La scelta di Sam – Francesca Fughelli, Luana Pagano
[1]
Si svegliò parecchio stordito. Gli sembrò di non aver riposato abbastanza. La prima cosa che vide fu il braccio magro e malandato attaccato alla flebo, ma distolse lo sguardo non appena rivide il tatuaggio. Pensò che l’ospedale non lo stava rimettendo in sesto come aveva immaginato. Si rigirò nel letto più volte, poi arrivò il pranzo. Erano secoli che non mangiava cibi solidi. Quel pasto, per quanto povero, era saporito e sostanzioso, al contrario delle brodaglie che gli avevano propinato ogni giorno dei quattro anni precedenti. Anni trascorsi in campo di concentramento. Com’erano quelle zuppe? Buone? Ripugnanti? Forse semplicemente insignificanti. Era l’assenza di significato la cosa che lo tormentava di più. Non la tortura psicologica e fisica, non le tremende fatiche e gli insulti ricevuti, ma l’assenza di un motivo che giustificasse quell’inferno. Una spiegazione, ecco quello che pretendeva. Si rendeva conto, però, che le spiegazioni non servivano a nulla. Si sentiva un mucchio d’ossa senza vita. Si sentiva morto. Non aveva voglia di pensare a quel che sarebbe successo dopo. Aveva solo voglia di dormire.
[2]
Una periferia buia e tetra, quella di Salisburgo. Rassegnata, come lo era lui. Ora che stava meglio si concedeva qualche sigaretta. Quei piccoli cilindri di carta e foglie triturate lo riportavano a una quotidianità semplice, fatta di cose banali e ripetitive. Ne accese una e aspirò a fondo, preso da una foga che non aveva mai avuto quando fumava. Poco dopo ne accese un’altra e si impose di fumarla con calma, godendosi ogni tiro. Non ci riuscì. Gettò la sigaretta innervosito e accelerò il passo. Guardò l’orologio. Sarebbe arrivato tardi all’appuntamento.
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Quando entrò nel locale, trovò F. che stava bevendo un caffè. Non si erano più incontrati dal giorno della liberazione di Mauthausen, ma non lo trovò cambiato. Era rimasto un omino minuto, con pochi capelli tutti portati in avanti a nascondere lo stempio prominente. Era sempre stato fissato per i capelli. Aveva paura di perderli. Li pettinava di continuo. Afferrava il pettine come fosse un oggetto chirurgico e lo muoveva con cautela clinica. Quando erano stati deportati, le SS in meno di due minuti avevano sciupato anni di appassionata cura e dedizione. Quel giorno, insieme ai capelli, F. aveva perduto un po’ di se stesso.
Mentre lo fissava, F. alzò lo sguardo di scatto. Gli si illuminarono gli occhi.
“Sam!”
Sam si avvicinò con passo lento e affondò tra le braccia dell’amico. F. si mostrò felice di rivederlo. Disse che lo trovava diverso, più in carne, anche se con il volto scavato e gli occhi spropositati rispetto alla grandezza del viso. I capelli scuri erano ancora folti e vigorosi, proprio come li ricordava, non senza invidia.
Finiti i preamboli, F. iniziò a parlare della possibilità di lasciarsi il passato alle spalle e dimenticare tutto ciò che era successo, di un’occasione imperdibile per ricominciare tutto da capo, di una nuova vita. Fin dal principio Sam fu infastidito dall’enfasi che l’amico ci metteva. Futuro? Quale futuro? Possibile che avesse già dimenticato?
F. era un fiume in piena. Gli parlò dei fondi che l’U.N.R.R.A. aveva stanziato a favore dei paesi danneggiati durante la Seconda Guerra Mondiale. Parte delle sovvenzioni era stata impiegata per l’allestimento di campi di accoglienza per profughi ebrei. Uno di questi era sorto nel Sud Italia, in Puglia, a Nardò. Se ci fossero andati, avrebbero potuto cercare lavoro e mettere da parte i soldi in vista del loro vero viaggio e del loro vero arrivo, l’arrivo in Palestina.
Sam lo guardò scettico.
“Mi hai fatto venire fin qui per dirmi solo questo?”
F. aveva previsto questa reazione. Non mollò la presa e continuò a parlare del progetto. Sam si sentì sempre più stanco. Per interrompere quel fiume di parole si alzò in piedi di scatto e prese la giacca, per andare via. F. giocò l’ultima carta.
“Non darmi subito la tua risposta. Promettimi solo che ci penserai.”
Gli prese la mano e gliela strinse, passandogli un foglietto con scritto un indirizzo.
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Sam era di nuovo all’aria aperta, la sera era glaciale. I lampioni, alti, producevano una luce tenue che illuminava il marciapiede. Tutto era silenzioso e desolato. Si accese una sigaretta. Fece un primo tiro molto ampio, poi un secondo più rapido e meno intenso. Passeggiava e ripensava alla proposta di F. Non voleva lasciare Salisburgo per cercare lavoro e speranza altrove. D’altra parte nulla lo tratteneva. Né la famiglia, né una casa. Che fare? Spense la sigaretta.
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Il sole era alto, il mare bellissimo. F. sorrideva e lo guardava orgoglioso. Il paese era molto piccolo ed era occupato in gran parte dal campo di accoglienza. Si sentiva spaesato, ma allo stesso tempo elettrizzato dalla novità. Ridevano di ogni cosa. Furono avvicinati da un uomo in divisa che avrebbe dovuto condurli alla loro abitazione. Era serio e scontroso. Smisero di ridere. Solo allora si accorse del filo spinato che circondava il campo. Poi vide la fila per le docce e le divise a strisce bianche e nere. Si guardò il petto. La stella di David era attaccata al solito posto. F. intanto si era passato le mani in testa e si era accorto con orrore di essere stato di nuovo rasato. La guardia li strattonò. Indossava una giacca di fustagno grigio. La manica terminava in un bordino nero, con la scritta Deutschland ricamata a caratteri gotici.
Si svegliò, sudava freddo e aveva il respiro affannoso. Mise le mani in tasca per cercare le sigarette. Estrasse anche il foglio di carta che F. gli aveva dato. Lesse l’indirizzo. Il sole era già sorto da un pezzo. Quasi senza rendersene conto scese in strada e si avviò.
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L’ufficio dell’U.N.R.R.A. si trovava all’interno di una stanzetta spoglia, al primo piano di un edificio anonimo nel centro della città. Un inglese era seduto a una scrivania, che avrebbe potuto fluttuare nel nulla se non ci fossero state pile di scartoffie a tenerla ancorata al pavimento. Di fronte a lui, in fila ordinata, una decina di persone. Quando fu il suo turno, l’impiegato lo fece accomodare e gli fece alcune domande, senza staccare gli occhi dal modulo che teneva davanti a sé. Poi girò il foglio e glielo porse per la firma. Si stupì che la sua vita potesse essere riassunta in poche righe.
Ufficio Assistenza Dps – United Nations Relief and Rehabilitation Administration, Salisburgo, giugno 1945. Displaced Persons: Goetz, Sam
Nato in Polonia, a Tarnow, nel 1928. Ebreo. Deportato insieme ai genitori e ai parenti nei campi di concentramento di Cracovia Plaszow, Gross Rosen, Falkenberg. Dopo la chiusura del campo di Gross Rosen, è trasferito a Mauthausen e Ebensee. E’ stato liberato in data 6 maggio 1945. Da allora è ricoverato presso la struttura ospedaliera di Salisburgo. Dichiara di essere rimasto solo nel giugno del 1942, data della morte dell’ultimo parente.
L’impiegato gli lasciò il foglio e indicò la stanza accanto. Sam rifece la fila, rispose ad altre domande, che furono trascritte in un altro modulo, da un altro impiegato che aveva lo stesso identico accento del precedente. Confermò di voler partire per la Palestina Britannica, più per vedere in quante righe poteva essere riassunto il suo futuro che per altro.
Ufficio Assistenza DPs – United Nations Relief and Rehabilitation Administration, Salisburgo, giugno 1945. RIF. DPs Goetz, Sam
L’assistito fa richiesta di adesione al programma di immigrazione verso la Palestina Britannica. Viene inserito in lista di disponibilità per il campo di transito U.N.R.R.A. IT 34 H.Q. A.C. C.M.F. – Santa Maria al Bagno (Le) dove potrà espletare le pratiche amministrative relative all’espatrio.
Mentre attendeva l’espletamento delle trafile burocratiche, un’immagine sulla scrivania colpì la sua attenzione. Era una foto che ritraeva in primo piano un ragazzo accigliato, con lo sguardo fisso all’orizzonte. Con la sinistra teneva il manubrio di una bicicletta da donna nera, la destra era appoggiata al sellino. La camicia bianca aveva vissuto stagioni migliori, come i pantaloni del resto. Anche il ragazzo doveva aver vissuto giorni migliori. In secondo piano, una piazza deserta stretta tra una fila di povere case e un mare increspato dal vento. Vento che doveva soffiare forte, vista l’inclinazione della piccola palma solitaria che spuntava dal bordo destro della fotografia. Sullo sfondo, dietro il ragazzo, dietro alla sua bicicletta, dietro alla palma, dietro alle case, si levavano due colline brulle.
Sam prese la foto fra le mani, e la rigirò. “Santa Maria al Bagno. Autunno 1944”
L’insieme gli parlava di stenti, solitudine, rabbia. Eppure qualcosa nella foto non tornava. La guardò più volte, poi la prese con sé infilandosela nella tasca della giacca. O forse fu l’impiegato dell’U.N.R.R.A. a lasciargliela portare via. Da quanto tempo stava sulla sua scrivania? Non se lo ricordava più, e comunque nessuno l’aveva mai reclamata. Quindi, la prendesse pure. Sam capì cosa c’era di strano nella foto molti passi dopo, quando ormai era arrivato nelle vicinanze dell’ospedale. Era l’aspetto del ragazzo ad averlo colpito. Così sano nonostante la magrezza, così fiero nonostante la povertà, così uomo nonostante l’età.
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Passò l’ennesima notte di dormiveglia. Nei momenti insonni girava e rigirava la foto tra le dita, cercando di mettere a fuoco l’immagine. Si diede l’alba come termine ultimo per prendere una decisione, poi sprofondò in un sonno agitato. Si vide ancora una volta rinchiuso all’interno di un vagone di un treno merci. Questa volta, però, a differenza delle altre, il viaggio fu breve. Quando aprirono il portellone e lo fecero scendere si trovò in una piazza deserta e assolata, delimitata a destra da una fila di case scalcinate e a sinistra dal mare increspato. Di fronte a lui, appoggiato a una piccola palma, c’era un ragazzo in bicicletta.
Si svegliò di soprassalto, come sempre. In un bagno di sudore, come sempre.
Alle 6 di mattina prese la sua prima decisione di uomo libero.
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Diario di Henry Gerber, funzionario dell’U.N.R.R.A. al campo di Santa Maria al Bagno. 15 luglio 1945.
Alle 4,30 è arrivato dall’Austria un altro camion di profughi ebrei. Sono scesi in 27, solo uomini, tutti adulti. Nessuna famiglia al completo, niente bambini. Il comandante Herman ha dato ordine di trasferirli all’ospedale delle Cenate, dove sono stati denudati, rasati a zero, cosparsi di DDT e rivestiti a nuovo. A me è toccato trovare loro una sistemazione. Con questi 27 il campo ha superato le mille unità e l’iter burocratico di esproprio delle residenze estive procede a rilento. Le ville requisite finora sono state già tutte occupate: le Cenate dagli ufficiali inglesi, l’Ave Mare dalle Crocerossine, la Tafuri dal quartier generale della RAF. Impossibile chiedere agli abitanti di ospitare i profughi anche solo per un breve periodo. La popolazione è allo stremo. A Santa Croce c’è chi è disposto a lavorare una giornata intera in cambio di un pezzo di pane. Per ospitare i nuovi arrivati bisognerà procedere a nuove requisizioni.
Diario di Henry Gerber, funzionario dell’U.N.R.R.A. al campo di Santa Maria al Bagno. 16 luglio 1945.
I soldati inglesi hanno proceduto allo sgombero di Villa Moretti. Hanno sfondato la porta d’ingresso e trascinato in strada i proprietari, che si erano barricati all’interno. Qualcosa nella procedura non ha funzionato. Forse lo sgombero è iniziato tardi o forse la squadra addetta al trasporto dei profughi era in anticipo. In ogni caso, i primi della fila si sono trovati faccia a faccia con Moretti, e la situazione è esplosa. Moretti e la moglie hanno sputato bile contro quei poveri cristi, che dal canto loro se ne stavano in gruppo, addossati al muretto, tristi, pensierosi e dimessi. Non è la prima volta che accade. Avanti di questo passo e prima o poi succederà qualcosa di grosso. I ragazzi, li ho divisi a coppie e a ogni coppia ho assegnato una camera. Bagni e cucina li utilizzeranno in comune.
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Sam aveva aperto il pacco che un soldato gli aveva messo tra le mani prima di farlo entrare in casa e vi aveva trovato un bendidio di alimenti confezionati. Li stava riponendo in ordine sullo scaffale montato sopra il letto, quando F. ruppe il silenzio.
“È l’inizio di una nuova vita, Sam, fidati. Guardati intorno! Letti e coperte, carne in scatola, formaggio, e… cioccolata! Da quanto tempo non assaggi la cioccolata, eh Sam?” disse scartando una tavoletta.
“Da tanto.”
F. addentò la tavoletta e porse a Sam un quadretto che aveva tenuto da parte. “Tieni, assaggia!” bofonchiò.
“No, grazie. Ora non mi va.”
F. finì la cioccolata in silenzio, poi riprese a parlare. “E il latte condensato? Tutta roba americana, roba di qualità. Faranno una distribuzione giornaliera di cibi in scatola e potremo barattare quello che non mangiamo con le arance e i limoni dei locali. Se non è il paradiso ! Che dici, eh?”
“Sì, sì” rispose Sam senza smettere di riordinare.
“E guarda qui…” F. si era avvicinato al muro e si era messo a giocare con l’interruttore della corrente elettrica, accendendo e spegnendo a ripetizione la lampadina della loro camera.
“Sì, sì, c’è l’elettricità. Me ne ero già accorto.”
Il fatto che Sam fosse così scostante lo indispettiva, ma non lo scoraggiò: “E poi, Sam, qui è pieno di giovani. Tutti in partenza per la Palestina, Sam. Come noi! Stasera andiamo in piazza, come ci ha detto… Come si chiama pure? Elia?”
“Sì, Elia…”
“Esatto. Stasera cerchiamo Elia e ci facciamo dire dov’è l’ufficio che rilascia i visti. Domani ci andiamo. Che dici?”
Sam si voltò verso di lui, guardandolo con rassegnazione. “Calma, F. Gli inglesi concedono solo diecimila visti l’anno per l’espatrio e i nostri in lista di attesa sono già almeno il doppio. Potremmo restare qui per mesi, F. Forse anche per uno, due anni.”
“Il visto non è un problema, Sam. C’è un’alternativa. L’Aliyah bet si è accordato in segreto col governo italiano.”
“F., ne abbiamo già discusso. Non voglio emigrare da clandestino! Non ne posso più di fuggire, di nascondermi, di essere inseguito e cacciato come un topo!”
“Parla piano, Sam, e ascoltami. Tra poche settimane dalla Palestina partirà una nave. Le forze di sicurezza italiane lasceranno che attracchi a Bari. Quelli della Brigata Ebraica ci faranno uscire di nascosto dal campo e ci daranno un passaggio fino a Bari. Potremo imbarcarsi gratis. A nessuno verrà chiesto il visto. Nessuno farà controlli. Nessuno potrà fermarci.”
“Quando arriveremo a Bari la nave sarà già piena, F. Siamo migliaia…”
“Di navi ne arriveranno molte. E’ già stato tutto pianificato, Sam. Gli italiani non vedono l’ora di liberarsi di noi! Hanno concesso agli alleati di allestire i campi in Puglia proprio perché è il luogo più adatto per mandarci in Palestina. O pensi che l’abbiano fatto per beneficenza?”
“Denaro ne hai?” tagliò corto Sam per chiudere la discussione.
“Non ne abbiamo bisogno. Il biglietto non si paga, te l’ho già detto!”
“E quando saremo di là?”
“Ci penseremo là.”
Sam non ebbe più la forza di controbattere.
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La mattina seguente Sam andò in spiaggia a godersi la brezza marina. La giornata era calda, di un caldo secco che brucia la pelle senza farti sudare. Il vento che arrivava dal mare era fresco e gli apriva i polmoni. Si sedette sulla rena a guardare l’enorme distesa d’acqua che si estendeva a perdita d’occhio. Più osservava il mare, più gli sembrava di conoscerlo da sempre, come se dentro di lui fosse già registrata l’esperienza che stava vivendo in quel preciso istante. L’orizzonte si dispiegava senza limiti, trasmettendogli un senso di libertà che non aveva mai provato prima.
Qualche metro più in là, una ragazza si stava godendo il primo sole. Era bionda, di un biondo ossigenato, che tendeva al bianco. Il volto era pallido e cosparso di lentiggini. Notò gli occhi verdi, come il costume intero che indossava. Un corpo piccolo e magro, fragile. Fu colpito dalle sue labbra carnose, del colore della ciliegia.
La ragazzina incrociò il suo sguardo e lui, imbarazzato, lo distolse. Desiderò conoscerla. Incrociarono di nuovo lo sguardo. Sam si sentì arrossire e abbassò lo sguardo per l’ennesima volta. Doveva parlarle? Oppure lasciar perdere? Quando si riprese, guardò nella sua direzione e si accorse che non c’era più. Si alzò di scatto e ispezionò la spiaggia. La vide! Stava tornando verso il centro abitato. La rincorse e la raggiunse. Le posò la mano destra sulla spalla.
“Warte mal! Wie heißt du? ”
La ragazzina si girò e lo guardò stranita. Sam pensò che forse non aveva capito. Mentre cercava di riformulare la domanda in italiano, lei gli rispose con aria divertita.
“Gertrude!”
Tornò a casa trasognato. F. stava attendendo il suo ritorno seduto sul letto, a braccia conserte.
“Dov’eri finito? Elia ci sta aspettando in piazza!”
“Ero in spiaggia. Scusa se ho perso tempo, ma… Ho conosciuto una ragazza, è bellissima!”
“Ah – ah! Non ti starai mica innamorando?”
Sam non rispose.
Per F. fu un silenzio molto eloquente; quella ragazzina poteva rappresentare un ostacolo ai suoi piani. Per il momento preferì sorvolare. Era meglio uscire di casa senza troppe angosce.
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La piazza era gremita. Vedere così tanta gente circoscritta in pochi metri quadrati diede a Sam la sensazione di appartenere ad un’unica famiglia, ma una famiglia numerosa, sovraffollata. L’aria che si respirava era tesa, come quando molti fratelli si siedono attorno allo stesso tavolo per decidere come spartirsi l’eredità. La popolazione locale sembrava imporre la supremazia sul territorio col passo duro e rumoroso. I profughi camminavano invece con passo leggero, quasi per evitare di fare rumore. Tra di loro bisbigliavano, come per non farsi sentire. I gruppi erano separati. Sam percepiva la tensione, allo stesso modo di F. che, però, sapeva mascherare meglio il proprio stato d’animo.
“Ecco Elia!” gli fece F., indicando una panchina dove un ragazzo era seduto con altri compagni.
Si avvicinarono e iniziarono a parlare del viaggio in Palestina e degli espedienti da attuare per evitare intoppi. La discussione era entrata nel vivo, quando Sam intravide Gertrude. Dato che il suo contributo alla conversazione era nullo, si staccò dal gruppo e si incamminò verso la ragazza senza che nessuno se ne accorgesse. Le treccine bionde e il vestitino azzurro col colletto bianco le conferivano un’aria da collegiale. Camminarono l’uno verso l’altra, come se una forza trasparente li spingesse alle spalle facendoli convergere nello stesso punto.
Sam non sapeva cosa dire e Gertrude si sentì in dovere di iniziare la conversazione. I silenzi erano la cosa che odiava di più. Riteneva che la mancanza di comunicazione derivasse non tanto dalla povertà lessicale, ma soprattutto dalla povertà di spirito. Sam si sentì sottoposto a un interrogatorio. “Quanti anni hai? Perché sei qui? Quando sei arrivato?” Troppe domande, tutte insieme. Troppe risposte da dare, tutte insieme. Pian piano il dialogo si normalizzò. Sam riuscì a balbettare qualcosa di sensato e Gertrude si rilassò. Almeno fino all’apparizione di F.
“Dov’eri finito? Ad un certo punto ti ho perso di vista! Si è fatto tardi. Vieni, dai. Andiamo a casa.”
Sam fu spiazzato e non gli venne da controbattere, anche se gli sarebbe piaciuto trascorrere un po’ più di tempo con Gertrude. Fu lei a toglierlo d’impaccio. Risoluta, gli diede un bacio sulla guancia e gli augurò buonanotte.
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Nelle settimane successive il campo si espanse. Il flusso inarrestabile dei profughi e i crescenti bisogni della comunità agirono come un lievito e lo trasformarono in un vero e proprio paese. Il Maggiore James Bond, l’ufficiale responsabile del campo, potenziò le strutture ricettive. Le mense passarono da una a tre; vennero aperti un Municipio e un ufficio postale; per i bambini furono allestiti una scuola e due campi di calcio; una sinagoga e un centro di preghiera furono consacrate al culto. Tra espropri e allestimenti di nuove strutture, Henry Gerber ebbe il suo daffare.
Gli abitanti di Santa Maria si aprirono ai nuovi arrivati. Se è vero che non passava giorno in cui i ricchi possidenti espropriati delle loro residenze non inveissero in piazza contro gli ebrei, è altrettanto vero che meccanici, falegnami, elettricisti, calzolai e muratori locali si resero disponibili a lavorare fianco a fianco dei profughi per contribuire allo sviluppo del campo. Una sarta, la signora Pisacane, mise la bottega a disposizione delle giovani che desideravano imparare il suo mestiere. Gertrude fu tra queste.
Sam trovò impiego in ospedale. Il suo compito consisteva nel cospargere di DDT i nuovi arrivati, cosa che lo rese immune dall’attacco di zecche e pidocchi. Gertrude lo derideva per l’odore che si portava dietro, ma sotto sotto era compiaciuta dell’impegno che metteva in quel che faceva.
A F., invece, non interessava minimamente partecipare alla crescita del campo, né tanto meno socializzare con i locali. Ogni sua azione era volta a stringere relazioni utili alla realizzazione del Progetto Palestina, come aveva preso a chiamarlo. Sam lo vide distribuire il Badèrech, un dattiloscritto in cui si davano informazioni sui certificati di immigrazione e si esaltava la vita in ‘Eretz Israèl. Poi lo vide parlare in modo amichevole con gli emissari del partito religioso di destra Mizrahì. Non si stupì affatto, quindi, quando una sera F. gli annunciò entusiasta che l’indomani avrebbe iniziato a lavorare nel kibbutz che Elia aveva fondato nella vecchia masseria Mondonuovo.
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Poco a poco ai profughi fu delegata la gestione di alcune attività all’interno del campo. Sam e F. presero l’abitudine di cenare alla mensa kosher, gestita da un gruppo di volontarie ebree. Alcune ragazze avevano organizzato una sorta di servizio lavanderia e utilizzavano lo spazio adiacente alla mensa per il ritiro dei panni sporchi e la riconsegna dei puliti. Sam aveva approfittato più volte del servizio, soprattutto perché al bancone c’era spesso Gertrude, addetta ai rammendi. Fosse stato per lui, sarebbe rimasto per ore lì a guardarla. Avrebbe pure saltato la cena per spiare quel suo modo di piegare la testa di lato, mentre valutava lo stato dei tessuti, e quel suo modo un po’ infantile di sorridere. Di fatto non era riuscito a fermarsi con lei mai più di due, tre minuti. F. non perdeva occasione di intromettersi tra di loro in modo spiccio e a tratti sgradevole. Il più delle volte lasciava a Sam giusto il tempo di salutarla, poi lo prendeva sottobraccio e lo trascinava via di peso, non degnando Gertrude nemmeno di uno sguardo, tutto proteso in avanti a urlare ai compagni di kibbutz di riservare due posti al loro tavolo.
Le cene si svolgevano secondo un copione prestabilito. Prima la preghiera di ringraziamento, poi i progetti sulla nuova vita in Palestina. Sam si limitava a parlare solo se interrogato. Per qualche giorno riuscì a non prendere posizione. Fu costretto a farlo la sera in cui al tavolo vennero invitati alcuni ragazzi della Brigata Palestinese. E non espresse l’opinione che F. si aspettava.
“I primi trecento partiranno a breve” disse ai commensali un ragazzo biondo, stretto nella divisa dell’esercito britannico. “La precedenza verrà data agli orfani. Poi toccherà agli uomini adulti. Per voi di Santa Maria avremo a disposizione cento posti.”
Sam non distolse lo sguardo dal piatto, mentre accanto a lui F. fremeva dall’agitazione, tanto che la panca dove erano seduti si mise a vibrare.
“Quelli che desiderano partire si facciano inserire già dalla prossima settimana nelle tabelle dei turni delle cucine. Fate incetta di scatolame. Vi servirà durante i giorni della traversata. Il giorno prima della partenza sarete avvisati da un commilitone. La sera prestabilita venite in mensa e sedetevi vicini. Ricordate di portare le provviste. Se avete passaporti o fotografie, metteteli sul tavolo. Ne faremo un pacchetto e vi riconsegneremo tutto una volta giunti in Palestina. Chiaro?”
Gli astanti annuirono con convinzione. Il soldato fece scorrere sul tavolo un foglio bianco dove chi desiderava partire doveva segnare nome, cognome e dati anagrafici. Nessuno passò il foglio al vicino di posto senza averlo firmato. Anche F. lo fece, e passò il foglio a Sam.
“Ci voglio pensare, F. Non sono pronto.”
F. si voltò di scatto verso di lui.
“Che significa ‘Ci voglio pensare’, Sam?”
A Sam sembrò lo scatto di un serpente che viene attaccato da una mangusta.
“Che non sono sicuro di voler partire. Ho bisogno di più tempo per pensarci.”
“No, tu adesso firmi, Sam. Adesso!”
F. era balzato in piedi e gli aveva sbattuto la penna sotto il naso. Sam era a disagio, così come gli altri che sedevano al tavolo. Restò immobile. Il soldato lo guardava, interrogativo. In mensa, molti si erano accorti di cosa stava succedendo e osservavano silenziosi. F. era un fascio di nervi. Prese Sam per i capelli.
“Firma adesso!” urlò con voce stridula.
Sam vide tutto nero, sentì il sangue pulsargli nelle vene e un’ondata di calore lo investì in pieno. Cercò di reprimere lo sdegno, il fastidio, il senso di ribellione, ma non ci riuscì. La rabbia ruppe gli argini ed esplose in modo violento. Si alzò di scatto, facendo cadere la panca. Si liberò dalla presa, lo colpì duro e lo scaraventò a terra. Rotolarono avvinghiati sotto il tavolo, mentre i presenti cercavano di dividerli. F. sanguinava da un sopracciglio. Sam sentì il soldato chiamare qualcuno, ma non capì chi. Si sentì strattonare e alzare da terra. Non seppe dire quante braccia lo trattenevano. Sentì uno sputo colpirlo sulla guancia. Fu trascinato fuori dalla mensa. Quando passò di fianco al bancone della lavanderia vide Gertrude piangere, mentre con una mano si copriva la bocca. Prima di uscire dovette cedette il passo a tre o quattro infermieri che correvano in senso opposto. All’esterno si era radunata una piccola folla.
Prima di accasciarsi a terra stremato dal caldo, dalla rabbia e dal male fece in tempo a sentire alcuni commenti. In tutti la parola “ebreo” era associata a parole sgradevoli, come “attaccabrighe”, “ladri”, “fannulloni”.
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Dalla mattina successiva nulla fu come prima.
Sam si svegliò solo nella stanza; F. non era rincasato. Pensò che forse aveva trascorso la notte al kibbutz. Sentì i coinquilini uscire in gruppo, più in fretta del solito. Uscì di casa senza mettere nulla sotto i denti e si recò all’ospedale. Fu silenzioso per tutta la durata del turno, al contrario dei colleghi che parlavano sottovoce e lo guardavano di sbieco. Ne fu dispiaciuto. Detestava essere al centro dell’attenzione, ma ancora di più si vergognava del suo comportamento irresponsabile che aveva finito per alimentare vecchi e nuovi pregiudizi nei confronti degli ebrei. La sera cenò solo. Nessuno tra i coinquilini lo invitò alla mensa kosher. Dopo cena uscì comunque a fare due passi. Fiancheggiò la mensa e cercò F. con lo sguardo. Non c’era. Attraversò la piazzetta e la trovò silenziosa come mai prima di allora. Tornando indietro, vide Gertrude al banco della lavanderia e la salutò con la mano. Lei accennò un sorriso e questo lo risollevò. Non se la sentì di fermarsi, ma proseguì in direzione Quattro Colonne. Passò davanti all’abitazione della signora Pisacane, che era seduta sulla soglia a sgranare qualcosa, ceci forse, o grani di rosario. Avrebbe tirato dritto, se lei non l’avesse chiamato.
“Beddhru meu1 vieni! Vieni a fare un po’ di compagnia a questa ecchiarieddhra2!”
Si fermò guardandosi attorno.
“Sì, dico a te! Avvicinati, Sam. Accomodati.” gli disse, mentre batteva con una mano sul sedile di una sedia impagliata.
La salutò con un cenno del capo e sedette.
“Come sa il mio nome?”
“Eh, figlio mio, Santa Maria è un paese piccolo e alla signora Pisacane nessuno nasconde nulla! Tu quello della rissa alla mensa sei?”
Fece per alzarsi, ma la signora Pisacane lo trattenne per un braccio.
“Piano, piano… Ma che fai? Mica ti do la colpa di quello che è successo. Anzi, se proprio vuoi saperlo, ti dico che hai fatto bene, figlio mio. A stu mundu nu nde ai nienti se nu llu tiri cu lli tienti3“
Sam continuava a non capire.
“E’ tutto il giorno che le ragazze in bottega non parlano d’altro. E Gertrude qua, e Sam là, e lei è ancora troppo giovane, e lui non si decide, e lui parte per la Palestina, e no che non parte… Uh, che noia queste cirifesse4! Dimmelo tu come sono andate le cose.”
Sam raccontò la sua versione dei fatti e la signora Pisacane lo ascoltò prima tutta attenta e compita, poi sempre più divertita. Spesso scoppiava in grasse risate, buttandosi in avanti col corpo immenso e battendosi le ginocchia con entrambe le mani. Quando ne ebbe abbastanza e ritenne soddisfatta ogni curiosità, gli mise un braccio pesante attorno alle spalle e lo tirò a sé: “Adesso sì che ho capito. Amore, tosse e rugna, nù sse potenu scunnere5.”
Sam arrossì.
“Ora ascoltami, Sam. Ho un affare da proporti. Sono vecchia e sola. Mio marito non tornerà più da questa guerra maledetta e mio figlio è ancora disperso. La casa ha bisogno delle cure di un uomo. L’affare è questo. Finché mio figlio non torna, tu puoi dormire nel suo letto e mangiare insieme a me. Pagherai la pigione lavorando nell’orto e facendo i lavori che servono alla casa. Così potrai fare calmare un po’ le acque. E conoscere meglio una certa signorina…”
Sam valutò la proposta equa e vantaggiosa per entrambe le parti, ma non fece in tempo a dirlo alla signora Pisacane.
“Ancora qui stai? Ma che, ci pensi pure? Mena6! Va’ a casa a prendere le tue cose, che è ora di ritirarsi a dormire!”
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Dopo il periodo di adattamento, tutto andò per il meglio.
La mattina, prima di recarsi al lavoro, Sam scambiava due parole con Gertrude e così anche di pomeriggio, quando rientrava. Dopo aver chiuso bottega, cenava insieme alla signora Pisacane. Al tramonto andava nell’orto, dalle piante di pomodoro. Per innaffiare sarebbero servite dieci taniche d’acqua, ma dato che di taniche era riuscito a recuperarne solo due, gli toccava fare cinque giri fino alla fontanella pubblica. L’acqua dell’ultima tanica se la rovesciava addosso, lì nell’orto, così si toglieva la polvere di dosso e non sprecava nemmeno un goccio d’acqua. Dopo essersi asciugato, rientrava verso casa – perché così la chiamava – e sedeva sulla soglia a far compagnia alla signora Pisacane che recitava il rosario. A volte scendeva in piazza. Una sera intravide sotto il tendone della mensa kosher F., girato di spalle, che parlava fitto fitto con Elia. Gli mancò il coraggio di entrare. Un’altra volta lo incrociò nei pressi di casa. Avrebbe voluto fare il primo passo, ma lo sguardo che F. gli aveva rivolto gli aveva gelato il sangue nelle vene, nonostante fosse ancora estate.
Con i locali, invece, le cose si erano ristabilite in fretta. Spesso era stato con i vicini di casa alla punta dell’Aspide, dove giocava la squadra di calcio dei Maccabi. Una domenica era stato con Gertrude, il garzone del fornaio e la sua fidanzata a fare una passeggiata su per la collina, fino alla Croce Arcana. Arrivati in cima, avevano steso per terra le giacche e fatto accomodare le ragazze. Poi avevano tolto dalla saccoccia quattro grossi pomodori che ancora profumavano di terra e di salmastro e li avevano divisi tra di loro, insieme al pane. Nessuno dei quattro aveva parlato. Nemmeno Gertrude.
Mentre era tornato a casa, per la prima volta, aveva pensato al futuro. Al futuro insieme a Gerti.
[16]
Gli uomini, a volte, fanno scelte strane, imprevedibili.
Spesso Sam fantasticava sul futuro con Gerti. Tutto sembrava andare a gonfie vele. Eppure, altrettanto spesso, ripensava al suo passato, all’arrivo a Santa Maria, e avvertiva dentro di sé una sensazione di disagio. Come se tirando le somme i conti non tornassero. Cosa non quadrava? Perché l’equazione non dava il risultato giusto? Era per via di quello che era successo con F.? Ormai non si parlavano da mesi. Certo, F. gli mancava. Ma non era soltanto questo. Certo, si sentiva in debito nei suoi confronti; se non fosse stato per lui, non sarebbe andato via da Salisburgo, non avrebbe imparato un mestiere, non avrebbe conosciuto Gertrude. Ma non era soltanto questo. Più si arrovellava, più le cose gli sembravano confuse. L’unica cosa certa era che F. gli mancava. Eppure non aveva il coraggio di andare da lui per ammettere quanto si sentisse in colpa e per dirgli quanto desiderasse riappacificarsi. Non era neanche il tipo da lasciarsi andare a grandi gesti, e difficilmente si inoltrava in terreni sconosciuti, imprevedibili. Ecco, si sarebbe definito un tipo cauto e riservato. Sapeva per certo che F. non l’avrebbe mai cercato. Troppo orgoglioso. Troppo ferito. E il muro di indifferenza che aveva alzato nei suoi confronti era troppo alto da scalare. Decide che toccava a lui. Sentì che era un passo da fare e che ritirarsi nella sua solita cautela, o vigliaccheria, sarebbe stata una mossa di cui prima o poi si sarebbe pentito.
Abbandonò le sue manie di controllo e si fece coraggio. Una sera andò al vecchio appartamento.
[17]
Salì le scale ed entrò nel soggiorno. Se lo trovò di fronte, pallido, con gli occhi spiritati. Lo salutò e disse due frasi di circostanza, senza ottenere risposta. Gli sembrò di parlare a un fantasma. A un certo punto qualcosa mutò; vide la bocca di F. aprirsi in un: “Allora? Cosa vuoi?”.
Sam si aspettava quel tono misto di indifferenza e sarcasmo.
“Sono venuto a chiederti scusa, F. Mi dispiace per quello che è successo. Ci ho pensato, sai? Non so cosa dirti esattamente, ma…”
“Allora non dire nulla, Sam. Non c’è bisogno che parli e mi dica che ti dispiace. Ormai è tardi. È troppo tardi per recuperare. Parlarne non serve a nulla, semplicemente perché ti ho già perdonato. E se non ti ho più rivolto la parola è perché, vedi Sam, chi ha torto tra noi due sono io. Ho torto per tante cose, Sam. Anche per quello che provo per te!”
“Cosa stai dicendo, F.? Non ti capisco…”
“Non sto dicendo nulla che tu non sappia già, Sam. O forse, non vuoi capire. Sono una persona molto possessiva. Ti volevo tutto per me! Non volevo che qualcuno si intromettesse tra di noi. Avevo dei piani che riguardavano noi due. Io e te. Volevo che il mio futuro fosse con te. Poi, quella sera, ho capito che tu non vuoi ciò che voglio io. Tu vuoi altro. Per questo ti ho liberato da un vincolo, un fardello, un peso. Chiamalo come vuoi…”
“Non ho mai pensato che tu fossi una zavorra, F.!”
“Ciò non toglie il fatto che io lo sia. Il mio attaccamento, la mia dedizione, la mia oppressione ti hanno esasperato. Sono una persona difficile, lo so. Sono stato ossessivo, forse. Ma ho sempre insistito perché credevo sul serio di avere una speranza con te. Forse mi ero illuso. Fino a quella sera ho sempre creduto che mi volessi bene.”
“Ma io ti voglio bene!”
“Sì, Sam, ma il bene che tu mi vuoi, per me, non è sufficiente…”
Sam allora ebbe un momento di lucidità. Passò in rassegna tutti gli episodi, tutte le conversazioni, tutti gli atteggiamenti di F. che gli erano sembrati strani, bizzarri, incomprensibili. Da un lato, tutto fu molto più chiaro. Dall’altro, si aprivano nuovi fronti.
Cosa farne del viaggio in Palestina? E con Gertrude, che fare? Le immagini si sovrapponevano, le parole si mescolavano, i ricordi si accavallavano.
Si sentiva la testa scoppiare.
[18]
Tornò a casa e trovò la signora Pisacane intenta a pulire i peperoni. Cercò di mostrarsi sereno, ma non servì a nulla. La signora Pisacane sapeva ormai leggere sul suo volto come su un libro aperto.
“Che è successo, piccinnu meu7?” gli chiese mettendosi a sedere.
“Niente, signora Pisacane. E’ che… sono stato a casa di F. e ci siamo chiariti.”
“Bene… E quindi?”
“Quindi niente… Va bene, senta, le dico tutto, a patto che la smetta di guardarmi così! Il fatto è che non so più cosa voglio fare. Non so se voglio andare in Palestina, non se voglio restare qui, non so se voglio andarmene da un’altra parte… Non so più nemmeno cosa voglio fare con Gertrude!”
“Ma che stai a dire piccinnu?”
“Io amo Gertrude, signora Pisacane. Sento di amarla. Ma non so se lasciare Santa Maria e la sua casa, dove finalmente mi sento a mio agio, sia una buona scelta. O, per meglio dire, se sia la mia scelta.”
“Tu quel tipo, Sam, non lo devi più vedere! Te ne sei tornato a casa tutto scombinato, figlio mio!”
“No, signora Pisacane, aspetti. F. non c’entra. E nemmeno Gerti c’entra. Qui si tratta di me. Vede, il fatto è che in tutti questi anni mi sono fatto trascinare prima dalle opinioni di F. poi da quelle di Gerti soltanto perché sono persone a cui ho voluto e voglio molto bene. Per tanto tempo sono stato così unito a F. da sentirmi quasi parte integrante della sua coscienza, e ora sto vivendo la stessa sensazione con Gerti. Mi sembra di essere il prolungamento di un loro arto. Mi muovo, sì, faccio qualcosa… Eppure l’articolazione dei movimenti non spetta mai a me. C’è sempre qualcun altro che decide cosa Sam deve fare. Ora sono stanco, signora Pisacane. Voglio prendere una decisione che sia mia. Prima di tutto mia.”
La signora Pisacane sospirò, inarcando le sopracciglia. Si alzò dalla sedia e guardò fuori dalla finestra, in direzione della spiaggia. Le barche dei pescatori si apprestavano ad uscire. Il gatto entrò in casa di corsa e le si strusciò su una gamba. Lei lo prese in braccio e si avviò verso camera sua.
“Sam, ascolta me. Lu pane cchiù è sudatu e cchiù bbinchia8. Datti del tempo per decidere. Per capire cosa vuoi. Poi lasciati andare. Le cose vengono da sole. Ritiriamoci, va, che la notte porta consiglio.”
La giornata era proprio finita.
Il 30 giugno 1947 le Nazioni Unite dichiararono concluso il programma U.N.R.R.A. e i campi di accoglienza furono smantellati. Dei quasi 30.000 profughi assistiti, buona parte transitò per i campi salentini, in particolare nel Campo 34 di Santa Maria al Bagno.
Gli episodi di intolleranza furono minimi e circoscritti in un arco di tempo brevissimo, tanto che il 25 gennaio 2005, in occasione della Giornata della Memoria, l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha conferito motu proprio alla Città di Nardò la Medaglia d’Oro al Merito Civile con la seguente motivazione:
“Negli anni tra il 1943 ed il 1947, il Comune di Nardò, al fine di fornire la necessaria assistenza in favore degli ebrei liberati dai campi di sterminio, in viaggio verso il nascente Stato di Israele, dava vita, nel proprio territorio, ad un centro di esemplare efficienza. La popolazione tutta, nel solco della tolleranza religiosa e culturale, collaborava a questa generosa azione posta in essere per alleviare le sofferenze degli esuli, e, nell’offrire strutture per consentire loro di professare liberamente la propria religione, dava prova dei più elevati sentimenti di solidarietà umana e di elette virtù civiche.”
Nel 2009 a Santa Maria al Bagno è stato aperto il Museo della Memoria e dell’Accoglienza, una struttura permanente dedicata al ricordo di quell’esperienza.
Alla cerimonia di inaugurazione, seduti in prima fila, c’erano alcuni dei protagonisti di questo racconto, tra i quali Sam e Gertrude, infine sposi a Los Angeles nel 1950, e la signora Pisacane, ormai novantenne.
Non c’erano, invece, né il funzionario dell’U.N.R.R.A. Henry Gerber, morto da anni, né il Maggiore James Bond, l’agente dei servizi segreti inglesi che fu comandante del campo. A settant’anni di distanza dai fatti raccontati il suo fascicolo risulta ancora secretato.
Tra gli assenti anche F., di cui si persero le tracce dal giorno stesso della chiusura del campo.
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