Nemmeno noi stiamo bene – Rosa Manrique
Nemmeno noi stiamo bene
di Rosa Manrique
“Potranno tagliare tutti i fiori, ma non fermeranno mai la primavera” Pablo Neruda
Ero molto giovane quando decisi di arruolarmi nell’esercito italiano. Non sapevo cosa volevo dalla vita, ma ero sicuro che quella che trovavo ogni giorno nei miei occhi non era quella che volevo. Non avevo amici e la relazione con la mia famiglia si deteriorava sempre di più. Sentivo che l’angoscia di non trovare un’appartenenza mi stava cominciando a soffocare, a innervosire al punto da odiare tutti: le donne zingare che trovavo sul treno, il senzatetto che dormiva all’angolo di casa mia, i gruppi di punkabbestia con i loro schifosi cani umanizzati, quelli che vendevano le rose, indiani, pakistani, che so io, quelli. Non ne potevo più. Le strappo io tutte le loro rose, gliele schiaccio sulla faccia, ne spargo i petali sulla testa, le butto per terra, le calpesto, infine mi butto giù e piango, solo due secondi, poi mi alzo e scappo via, corro finché non casco ancora, e mi trovo sopra la merda dei mille e uno cani che sporcano le strade di Bologna.
Passai almeno due giorni chiuso in camera, sotto la nebbia grigia del fumo, viaggiando, cercando il mio mondo, cercando me, ma che puzza che facevo, neanche i gridi e i colpi sulla porta mi facevano tornare alla realtà. Non me ne fregava proprio niente. Avrei voluto una finestra che si affacciasse su una strada affollata e piena di macchine, avrei voluto buttarmi giù, e trovarmi disteso inerte sotto gli sguardi di tutti i colpevoli della mia esistenza. La mia finestra dava sopra un giardino, fastidiosamente bello, era l’unica cosa che valeva la pena vedere tutti i giorni eccetto i fine settimana perché si affollava di rumene, di sudamericani.
La settimana dopo avevo l’uniforme, e mi trovavo al sud, non saprei dire com’ero arrivato lì, e come cavolo mi avevano accettato, forse bastava guardare i miei occhi per capire che ero disperato, forse si vedeva l’odio che avevo dentro di me, forse questo odio serviva a loro. Non lo so, a volte c’è una parte della mia vita che non controllo, cose che capitano e io mi trovo dentro senza capire come.
Ci preparavano per la guerra, per difendere il nostro territorio, per combattere il terrorismo, per essere utili insomma. Soldato io, cazzo!….nemmeno quello, era troppo per me. Addestramento fallito, non ne potevo più, come cavolo ero arrivato lì, non ne avevo idea. Mi mandavano a pulire le strade, raccogliere la spazzatura, tonnellate e tonnellate, immaginavo me sepolto sotto quella montagna vulcanica di rifiuti, e mi piaceva, mi sentivo protetto, nascosto. Forse una parte di me era finita lì nel cuore di quell’immondezzaio.
Giorni dopo arrivai all’isola, l’isola dei famosi … degli sbarchi famosi, idiota. Insomma erano le due del mattino, sentivo il vento freddo. Io non dovevo essere lì, come sempre, ma uno dei ragazzi si era ammalato, così mi trovai sull’aereo, impaurito, con la coda fra le gambe. Soldato io? Scherzi? Quel giorno lavorai tutta la notte, quei disgraziati sbarcavano come topi sulle nostre coste. Io li prendevo in giro dicendo che arrivavano all’inferno, che non ce l’avrebbero mai fatta. Gli ridevo in faccia, di nascosto, evitando che i miei compagni se ne accorgessero. Quei farabutti, anche se non lo dicevano, sono sicuro che la pensavano come me, via dalle palle!
Barca dopo barca, di giorno e di notte, qualcuno cadeva in mare, qualcuno si aggrappava a me e mi chiedeva aiuto … Io, bastardo com’ero, avrei voluto lasciarne cadere almeno un paio. Mi trattenni perché vidi una mamma lanciarmi il suo bimbo arrotolato come una palla di cotone. Mi spaventai, i suoi gridi mi fecero reagire quando sentii la palla schiacciata sul mio volto, mentre alzavo le mani e le mie gambe lottavano contro la forza del mare per evitare che portasse via anche me.
Indurito, scendevo lentamente, senza muovermi, con le braccia alzate e le gambe deboli, mentre guardavo le bolle d’aria che uscivano dalla mia bocca e dal mio naso. Sentivo l’acqua fredda, il rumore e la pressione che man mano aumentava mentre io ero incapace di muovermi.
Sono affogato.
– No caro, mi è costato un po’ però sono riuscita a tirarti fuori per i capelli. Se te ne mancano sai che sono finiti in mare. Grazie per aver salvata mia figlia. Senza di te lei sarebbe finita in mare. La barca è affondata e io sono rimasta bloccata da quelli che non sapevano nuotare. Ho visto da lontano che la mia bimba era in terra e poi non ci ho capito più niente. Quando eravamo tutti in acqua, ho spinto qualcuno con i miei piedi, mi sono girata a guardare e ti ho preso per i capelli. Non sapevo che eri tu che avevi afferrato la mia piccola, me l’hanno detto dopo. –
Era una donna tedesca che scappava dalla Libia dopo che il marito era stato ferito a morte dagli uomini di Gheddafi. Si era sposata con un arabo e non era riuscita a fuggire in aereo, via terra era impossibile muoversi e così aveva deciso di partire insieme ai clandestini. Aveva la testa coperta come le donne arabe, e i suoi occhi neri emergevano dalla pelle bianchissima.
– Mi stai prendendo in giro, – riuscii ad aprire bocca senza muovermi, sdraiato s’un tavolo di legno molto duro che mi faceva male alla schiena. – In giro? Ne ho abbastanza di storie, io so solo che mia figlia sta bene, tu stai bene, e che tra po’ me ne vado a casa, ho telefonato ai miei genitori, loro arrivano domani e ce ne andiamo. Non mi ero sentita così male in tutta la mia vita. Mi sembra assurdo, ma era vero, tutto è stato vero. Le bombe, le case delle mie vicine distrutte, le famiglie disperse, i figli e mariti spariti, altri morti.– Sentii una goccia umida sul mio orecchio, un’altra sul collo. Spostai la testa per guardarla meglio. Non può essere tedesca.
– Soldato! Può andare, lei sta bene, abbiamo bisogno dei letti per gli altri feriti. Mi raccomando non faccia l’eroe! – Scossi un po’ la testa mentre mi sedevo per capire meglio, il dottore passò come un treno dando i suoi ordini senza neanche guardarmi. La ragazza senza capelli, più bassa di prima, e meno tedesca, mi disse addio.
Partii quasi subito insieme ai turisti illegali in crociera. Era la prima volta che mettevo piede su una barca del genere. Mi sentivo in un film, e facevo la figura del coglione. Mi limitai a seguire gli ordini. In Italia trovammo un grande ricevimento, gruppi di persone con dei cartelloni: “Andate via!, noi non vi vogliamo!, rimanete pure a casa che state meglio!” qualcuno che gridava in mezzo alla folla: “dobbiamo armarci di mitra per proteggere le nostre terre?” Che cazzo! non ero io l’unico imbecille.
Il mio nuovo compito era recintare una distesa deserta vicino al centro di accoglienza, dove avremmo disposto le tende per alloggiare i nuovi arrivati. Un po’ di filo spinato e alcune mine antiuomo potrebbero servire per allestire un vero campo di concentramento.
Dopo tre giorni ero lì che guardavo le file lunghissime muoversi lentamente. Le tende bianche semi-sferiche accantonate in una distesa quasi infinita mi spaventavano. Il cielo grigio e malinconico come chi non capisce cosa vuole, mi sfidava. Siamo in Italia, siamo sepolti da spazzatura, da mafiosi, da corrotti, ci manca il lavoro, ci sentiamo traditi. – Già, fa male – mi girai d’un tratto per capire chi fosse stato. Non c’era nessuno.
Quando finivamo i turni di guardia a mezzanotte, alcuni di noi rimanevamo in cerchio a fumare, a pisciare assieme, alcuni raccontavano le storie dei migranti più disperate che avevo mai sentito. Mi sentivo un imbecille fortunato dopotutto. Scherzavamo sulla furbizia dei nostri politici che davano ai migranti un permesso di soggiorno temporaneo per aiutarli ad arrivare in Francia. Ridevamo dei francesi e dell’Europa, che ci avevano girato le spalle nel gestire l’emergenza.
Quella notte chiara di primavera, mi si avvicinò un uomo nero, con due buchi come pupille, zoppicava e si piegava dal dolore, mostrava rammarico. Anche se sembrava rompersi, io non tentai di muovermi, fu lui a raggiungermi, mi fece vedere le sue ferite lacerate che io fingevo di guardare. Vidi, nei suoi occhi globosi, insoddisfazione e angoscia repressa che cercavano di mostrarsi a me, la confusione circondante avvolgeva le sue parole di sfumature strane che io non volevo capire. Doveva fuggire, voleva arrivare ad un posto dove gridare la verità fosse un atto liberatorio per il suo popolo, per i suoi fratelli. Non riuscivo a sentirlo più, la sua voce allontanata era diventata più incomprensibile, irraggiungibile come i miei pensieri. Il mio cinismo mi fece stordire ancora di più, il desiderio di una schifosa sigaretta mi fece girare indietro, afferrai il fucile, e mi allontanai lentamente guardando le ombre scivolare silenziose nell’oscurità.
– Un terzo degli immigrati è già scappato dal campo: Il sindacato dei poliziotti: «Manca una corretta gestione della sicurezza, ci sono solo 65 addetti» – Leggevo nei giornali mentre bevevo il caffè l’ultima mattina di quella maledetta missione, non potei fare a meno di sentire alla radio qualcuno, non avevo capito chi, perché notai che il cameriere dissimulava l’interesse che gli generava quel discorso: “… dubitiamo che gli attuali governanti, come oggi dimostrano le sparate dei rappresentanti del governo, riescano ad occuparsi di immigrazione senza considerare esclusivamente il vantaggio della propria parte politica, favorendo populismo e xenofobia che finiranno per distruggere, oltre alle prospettive di futuro dei migranti, quel poco che rimane della coesione sociale del nostro paese.”
– Fa male, ah!. Nemmeno noi stiamo bene – Mi girai esasperato, non trovai nessuno.
È passato molto tempo da allora, ma le cose sono rimaste esattamente uguali.
Rosa Manrique
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