Week-end con le Parole – Doranna Montefusco Fuzzi
WEEK-END CON LE PAROLE (Storia di una performance da via Zamboni)
di Doranna Montefusco Fuzzi
Bologna, venerdì pomeriggio, 1 aprile 2011
Ma chi me l’ha fatta fare? Le più anziane del gruppo siamo io e la mia vicina di posto: bella sfida con tutti questi giovani! Chissà se continuerò. Sarà dura! Me ne accorgo subito, appena sento correre veloce e imprevisto un brivido lungo la schiena alle critiche che questi aspiranti scrittori, provenienti da ogni dove, dispensano al mio racconto denso di certezze: i giudizi diretti non li avevo previsti; soprattutto, è il cambio dei ruoli che mi coglie impreparata!
Questi ragazzi hanno tante pagine bianche nel loro libro! Il mio è quasi compiuto! Così decido di curiosare nelle storie più belle sedute nell’aula, lasciando a ciascuna ciò che le spetta, senza mescolare colori e lingue, volti e appartenenze, andate e ritorni. So già che saranno tanti i personaggi che faranno a gara per finire nel mio quaderno. Su tutti in questo primo giorno emerge Idriss, caparbio nel difendere la propria identità racchiusa in un nome mai pronunciato nella sua interezza e tante volte minacciata da una burocrazia distratta, da un’anagrafe indifferente, da uno sconosciuto prevenuto. E poi, Emma Lisa, anche lei con un nome mille volte storpiato, che ci incanta con la sua storia di francesina, il cui destino di scrittrice era già tracciato prima ancora di aprire il suo stupore sul mondo, per tutti i racconti ascoltati a mollo nel buio del pancione della mamma! Un collage di storie fatto di tanti pezzi che si dilatano, si avvicinano, si incontrano, si riconoscono, regalandoci il sogno di un viaggio che ci porta lontano e in ogni stazione ci offre una valigia nuova, traboccante di vite e di parole migranti che, pazienti, aspettano di finire nel nostro libro a più mani.
Bologna, venerdì pomeriggio, 15 aprile 2011
Eccomi arrivata al nostro appuntamento di fine settimana, anche oggi stranamente in anticipo. L’ingresso in quest’aula mi mette addosso una strana euforia, quasi un’eccitazione. Vorrà dire che qui sto bene? Che per me questo ritrovo quindicinale con persone prima sconosciute ha un effetto terapeutico? Mi sento approdata in un microcosmo. Qui metto a riposo la mia frenesia di guardare il mondo sempre alla ricerca di parole nuove per ricrearlo, per dargli
una forma diversa. Qui mi acquieto e mi lascio avvolgere dall’unico fil-rouge che mi unisce a ciascuna di queste persone sempre meno estranee. Qui siamo tutti diversi, ma non abbiamo bisogno di affermare la nostra identità. Nessuno teme d’essere snaturato. Tutti diversi ma con la stessa “lingua”. Ci sentiamo uguali, tutti identicamente appassionati di “parole”, nella tensione condivisa di voler poggiare sulle righe quelle che ci volteggiano attorno, ognuna con la storia di un altrove sconosciuto ai più, ognuna pronta per essere saldata alle emozioni che ci seguono lungo questo percorso. I “fiori dell’aria”, una pianta parassita che vaga nell’aria, migrante come tutti noi, evocati da Patricia il primo giorno e “lasciati sospesi” al soffitto dell’aula, non sono più soli. Mille, diecimila parole si sono affrettate a unirsi a loro, correndo veloci da un continente all’altro per posarsi, infine, sulle nostre pagine bianche, pronte per il nostro libro, perché sanno che di loro non possiamo più fare a meno.
Bologna, sabato mattina, 16 aprile 2011
Mi rendo conto che la mia storia, quella che mi chiedono di scrivere a testimonianza del passaggio in quest’aula, non ha un titolo, non ha dei personaggi con delle azioni che si intrecciano, non ha voci che si alternano sulla scena, non ha avuto un inizio e non prevedo per lei una fine. Oggi già mi prende il rimpianto di ieri, perché non so raccontare di quella borsa a fiori colorati appoggiata da Pina sulla scrivania. Chissà quante storie racchiudeva, visto che era ricolma di libri. Faceva da spalla a una pila di altri volumi che, uno alla volta, le appoggiavamo di fianco, in una raccolta di titoli e di autori, pilastri e testimoni delle nostre esistenze. A quella vista mi ha attraversato veloce ma intenso, il desiderio di curiosare in tutte quelle pagine, come ci ripeteva Livia: “Potete prenderli da leggere!”. Così, nell’intervallo, ho cercato il libro che racchiudeva un mondo femminile dell’antica Cina, decisa a gustarmelo un po’ alla volta, per sfuggire alla tristezza, perché “…queste storie mettono tristezza”…, aveva puntualizzato Jinchuan, che ce lo aveva fatto scoprire. Ero anche pronta a usare “gli occhi della saggezza”, come lei stessa mi consigliava, per interpretare la marea di geroglifici che conteneva. Ho rinunciato. La mia saggezza ha ancora occhi troppo miopi per gettare lo sguardo fino in Cina e più là ancora, fino nell’antica Cina. Ma ci riproverò. Quei libri, mausolei di parole, ogni giorno saranno sulla scrivania, di fronte a noi, apposta per provocarci.
Ho abbandonato il ruolo che avevo scelto il primo giorno nel posto in prima fila, allieva composta e pronta a catturare i segreti del mestiere. Mi sorprendo oggi, cronista nell’angolo più distante, decisa a registrare ogni battito di cuore narrato, ogni emozione lontana portata vicina, ogni ricordo rivisitato in un presente possibile, nello sforzo di appassionarmi a tutte le parole usate, le più nuove, le più esuberanti, le più straniere, le più esotiche, le più gonfie di emozioni. Mi lascio stuzzicare anche dal gioco di Livia di mettere in prima fila le più piccole: “Esercitatevi ad esprimervi solo con parole bisillabe”, ci suggerisce. Non mi ero mai resa conto di quanto fosse difficile. Provare per credere! Tutte parole migranti in attesa di un approdo sicuro. Mi coglie la consapevolezza della fatica di riempire le mie pagine con tutte le storie che ad ogni week-end entrano in quest’aula pronte a decollare nel libro che sarà il “nostro” libro. A metà percorso il mio brogliaccio rischia già di restare incompiuto, incapace di registrare la forza e la bellezza di questi ragazzi stranieri che scrivono storie in un italiano così difficile anche per noi. Chissà in che lingua le pensano!
Bologna, sabato mattina, 14 maggio 2011
Da quando frequento queste lezioni la mia mente è perseguitata dai “luoghi comuni”, anzi dagli lc, come li chiama Christiana e che vedo, con orrore, sparsi e ben rintanati nella mia casa, fra i miei fogli, addirittura nei miei racconti. Non mi ero accorta di quanti fossero a circondarmi. Vorrei liberarmi di loro, meglio, per essere chiara, non li vorrei più incontrare. D’ora in avanti darò spazio alle parole alternative, a quelle poco usate, che nessuno vuole, anzi che nessuno cerca ma che, come guizzo d’autore, esprimono a tutto tondo il pensiero di chi scrive, rendendolo unico, originale, proprio quello che forse garantirebbe una sospirata pubblicazione.
Bologna, venerdì pomeriggio 27 maggio 2011
Mi consolo, perché mi rendo conto che gli lc esistono in tutte le lingue, per cui decido con quelli trovati di farne un sacco, chiuderlo ben bene e abbandonarlo al suo destino per sempre in quest’aula alla fine del corso. Gli lc saranno una delle cose che mi resterà di questa avventura nell’aula Forti. D’ora in avanti, appena una storia farà capolino darò precedenza alle parole meno consunte della letteratura, concedendo loro tutta la mia attenzione. Man a mano che le incontrerò, farò accomodare nella sala d’attesa della mia mente le più originali, le più fresche, senza inutili orpelli, capaci di dare fiato alle mie emozioni, anzi di amplificarle oltre ogni mia possibilità, perché la curiosità agganci i miei improbabili lettori e consenta loro di addomesticarle una per una. Alla fine, potrò chiudere la mia cassetta degli attrezzi ben rifornita, ma più leggera dell’inizio, perché svuotata del sovrappiù di una scrittura maldestra.
Bologna, sabato mattina, 28 maggio 2011
Ultima mattina e già la malinconia comincia ad appesantire i miei passi mentre mi dirigo in via Zamboni. Eppure, non vedo l’ora di mettermi alla prova, di ‘collaudare’ i suggerimenti, le spinte, i consigli ricevuti, senza trascurare i volti, le voci, le emozioni, di questi non più sconosciuti compagni di viaggio. Ora lo so. Mi tocca lasciare in quest’aula tutte le storie che mi sono rimaste appese al cuore perché non hanno trovato posto nel mio quadernetto. Ma non le voglio perdere per sempre, perché ho scoperto nel mio libro pagine ancora bianche. Così decido di annotare tutte queste parole ancora sospese, cinesi, italiane, afgane, ruandesi, pakistane, nigeriane, messicane. Tutte parole migranti a cui decido di offrire un approdo sicuro. Mi serviranno per altre storie, lontano da qui, fuori da quest’aula. Aveva ragione Christiana!
“Un giorno lo riprenderete in mano e ritroverete tanti spunti!”, ci aveva suggerito nel primo giorno di lezione, sollecitandoci ad appuntare in un notes questa storia vera che stava per decollare.
E io così ho fatto: una alla volta, durante gli insoliti week-end trascorsi in questo laboratorio interculturale, ho “catturato” tutte le parole colorate trovate accatastate in un angolo dell’aula Forti fin dal primo giorno di lezione e le ho trascritte sulle pagine intonse del mio brogliaccio. Le parole, che hanno aleggiato in mezzo a noi, tutte diverse, approdate da un angolo all’altro di questo mondo sempre più stretto e pronte per essere acciuffate e dare forma ai nostri sogni e consistenza alle nostre emozioni, sono diventate le mie alleate.
Già prima di iniziare avevo deciso di non perdere niente di quest’avventura: ogni parola, le protagoniste principali dei nostri incontri, ogni emozione, anche le emozioni? ogni storia, tante quanti eravamo, ogni suggerimento, questi si in abbondanza, perfino le critiche, resteranno incollati per sempre sul mio quaderno di bordo.
Condividi: