rappresenta per l’Italia tutte le madri addolorate. Fu lei a scegliere la salma di quello che è il grande simbolo dei martiri eroi della Grande Guerra: il milite ignoto. La stessa Bergamas è un simbolo, di forza e coraggio davanti all’estremo sacrificio, per un bene più grande… In ogni caso, spero si renda conto che in nessun modo questo disguido può inficiare la buona riuscita della cerimonia. Molte persone sono qui per ascoltare il suo messaggio di speranza, suo e di Abraham. Non li deluda. E si ricordi: se potranno attaccarla, non esiteranno a farlo».
***
I discorso andò bene. Sul podio Milite aveva trovato un foglio con le parole che doveva pronunciare. Aveva seguìto il consiglio di Morini e, recitando, aveva addirittura finto di non conoscere l’italiano, parlando lentamente, deformando le parole e sbagliando le desinenze: non le importava. Morini si aspettava da lei che tenesse un’espressione triste, sconsolata, che facesse pause dolorose, sospirasse, piangesse, e lei lo aveva fatto. Al posto suo aveva parlato la paura, il timore del giudizio, del biasimo, della sconfitta. Alla fine, aveva visto applausi, mani levate, sorrisi e teste che annuivano, ma i suoni le erano giunti molto distanti. Per tutta quella gente, la giornata sarebbe proseguita, e si sarebbe conclusa come ogni altra. Avrebbero dimenticato. Per lei invece tutto cambiava. Si sentiva ingannata, coinvolta in qualcosa di misero, e suo figlio con lei.
Furono questi pensieri a darle la forza di dire, nell’italiano che ormai parlava da anni: «Mio figlio era un bravo ragazzo. Era generoso. Aveva un cane, si prendeva cura di lui… come di tutti. I vostri figli giocano alla guerra, quante volte come piccoli soldatini hanno finto di combattere con le pistole giocattolo che voi gli avevate comprato? Ma diventati grandi smettono, e poi se ne dimenticano. Anche in Eritrea i bambini fanno questi giochi, ma i loro padri partono per la guerra, una guerra che non è un gioco, ma una realtà che spezza noi e le nostre vite. Abraham ha giocato alla guerra fino alla fine e gioca anche ora, grazie a voi, a questo insignificante gioco che…»
Una mano, da sinistra la avvolse. Morini disse: «Come vedete, la signora è scossa, è comprensibile…» e allontanando il microfono, ma non abbastanza da non farsi sentire dalla piazza, aggiunse: «Andiamo, prendiamo un bicchiere d’acqua…»
Tutti applaudirono.
E Milite si lasciò trascinare giù dalle scale, sul tappeto rosso, davanti alle transenne dove uomini e donne con i loro cellulari la filmavano, la chiamavano, qualcuno la insultò, altri le sorrisero; passò di fianco alla lastra di marmo con il nome del figlio, lungo il marciapiede, avanti, fino all’auto scura.
«È così che finisce?» pensò.
***
«Non erano questi gli accordi» sbottò Morini «e ora dobbiamo solo sperare che nessuno se ne sia accorto… Ah!»
«Voglio andare da mio figlio. Tu non sai quanto l’ho cercato».
Morini si portò la mano alla bocca, accarezzò un’idea, valutò una possibilità. Uscì dalla macchina — il telefono in mano — e rientrando disse: «Andiamo».
***
Un parcheggio che costeggiava un grande viale. Intorno, file di case di diverse forme e dimensioni, ma tutte uguali: grigie di cemento, con piccole finestre e balconi che invece di uscire alla luce erano scavati all’interno come grotte. Alle finestre, abiti, scarpe, lenzuola, cuscini a prendere aria. Nessun fiore. Sul marciapiede una miriade di macchine parcheggiate, che si litigavano il posto con i pochi alberi segregati nel loro fazzoletto di terra, ostaggi. Qua e là, piccoli contenitori della spazzatura dai quali erano straripati mucchi di rifiuti, riversatisi a terra come acqua da una cascata.
Il cimitero era circondato da mura scrostate. Dentro, stradine di cemento si snodavano simmetriche da ogni parte. Ogni tomba, grigio nel grigio, era indicata da una croce — di cemento grigio — che si ripeteva ossessivamente.
In un angolo, una fila di undici tombe, addossate al muro, sembrava attenderli. Erano interrate e ricoperte da uno strato di calce. Sulla lapide, non nomi ma numeri: 1, 2, 3… Avvicinandosi, Milite si sentì lontana dal mondo, come se la realtà fosse diventata nera, e così il cielo: tutto tranne quelle tombe bianche e quello che contenevano; e lei, sola davanti a loro. Per questo non si accorse di cosa accadeva alle sue spalle.
Sfilava davanti a quei macabri spettatori, sentendosi osservata. Uno di loro era Abraham. Lo sapeva non perché gliel’avevano detto, ma perché lo sapeva e basta. Oltrepassava la quinta. Non era Abraham. Andava avanti, decisa. Si chinava e sapeva che doveva ancora proseguire. Cosa sarebbe successo se fosse arrivata alla fine senza aver sentito niente? Proseguiva. Poi, una foglia, l’ultima foglia arancione, rossastra, morta, cadde dal platano su cui si trovava, e si posò su una tomba: 10.
«Abraham. Ti avevo tanto cercato. Alla fine sono stata io, a trovarti. Perdonami».
Le parole le uscirono nella sua lingua madre, forse per un ritrovato collegamento con qualcosa a lungo sepolto, o per un inconscio legame da tempo danneggiato, che quel ricongiungimento aveva sanato.
***
Il treno che doveva riportare Milite a casa partì puntuale, alle 17.30, da Roma Termini. L’incontro con Abraham era stato breve: giusto il tempo di ritrovarlo, e poi Morini le aveva posato la mano sulla spalla e chiesto, in tigrino — un’incomprensibile gentilezza — di lasciarsi accompagnare in stazione. Allontanandosi, Milite aveva riconosciuto l’uomo incontrato alla stazione di Bologna, ma era troppo scossa per riflettere sulla stranezza di quella coincidenza. Morini era stato comprensivo finché glielo avevano richiesto la situazione o il suo personaggio, ma nel viaggio verso Termini l’aveva ignorata, riservando tutte le sue attenzioni allo schermo dello smartphone.
«Chi è il milite ignoto?» gli aveva chiesto lei d’improvviso.
«Nessuno lo sa, ed è per questo che è potente».
«Perché a voi interessa solo il corpo, l’involucro. Non la verità».
Ora Milite viaggiava, di nuovo, verso casa. Sperava che Selam non l’avesse vista in televisione. Era stata trattata come se non avesse una storia, come se tutta la sua vita fosse iniziata dieci anni fa, al suo arrivo in Italia. Invece lì era finita. Tutto ciò che contava era stato prima: amore, cultura, traguardi. Il giardino e i panni stesi fuori. Il cane che lei non voleva e i litigi con suo figlio.
A Bologna tornò nel piccolo bar dove si era fermata la sera prima, una sfida alla sorte. Mentre se ne andava, si riconobbe nella piccola televisione ancorata al muro. Parlavano di lei al telegiornale. Vide se stessa inginocchiarsi davanti alla tomba di Abraham, portarsi le mani al volto, Morini avvicinarsi e stringerle la spalla, accompagnarla fuori dalla scena, sorreggerla — ma non ricordava di aver barcollato. Guido Morini che raccontava di lei. Milite sentì il suo nome precedere parole che non aveva mai pronunciato. Era un labirintico gioco di maschere: per bocca di Morini, Milite ascolto sé stessa ringraziare l’Italia — campione di solidarietà —, scusarsi per la troppa emozione che non le aveva permesso di parlare direttamente, ringraziare tutti per la professionalità e il sostegno umano. L’immagine cambiava: lei, in macchina, sul sedile posteriore, i gomiti sulle ginocchia e le mani sul viso.
Le persone al bar iniziavano a riconoscerla: «Vi sbagliate. Non sono io» rispondeva lei allontanandosi.
***
Più tardi sul treno diretto a Udine, Milite riprese tra le mani il diario di Maria Bergamas. Alla sua partenza si era ripromessa di ritrovare Abraham, ma nel corso del viaggio, un’altra responsabilità si era imposta alla sua mente: riscattare Maria Bergamas, concederle una tardiva rivincita, evitando di soccombere a quei meccanismi che l’avevano sconfitta, tanti anni prima. Aveva fallito. L’avevano vestita, acconciata, agghindata. Le avevano insegnato parole difficili, e le avevano fatto credere che fosse lei a volerlo. Che avesse il controllo. E ora le persone la riconoscevano, ma quella che vedevano non era lei.
Aprì il diario all’ultima pagina. Non sapeva come finiva la storia:
5 novembre 1921
La cerimonia è passata. Io non sono più Maria. Sono solo una madre, anche se per un crudele paradosso, non lo sono più. Orfano è un figlio che non ha più madre e padre, ma perché non c’è una parola per me, che ho perso mio figlio? Che cosa sono io? Non sono chi ero prima, e non sono ciò che sono adesso, ne indosso solo la maschera. Ma la verità esiste e non può essere disfatta, solo venir celata.
Milite prese la penna e scrisse, lì sotto:
La verità è più forte di ogni bugia, perché è vera.
Nel portafoglio trovò una vecchia fototessera, gemella di quella che Abraham aveva portato con sé. La ripose insieme a quella di Maria tra l’ultima pagina e il dorso rigido della copertina. Quando scese, a Udine, lasciò il diario sul sedile del treno.
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