Smalti su tela (incompiuta) – Giulia Solignani

Smalti su tela

(incompiuta)

 “Sono il suono del mio passo”

Avevo in testa soltanto questo mentre ispezionavo attentamente i miei piedi: fortunatamente due, irrimediabilmente callosi, ossuti e irrequieti.

Me ne stavo comodamente attorcigliata sulla sedia cercando di non dipingermi l’intera falange con lo smalto  femme fatale ed erano tre le domande che accompagnavano il mio attento lavoro di imprecisione: facciamo quello che siamo? Siamo chi incontriamo? O siamo semplicemente i nostri piedi?

Prima di arrivare al mignolo avevo già ripercorso gli ultimi sette anni della mia esistenza.

Pinato Gemma, prima il cognome poi il nome; così mi chiamavano al liceo. Quindici anni, cinque ore al giorno passate a picchiettare una gamba del banco con il piede sinistro e le altre diciannove a rincorrere la puntualità, un passo davanti all’altro. A sedici anni i miei piedi si sono fermati per prendere la rincorsa e disegnare un cerchio: percorrevo tanta strada ma tornavo sempre al punto di partenza. Forse avrebbe dovuto rassicurarmi quella forma così regolare, in realtà non faceva altro che innervosirmi ancora di più. Il cerchio però non era sempre uguale, a volte conteneva un’intera festa piena di gente insostenibilmente felice, altre volte era circondato da perfetti sconosciuti che di tanto in tanto si prendevano la libertà di incrociarne il perimetro. Il duemilatre fu un’annata memorabile: ricordo l’immobilità. Rivedo i miei passi incerti dirigersi prima verso la porta di casa, indugiare davanti allo specchio e rifugiarsi nel letto. Diciotto anni: la maturità, il voto e la patente. Sentivo la resistenza dell’acceleratore  mentre ricoprivo quasi completamente di smalto il secondo dito del piede destro. Diciannove, venti, ventuno … Salgono i gradini dell’università, i miei piedi, e mi portano altrove ma non abbastanza lontano. Raggiungo i passi di Ahmed, in bilico tra l’Egitto, l’Inghilterra e il suo lavoro a Taiwan. Mi parla del deserto, di quando durante il servizio militare si è beccato un proiettile che gli ha segnato il ventre. Mi stupisce confessandomi che un uomo grande come lui non sa stare in equilibrio su una bicicletta perché nessuno glielo ha mai insegnato. Cammino per qualche giorno con  Fadlah e Sophie: l’una impegnata a studiare legge per difendere i diritti delle donne in Sud Africa – perché non ha più voglia di avere paura ogni volta che esce di casa e non vuole neanche più che suo fratello la segua – l’altra ad insegnare letteratura inglese ai bambini londinesi, sopravvivendo in una stanza grande quanto un armadio. Mi fermo qualche istante con Soyeon e ne ammiro la pacatezza. Guardandola mangiare mi chiedo se tutti a Seoul siano così meticolosamente lenti. Forse sono io a non ricordare che in fondo il pasto è un rito e che come tale ha bisogno di essere scandito da gesti solenni.  

    Scelgo un trasparente bon ton e, con il marmo incollato ai talloni, cerco di disciplinare il rosso ancora umido: le dita dei piedi sono finite ed ora è la volta delle mani.

Osservo attentamente il loro dorso, poi mi perdo seguendo le linee confuse dei palmi. Ho sempre avuto un debole per le mie mani; stavano davvero bene sulle corde della chitarra che mi regalò mio padre. Era la sua chitarra: qualche ruga nel legno della cassa, l’estremità intarsiata e le chiavi di madreperla. E ora su cosa camminano le mie dita? A quali corde si aggrappano? Ricordo ancora la partitura di Madrigale per Lucia?

Oggi le mie mani non si preoccupano di rispettare le regole imposte tra cinque righe; da un po’ di tempo preferiscono la pelle del Sabar[1] e il legno del Djembè[2]. Mi rivedo poco più che ventenne per le strade di Dakar. Rivivo il silenzio dello straniero, di una toubab[3] che si ritrova ad essere minoranza gesticolante più che silenziosa. Le mie mani parlano. Non sono loro ad avere bisogno di un appiglio, sono io ad aggrapparmi a loro. La mia voce si può vedere. Benoit è stato il primo ad accorgersene. Quante domande gli ho fatto, seduti su una cassa di plastica tra la sabbia di Patte D’Oie! La curiosità fa parlare le mie mani ed è il motore dei miei piedi. Sorseggiamo una 33 Export ghiacciata e io lo ascolto gesticolare. Ha una mezza luna bianca in volto Benoit, mentre mi parla della sua fede. Lui è un buon cristiano, beve birra ed è orgoglioso di mostrarmi la divisa del coro.

Durante le feste non manca mai un piatto per la famiglia di Pape: se il tuo vicino prega un altro Dio i festeggiamenti si raddoppiano. Benoit mangia maiale, Pape si beve un’aranciata.

    Le  mie mani tentano di sfuggire al non-colore; vogliono accompagnare di nuovo il Dum Dum Bà, partire dal battito dei piedi a terra, disegnare traiettorie immaginarie e non trovare mai la noia della meta.

La destra vorrebbe tuffarsi ancora una volta nel grande piatto di Thieboudienne[4], mentre la sinistra –  la mano con cui ci si lava – non può far altro che restare a guardare. Ripenso a noi  donne sedute l’una accanto all’altra a condividere lo stesso cibo: pollo allevato da Tapha per le occasioni speciali, succo d’ananas frizzante  e Fataya complet come spaghettata di mezzanotte; il piatto del folle, così lo chiamano Libas e gli altri.

   Il fischio dell’enorme bollitore mi imprigiona nel qui e ora: Bologna, che non è più quella di una volta ma rimarrà sempre la mia città. Il fischio dell’enorme bollitore annuncia l’arrivo di Lahoussine: “Salam aleikum”

“Aleikum salam” , rispondo.

Il tè marocchino  tutto menta e zucchero mi sfida ogni volta in cui tento di versarlo nel piccolo vetro decorato: dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso … Dai piedi alle mani e dalle mani verso l’altro.  

L’altro in fondo è solo una parte di noi stessi che ancora non conosciamo. In arabo piedi e mani sono parole femminili. Forse spetta a noi l’onere dell’incontro, della relazione.

Siamo forse meglio equipaggiate per un viaggio al centro del nostro universo?

Siamo forse noi a rappresentare la volontà di camminare mano nella mano con  i nostri incontri fino a farli diventare parte delle nostre membra e delle nostre esistenze?



[1] Strumento musicale a percussione originario del Senegal.

[2] Tamburo a calice originario dell’Africa Occidentale.

[3] Persona di origine europea, “bianca”.

[4] Piatto tradizionale senegalese a base di riso e pesce.

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