«All’ombra di quel barcone» – Presentazione del prof. Fulvio Pezzarossa

«All’ombra di quel barcone». In cerca di percorsi e approdi narrativi.

Fulvio Pezzarossa*

 

 

Riesce doloroso articolare una riflessione razionale, o addirittura di taglio culturale ed estetico, mentre schermo e voci recitano giaculatorie, spaventose in qualunque versione, per povere vite sepolte nella realtà liquida del Mediterraneo, atroce nella sua essenza impalpabile e sfuggente, che inghiotte migliaia di vite, varco spalancato per uno stato di precarietà generale che Zygmunt Bauman ha così efficacemente tracciato per definire le esistenze angosciate di tutti noi.

Per questo ancor più consolanti appaiono, pur nell’intenzione di didattici esercizi sperimentali, i racconti offerti nel volume “Un passo dopo”, frutto dell’ennesima variante innovativa di un progetto di lungo respiro, che anima il Laboratorio di scrittura interculturale, divenuto insegnamento ufficiale all’interno dei corsi universitari a disposizione degli allievi dell’Ateneo bolognese.

Pur nella mutata fisionomia degli allievi, di età più omogenea e meno esperti di scrittura inventiva, l’assetto generale è rimasto coerente, puntando l’attenzione sulle nozioni generali di narratologia, in chiave di introduzione alla costruzione delle storie, attraverso l’individuazione di assetti strutturali, modalità stilistiche, risorse espressive, proponendosi di ricavare un oggetto narrativo a partire da materiale d’archivio, nella varietà di articoli di giornale, fotografie, filmati familiari, testimonianze orali, epistolari, ecc. La fase di analisi di tali proposte, ha offerto potenziali di forte sollecitazione inventiva, anche negli spunti poi accantonati, o rimasti interrotti per cause contingenti, spesso legate alla mobilità intellettuale verso altri paesi, che rende internazionale il respiro delle vite giovanili. Le ipotesi narrative avanzate, discusse e concluse, attestano intensa partecipazione e generosa condivisione, attraverso il recupero affabulatorio di storie reali, supportate da testimonianze e documenti, attenti a ripercorrere, quale nodo centripeto, racconti di sbarchi, arrivi e radicamenti in nuovi territori, che costringono ad affrontare le incognite multiple e complesse della integrazione nelle nuove comunità.

E la metodica di lavoro laboratoriale, in qualche modo tematizza la condizione stessa dell’incontro con l’altro sconosciuto, in quanto il percorso narrativo implica il costituirsi di gruppi spontanei, attratti dalla proposta tematica, intersecata alle sensibilità, ai ruoli, e alle capacità di adattamento dei singoli, seppure neofiti nell’esperienza di scrittura collaborativa, a ribadire la decisa efficacia pedagogica, e perciò la salda tenuta teorica, dell’idea che persegue la realizzazione pratica di una mitologia del nostro tempo, spesso piegata alla semplificazione consolatoria e buonista, come avverte il saggio di Walter Baroni Contro l’intercultura. Il che non accade nelle nostre classi, dove gli incontri, adattandosi al temperamento e ai profili culturali, oltreché alla reattività intellettuale dei partecipanti, sono riusciti a dar vita a comunità conversazionali, a una creatività collettiva, convergendo su processi di incontro e contaminazione, attraverso narrazioni che esprimono temi trasversali e problemi vivi nella cronaca del presente. Il Laboratorio si prefigge una collaborazione di figure disposte a un reale e sincero confronto, costruendo i possibili percorsi di un futuro meticcio, avvicinando e scambiando le voci provenienti da altrove con le nostre. La rinuncia ad un esclusivo punto di vista, attiva la capacità di sintonizzarsi sulle logiche alternative, favorendo altre chiavi di lettura, altre costruzioni di senso, spingendo ad una intelligente flessibilità immaginativa, nella pratica di una intercultura materializzata in sentimenti amicali e di consuetudine che superano gli anni.

L’operazione si affida poi ad un atto altamente dialogico come è quello letterario, grazie alla generosa decisione della istituzione universitaria di superare il semplice obiettivo didattico, e aspira a intrecciare un discorso col quadro sociale più ampio, quanto mai bisognoso di un ripensamento radicale del tema migratorio, sempre più incardinato nel vivere quotidiano, da affrontare con un assetto mentale in grado di aprirsi alle novità, superare comode chiusure e una prospettiva introversa, stridente con le pratiche altresì imperanti di una simultaneità aperta e scambievole indotta da sistemi comunicativi che convogliano fasci globali di contatti. Il sottofondo dei racconti ci responsabilizza dunque rispetto alla placida sicurezza di mondi piccoli e strutturati, contornati dalla certezza di saperi, abitudini e rapporti che possono costituire barriera pregiudiziale, rispetto alla quale si muovono con incedere sofferto gli eroi comuni scelti a protagonisti delle storie, sfidando barriere, ostacoli e controversie che passo dopo passo fanno vacillare chiusure preventive, e li rendono capaci di accogliere il nuovo, il diverso, l’inconsueto, giungendo alla fine della parabola avventurosa a ottenere il premio di un arricchimento di valori, alla base di conquistate convinzioni solidaristiche.

Non sempre il passaggio giunge a compimento, e rimangono tracce di una tendenza alla reattività spontanea che genera microscopici scontri di civiltà (La scomparsa); tuttavia nel disegno complessivo si recupera un valore centrale, in asse con uno stereotipo abusato, ma sostanzialmente reale, che evoca la disponibilità di base all’accoglienza, all’ascolto e allo scambio come tratto del costume nazionale, fuori dello schema degli “italiani brava gente”, che lo sono in quanto interpreti di una storia di frequenti immissioni nelle altrui civiltà, costretti al distacco e al viaggio, sulla spinta di acute necessità. Affiora dunque quel pendolarismo che vede ad un tempo il lavoro italiano nutrire la ricchezza di più continenti, al costo di sacrifici drammatici malamente riconosciuti dalla nazione stessa, mentre il tessuto fondamentalmente comunale, di paese più che di nazione (Donna Gabaccia), stempera e discioglie gli impatti immediati derivanti dalle necessità di accogliere altre presenze, assimilate nei rituali del vivere quotidiano, in un’operosa offerta di collaborazione a identità anche all’apparenza distanti, e tuttavia meglio integrabili, quando il livello stesso dell’intesa si attesta nella dimensione artigianale, perciò comunitaria, scambievole, a piccola scala, egregiamente ritratta in Un passo prima.

E ancora generale è la sottolineatura, a riprova di uno sguardo affatto circoscritto, di un robusto tessuto sociale degli ambienti periferici, con la tangibile solidarietà dei municipi meridionali, gli stessi oggi investiti da una sproporzionata “ondata migratoria”, per servirsi di viziate espressioni correnti, ricostruendo un momento cruciale della nostra storia recente, quando lasciano quei territori schiere di lavoratori bisognosi di recuperare mezzi e ragioni di vita, dopo il disastro e la barbarie bellica. Costretti ad aprirsi a diversità e estraneità, inutilmente demonizzate nella cecità di un messaggio razzistico, superato nell’abitudine della frequentazione, nella condivisione spesso imprevista delle fasi emotive e intrinseche dell’esistenza umana, che coprono l’arco dei momenti di vita: l’amore, l’amicizia, la malattia, la crudeltà, l’altruismo, queste evocazioni narrative dettagliate e pausate, li ricostruiscono con i tratti della complessità reale, ispirandosi a larghezza e continuità del confronto e del dialogo, in contrasto con le forme sommarie della comunicazione mediatica, e l’artificiosa semplificazione delle posizioni.

Non si tratta della scelta di collocarsi in una lontananza neutrale, ma la risposta a una suggestione documentaria, sollecitata dalla varietà dei materiali dai quali muovono i racconti, spaziando dalla testimonianza piattamente burocratica alla viva memoria individuale del diario o della immagine fotografica; e pure è rilevante che a distanza di un settantennio dalla conclusione degli avvenimenti bellici, tante delle narrazioni finiscano per specchiarsi in una stagione distante ormai un paio di generazioni, storicizzata anche per il tramite della rievocazione narrativa, che viene a costituire serbatoio reale di memoria, niente affatto perciò estranea e lontana, bensì proprio chiamata a dialogare e rileggere le vicende del presente.

A questo punto servirebbe un esame accurato dei singoli racconti, per rendere altresì merito al prezioso lavoro collaborativo di Wu Ming 2, esempio di una personalità narrativa potenziata dalla volontà di operare nel quadro della pluralità discorsiva di un collettivo, che (lo si vede nelle divertenti auto-nominazioni) è pure diventata maschera poliedrica e condivisa per i nostri studenti al culmine di un percorso sofferto, sincero e soddisfatto di affinamento tra lingue, abitudini e origini, divaricate nelle provenienze e nelle storie individuali, sino ad allora varie e distinte.

Così è venuta proprio da un giovane belga la proposta di focalizzare un racconto affatto ripetitivo sulla tragedia di Marcinelle (Comme chez soi), culmine di un secolare susseguirsi di tragedie collettive, di naufragi non solo marini. La durezza materiale del terreno, conquistato dalla fatica bestiale del lavoro straniero, inghiotte vite e identità, mettendo a giorno la fiera dignità di quella condizione migrante, entro la quale si tende a schiacciare in chiave di sfruttamento annichilente qualsiasi caratteristica umana che defletta dalla assimilazione meccanica ad una bruta forza lavoro. La sentimentalità emozionale invece, provocata, schiacciata e condizionata dalla rigidità di cerimoniali intesi a simulare una negata integrazione, trova modo di esprimersi in una dialettica conflittuale di ragioni e di lingue che manifestano fierezza e sensibilità rude ma sincera, scardinando anche il controllo di una dicibilità narrativa, che il potere tenta di neutralizzare attraverso la messa in scena e il controllo comunicativo.

Quei suoni dialettali connotano i tratti di una sensibilità per nulla escludente, piuttosto testimonianza di una tenace affezione ai propri sentimenti, messi in comune nelle più impreviste circostanze, come capita a proposito di una dimenticata (l’ennesima lacuna nella nostra memoria pubblica, verrebbe da esclamare) circostanza che drammaticamente evoca strutture di accoglienza del presente (La scelta di Sam). Al cadere della guerra esse invece ospitano una massa sradicata di figure superstiti in cerca di un orizzonte di approdo beffardamente inverso, poiché le strutture alleate concentrano profughi, déracinées, richiedenti asilo, fuggiti a macchine distruttive, pronti a un passaggio mediterraneo da clandestini, però in direzione Sud, l’aliyah degli ebrei verso la Palestina, mitico rifugio contro la disumanità europea. Ma quelle strutture di sorveglianza, come quella evocata di Nardò, offrivano la possibilità di un primo contatto con un’umanità locale di massima ospitalità, capace di sentimenti elementari e veri. Basilari punti fermi che consentono la ricostruzione identitaria a figure annichilite, che riescono nella quiete periferica del territorio meridionale a superare «stenti, solitudine, rabbia», maturando una «prima decisione di uomo libero», che suona drammatica nell’eco delle tragedie presenti, manifestando la basilare esigenza di affermare il primo dei cardini della cittadinanza moderna: la libertà di scelte senza condizionamenti estranei:

Non voglio emigrare clandestinamente! Non ne posso più di fuggire, di nascondermi, di essere inseguito e cacciato come un topo!

Superare il passato, crescere come uomo nuovo, non significa affatto negare esperienze, sentimenti e culture precedenti, che si presentano come punto saldo di riscontro anche per misurare il rinnovamento in una dimensione intima che contrasta con la spettacolarizzazione notiziabile dei media, che isolano figure disumanizzate: «i giornali non devono dire cose vere. Devono solo dire cose». Nel complesso racconto Un passo prima, la reazione tardiva di Azhar, tentato da un accattivante universo di salvezza, che gli rende incerto il limite dell’assimilazione da non varcare, angosciosamente, rischia di provocare disastrose rotture con amici e sodali meno propensi alla trasformazione. Solo la sorte beffarda consente di mantenere una misura di vitalità umanizzata nella rete dei rapporti sinceri del borgo montano, che stempera nel suo orizzonte l’incertezza della globalità, attraverso una praticata cordialità che rivolta anche a maschere trasparenti, e che consentono di fare comunità senza sfaldare il gruppo esterno, che invece rappresenta per i protagonisti del sistema informativo, uno scomodo eccesso di umanità: «Ahmad, Husein, Arif, Wal-» «Troppi nomi, il pubblico si perde».

La dimensione paesana sembra essere più congeniale rispetto alla città e alle sue tensioni, riflesse nella schermaglia che pervade il blog Russia-Italia, e che due giovani allieve slave e il partner italiano hanno saputo riscattare con grande fantasia rispetto alla articolazione strutturale e di genere, vocato alla piattezza scontata del narrato sequenziale e di taglio realistico. La breve commedia La scomparsa, risulta animata da tensioni dialettiche, espresse negli aspri profili dei protagonisti, animati da una preconcetta ostilità e da caricaturali tratti di aggressività verbale, degni inquilini di una parlante Via dei Pregiudizi. La misteriosa e futile contrapposizione, attraversa una costellazione di stereotipi, coll’immancabile scontro spaghetti-patate, lasciando affiorare l’efficace espressività di un dialogato non espressamente italico: «Prima di giudicare un uomo cammina per tre lune nelle sue scarpe», mentre incombe il meta- personaggio di Wu Ming, dallo status etnico e culturale alquanto incerto, segno di una volontaria apertura a più orizzonti per meglio attingere la sostanza di una cultura plurale, «per essere la voce del popolo».

La plastica disponibilità del personaggio che raffigura il tutor del corso stesso, riverbera scelte effettive intese alla larga autonomia, come si riscontra nella scelta narrativa Più piccolo persino delle stelle, che non presenta affatto la replica di un racconto precedente, pur conservando come filone principale la storia dell’attrazione amorosa ingenua e adolescenziale tra Sam e Gerti, ma punta uno sguardo straniante sulle condizioni detentive che profilano le minacciose temporalità immobili dei “campi di forza” (Alessandra Sciurba), dai quali diviene urgente e necessaria la affermazione pratica di un diritto di fuga (Sandro Mezzadra) che nutre le aspirazioni universali di crescita umana. È la stessa sete di libera circolazione, di approdi nuovi e consolatori, che anima nel tempo e nello spazio infiniti percorsi umani, desiderosi di fuggire da quei marchi e da quelle stigmatizzazioni che non solo colpirono gli ebrei della Shoah, e infieriscono sulle figure deboli e sottomesse, come Nicola, ragazzino pugliese divenuto preda di criminali ambizioni fuori dagli orrori dei lager. Il suo riscatto è consentito dal coraggioso da parte di chi quegli abusi aveva subito, sino a perdere qualsiasi volontà di sopravvivenza, «sospeso tra la cancellazione degli ultimi anni e il bianco del futuro», e che solo l’attrazione per nuove rotte può sostanziare di speranze e forza vitale, raccogliendo il sogno che aveva sostanziato lo slancio immaginario delle popolazioni meridionali verso la ’Merica, anch’esse dirette «al di là dell’Oceano, nella terra delle metropoli, dove c’era spazio anche per i sogni».

Se questi racconti paralleli sviluppano la narrazione a partire da una documentazione pubblica, che conserva la meritoria accoglienza collettiva degli abitanti di S. Maria al Bagno e dei territori pugliesi, solo tardivamente riconosciuta, forte convergenza suggerisce tuttavia lo sviluppo di materiali privati nel dossier Tinelli. Renzo, personaggio centrale di Due occhi contro uno, pare uscire dalla travagliata esperienza della guerra, dell’immersione forzata nei luoghi costrittivi di guerra e di lavoro stranieri, con una vitalità definitivamente spenta, al pari dello sguardo menomato da un terribile incidente, che sembra risalire alle responsabilità di una figura estranea e nemica, avvolta nella distanza del tempo, dal mistero e dalla nebbia di incartamenti burocratici che continuano a imprigionare e umiliare richiamando l’ostilità germanica. Sostanziata in modo vario da una fitta risorsa documentaria e di immagini, l’avventura statica e rinunciataria del giovane militare e internato italiano, trova a lunga distanza le ragioni di un riscatto e di una matura equilibrio grazie alla forza mediata e lungimirante della famiglia e della moglie specialmente, miti dell’identità italiana indubbiamente, ma che stimolano con paziente tenacia l’apertura a voci, ragioni e prassi legislativi altrui, in un Europa ancora troppo frammentata e divisa per essere veramente, come ne avrebbe tutte le risorse, riferimento di matura e nuova libertà egualitaria e tollerante.

Non da ultimo, è necessario sottolineare la varietà di toni, soluzioni narrative, stili e modalità scrittorie dei racconti, che ci auguriamo rappresentino ulteriore viatico ad un’esperienza diretta dei lettori, che possano ripartire responsabilità e meriti attraverso un più largo giudizio, riconoscendo l’autorevolezza didattica del prezioso lavoro di Wu Ming 2, e la pronta reattività collaborativa di allievi, tesi a ripercorrere un tema chiave della narrativa postcoloniale e della migrazione, come l’incontro impattante con l’ambiente altrui. Tutto questo nella convinzione che anche questa pietruzza, serva a consentire miglior sguardo oltre muri, ostacoli, recinti, confinazioni e sospetti, come da sempre persegue il progetto del Laboratorio di scrittura interculturale, generosamente sostenuto dal Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università di Bologna e dall’immutato impegno dell’Associazione Eks&Tra, convinti di fornire un sapere spendibile per una cittadinanza in trasformazione multiculturale.

*professore di Sociologia della letteratura al Dipartimento di filologia classica e italianistica all’Università di Bologna

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