Succulente – Daniela Masini

Daniela Masini – Laboratorio di scrittura creativa interculturale 2010-2011

AL FÒI

T la avré vésta méll vólti, no la cuba,

cla piènta grasa, vsina la finestra,

senza spéini, l’è un casp ad fòi, schéuri,

mósi, cm’al s’invidéss,

agli avrà bén un nóm, mo va a savài,

sa dal stréssi ad travérs, un pó piò cièri,

però no tènti lèrghi, èlti ènch’ do spani,

ta n li é in amént? Agli è stè sémpra alè,

at che vès, un gòzz d’aqua d’ogni tènt

mi e’ sarà dis dògg an,

ch’a n’i bèd gnénca piò, mè, a m nu n so incórt

stamatéina, par chès, ò ciamè l’Elda,

ch’a sémm arvènz, tutt déu, agli à fiuréi. (*)

 

(Raffaello Baldini)

SUCCULENTE

Accucciata sul pavimento della cucina, Marta era intenta a osservare i vasi di piante grasse che occupavano tutta la superficie del piccolo balcone inondato di sole.

Aveva traghettato le sue piante attraverso quell’impietoso inverno senza luce, con la volontà ostinata di proteggerle dal buio e dalla malinconia. Sapeva che, se loro fossero sopravvissute, anche lei si sarebbe salvata.

Silenziosi e caparbi, i cactus avevano resistito e ora finalmente, bevendo i raggi del primo sole di aprile, potevano rinascere: la loro carne acquisiva pienezza e un color verde brillante, le spine diritte si allungavano verso il cielo.

Marta amava le sue piante perché le assomigliavano: in superficie la stessa scorza, dura e immutabile, all’interno un cuore liquido, pregno di succhi in moto perpetuo lungo canali segreti.

Le piaceva il nome con cui i botanici le avevano battezzate, Succulente: le suonava come una promessa di ristoro, di oasi ben irrigata posta al centro di spazi aridi.

Le amava anche perché sapevano durare, restarle accanto per anni, discretamente ma con devozione. Non sopportava le piante che si esaurivano dopo una sola stagione, non si poteva contare su tale effimera, incostante presenza. A nulla valeva l’estasi di una superba fioritura senza l’intima gioia di ritrovarsi, anno dopo anno, come bambini che hanno suggellato il patto di restare amici per sempre.

All’esordio di quella primavera, il rito si celebrava nuovamente: Marta era lì, assorta, convinta che, se avesse guardato le sue piante con sufficiente intensità, ne avrebbe visto la linfa scorrere traslucida al loro interno.

All’improvviso, con la stessa perentoria insistenza di una sveglia che trapassa l’ultimo sogno del mattino, il suono del campanello squarciò la membrana invisibile che la separava dalla realtà.

Rimase lì, seduta per terra a piedi scalzi, nei suoi vecchi pantaloni larghi che le ricadevano morbidi lungo i fianchi. Aspettava, mollemente, un segnale più deciso dal mondo esterno, che la convincesse a sgusciare fuori dal suo baccello.

E se, aprendo la porta, si fosse trovata faccia a faccia con lui? Immaginò due occhi pungenti che la scrutavano, studiando con espressione scanzonata la sua figura, impietrita per lo stupore, avvolta in abiti di una taglia più grandi. L’avrebbe trovata goffa, poco attraente? Eppure sapeva bene che lei non portava giacche attillate, camicie inamidate e scarpe a punta: le legavano i movimenti, rendendo le sue giunture rigide come quelle di una Barbie, mentre la sua natura era di animale acquatico, libero e fluido.

Sentì un nuovo trillo e il suo corpo rispose con un sussulto. No, non poteva essere lui, se n’era andato, da solo, dopo i tanti viaggi fatti assieme, per non essere a sua volta risucchiato dal gorgo nero che aveva già attanagliato lei.

Era un uomo pratico, forte e capace di tenere a bada i cani ringhiosi della solitudine. Quando era apparso evidente che l’inquietudine di Marta lo stava ghermendo come una belva feroce, aveva imbracciato la sua macchina fotografica, mettendola a tracolla come uno scudo che gli proteggesse il fianco, ed era partito.

Attraverso l’obbiettivo, G. sapeva cogliere spicchi di realtà sfuggiti alla rete di una moltitudine di sguardi, invadenti ma distratti. Il mondo si lasciava contemplare dall’occhio della Reflex, rivelando la propria meravigliosa complessità, al cospetto della quale le paure e le contraddizioni dell’osservatore impallidivano fino a dissolversi.

Viaggiare da solo però non aveva più lo stesso sapore, dopo aver sperimentato la compagnia di Marta, la sua accesa curiosità, il carattere lunatico, costantemente in bilico tra un’allegria senza nuvole e l’ombra cupa della malinconia. Marta era una tavolozza di colori che virava senza sosta dall’azzurro più lucente al grigio più tetro. Raramente si concedeva una tregua: G. la rivedeva in uno di quegli istanti felici, appoggiata al parapetto di un battello che costeggiava rive frastagliate, con i capelli mossi dal vento e lo spirito leggero, e desiderava nuovamente averla accanto a sé.

In quel momento, come avvinta dalle stesse emozioni, Marta risentiva sulla pelle il fremito di entusiasmo che li percorreva prima di partire, quando si divertivano a spalancare la cartina geografica, tracciando con un dito le strade che avrebbero imboccato e i luoghi in cui avrebbero voluto perdersi. Il percorso prendeva forma davanti ai loro occhi, come un cartamodello pronto a trasformarsi in un sontuoso vestito: sapevano che presto avrebbero assaporato una nuova terra, assorbito ogni colore e ogni odore, rifuggendo i villaggi turistici e il cibo già masticato della cucina internazionale.

Con un gesto veloce scacciò i ricordi per non farsene rapire, si alzò e si mosse in direzione della porta d’ingresso, gettando un’ultima occhiata alle piante che, a differenza di lei, restavano ancorate con ostinazione alla terra. Si chiese se ricordassero la loro origine, che affondava in paesi lontani. Quei cactus erano nati da piante madri che sorgevano spontanee lungo i sentieri che avevano solcato durante i loro viaggi. Quando scorgevano una specie che non conoscevano, ne staccavano con cura una cima e la prendevano con sé: una volta a casa, avrebbe fatto parte del loro giardino privato. Erano affascinati dalla capacità delle piante grasse di riprodursi anche senza bisogno di semi. Bastava infatti conficcare nel terreno una fogliolina spezzata, ma ancora pulsante di vita, per generare una nuova pianta. Marta voleva scoprire il loro segreto, ambiva a quella forza, a quella capacità di risorgere partendo da un minuscolo frammento di sé, di sopravvivere agli strappi, alle ferite, a ogni brutale violenza conservando intatta la volontà di rigenerarsi.

Lei invece sentiva il suo corpo sterile, ossificato. Non riusciva a reagire allo stato di torpore in cui si era inabissata, i suoi occhi erano vacui, i gesti indolenti, il cuore gonfio e pesante.

Il meccanismo che fino ad allora aveva scandito la sua vita si era inceppato, il sapiente gioco di incastri che le aveva permesso di utilizzare ogni scampolo delle sue giornate era stato smascherato: l’inverno era trascorso immobile, come se il lungo freddo l’avesse congelata.

L’arrivo della primavera le imponeva di reagire, di trovare nuove formule e nuovi ritmi, perché la natura è severa e non consente la resa a chi racchiude in sé il germe della vita, che si tratti di una pianta, salda nelle proprie radici, o di una donna, che ha conosciuto la vana frenesia del movimento e ora ambisce a una pace feconda.

L’ultima scampanellata la sorprese con le dita già strette intorno alla maniglia. I muscoli della mano risposero automaticamente allo stimolo, come le succedeva quando era bambina: ricordava che da piccola il trampolino per i tuffi la terrorizzava, tuttavia, quando distingueva tra i suoni attutiti della piscina il fischio dell’istruttore, il panico si scioglieva e il suo corpo d’istinto eseguiva il comando, lanciandosi nel vuoto. Inebriata dal volo e ancor di più dallo scacco giocato alla sua paura, sorrideva dentro di sé mentre nuotava rasentando il fondo della vasca, senza alcuna fretta di riemergere.

Allo stesso modo quel giorno, senza chiedere il permesso al cervello, il braccio aprì la porta, gli occhi lo videro e la bocca si distese in un sorriso spontaneo, irrefrenabile come un sospiro di sollievo. Riflettendosi nello sguardo di lui, divertito e tenero insieme, la barriera che l’aveva imprigionata si infranse come uno specchio.

E quando, per suggellare l’antica confidenza ritrovata, lui le chiese “Sei pronta? Partiamo?”, Marta senza parlare rispose di sì.

(*) LE FOGLIE. L’avrai vista mille volte, no l’aucuba, / quella pianta grassa vicino alla finestra, / senza spine, è un cespo di foglie, scure, / mosse, come se si avvitassero, / avranno bene un nome, ma va’ a sapere, / con delle strisce di traverso, un po’ più chiare, / però non tanto larghe, alte anche due spanne, /non te le ricordi? Sono sempre state lì, / in quel vaso, un goccio d’acqua ogni tanto, / ma saranno dieci dodici anni, / che non ci bado nemmeno più, io, me ne sono accorto /stamattina, per caso, ho chiamato l’Elda, / che siamo rimasti, tutt’e due, sono fiorite.

 

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