Un grappolo di datteri – Anna Luppi

Un grappolo di datteri
di Anna Luppi

Sto scendendo. Tengo gli occhi chiusi, ed ogni tentativo di aprirli si rivela vano e per di più doloroso. Il mondo attorno a me sembra vorticare e scivolare verso il basso, liquidamente, come in un mulinello d’acqua. Non riesco in alcun modo a trovare un appiglio per interrompere la mia discesa inesorabile. Sento il cuore palpitare sempre più velocemente, tanto che comincio a percepirne il battito ritmico nei polsi.
E’ solo un sogno? Oppure tutto sta accadendo realmente? Può esistere nel mondo reale un vortice di tale forza, capace di attirare una persona verso il fondo del mare?…
All’improvviso, un bagliore. Una luce debole cerca di insinuarsi fra le mie palpebre. La tensione che avvertivo prima si scioglie, ed ecco che riesco ad aprire lentamente gli occhi e guardarmi attorno.
Comincio a riconoscere ciò che mi circonda: un tavolo basso, cuscini sparsi e consumati dal tempo, una teiera d’argento, alcuni bicchieri di vetro decorato; alle spalle, una parete che sembra stoffa, a disegni colorati, lascia filtrare la luce del giorno. Accanto a me, un minuscolo tavolino di legno con una lampada accesa: probabilmente, il bagliore che mi ha svegliato. Infine, inginocchiata a qualche metro da me, scorgo una figura, con gli occhi chiusi, come in meditazione, che tiene fra le mani un oggetto che non riesco a decifrare.
Lentamente, affiorano ricordi e dettagli: le ultime cose che ricordo sono il viaggio in jeep dal Deserto Bianco, l’arrivo nell’oasi, la discesa lungo una strada sterrata e polverosa… poi, il buio totale, non riesco a ricordare nulla. Devo aver perso i sensi, forse per un colpo di calore. Però ricordo alcune frasi che mi sono state dette e ora capisco dove mi trovo: sono in una tenda nell’oasi di Bahariya, nel deserto occidentale dell’Egitto; ricordo di essere stata accompagnata qui da Abeda, un ragazzo di circa trent’anni, la guida che mi ha fatto visitare l’oasi e le altre bellezze di questo deserto, in un viaggio di alcuni giorni; sono a casa della sua famiglia, mi ha portato qui perchè prendessi uno shai (tè) con loro.
La figura a pochi metri da me deve essere sua madre. Mi è impossibile vederla in viso, perchè qui le donne vestono l’abito tradizionale che le copre interamente, nero, lungo, che lascia scoperti solo gli occhi, con una piccola striscia di stoffa tra essi.
Eppure, contrariamente a quanto siamo portati a pensare, nonostante il loro corpo sia così nascosto ed esteriormente non si veda quasi nulla della loro persona, non è difficile capire se si tratta di una ragazza giovane o di una donna di una certa età, seppure tutte qui, dalla più giovane alla più anziana, vestano lo stesso identico abito. Come a sottolineare che le caratteristiche che contraddistinguono una persona non si possono coprire in nessun modo, né ingabbiare, né rinchiudere, né nascondere sotto un vestito.
Ad un certo punto la donna si accorge del mio risveglio, posa l’oggetto che stringe fra le mani – forse un amuleto, o uno strumento di preghiera – e si alza. Viene verso di me mormorando parole nella sua lingua, che io però non riesco a capire. Le sorrido, allargo le braccia cercando di trasmettere un “non capisco”, ma cerco di alzarmi dal mio giaciglio per farle capire che mi sento meglio. Continua a parlarmi con un tono di voce caldo, confortante, che sembra cercare di rassicurarmi.
D’improvviso, pronuncia una parola a voce alta, che immagino essere un nome, rivolgendosi verso l’ingresso della tenda. Arriva un ragazzo, anch’egli in abiti tradizionali, con una brocca d’acqua e un piatto di metallo contenente un grappolo di datteri di un colore arancio vivissimo. Me li offrono e io li assaporo con gusto: non ho mai mangiato dei datteri così morbidi e dolci.
Poco dopo, nella tenda entra anche Abeda, la mia guida. Con lui comunico in inglese, così finalmente può fare da interprete a ciò che sua madre vuole dirmi. La donna ha uno sguardo serio, che tradisce importanza. Per un po’ parlano la loro lingua e si inserisce nel discorso anche il ragazzo che mi ha portato da mangiare; sembrano discutere animatamente, ma ovviamente il contenuto dei loro discorsi mi è oscuro.
Nonostante mi sembri di aver dormito a lungo, mi sento ancora molto stanca. Mi lascio cullare dal suono delle loro voci e la mia mente vaga, e ripenso alla decisione di intraprendere questo viaggio da sola, all’università che ho interrotto, a mio padre che era spaventato all’idea e non voleva che io partissi, alle meraviglie che ho visto, ai numerosi volti che hanno incrociato il mio sguardo…
Abeda mi riporta fra loro rivolgendosi a me; traduce lentamente quello che sua madre gli ha spiegato. “E’ proprio sicura?” chiedo; in realtà sono io ad avere il dubbio di non avere capito bene quello che mi ha detto. Abeda risponde che le anziane di quest’oasi hanno visto così tante cose nella loro vita che è davvero difficile che si sbaglino.
Ora mi trovo in aeroporto e sto prendendo appunti sul mio taccuino di viaggio per essere sicura di ricordare ogni istante, ogni colore, ogni volto che ha scambiato il suo sguardo con il mio in questo affascinante Paese.
Oltretutto, avrò sicuramente qualcuno a cui raccontare questa storia.
Sono incinta.

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