Lemon Tree – Selena Tedeschi

Lemon tree

di Selena Tedeschi

 

Questa storia finisce con un pianto e con una canzone.

L’autrice dedica questa sua prima riga ai lettori più impazienti. A quelli abituati a sbirciare di sottecchi le ultime pagine di un libro ancor prima di iniziarlo (e abituati a non ammettere il loro vizio segreto, forse perché, oltretutto, abituati al rischio di poter esser rimproverati per questo).

Certo è un finale poco eclatante, e lo sa, come la canzone del resto. Che parla di un albero di limoni gialli, e di un uomo che lo guarda  attende e si annoia, gira intorno si rigira, vorrebbe uscire ma non può.

Sorte e storia hanno molte lettere in comune, forse perché la prima con la seconda spesso ha molto a che fare. Infatti (ed è strana la sorte, si sa) si dà il caso che la storia della canzone sia anche quella della protagonista, ovvero la mia, perché è come quell’uomo che mi sono sentita, almeno fino al momento in cui di quel motivetto ho udito la prima nota. Poi tutto è cambiato, ma di questo, per volere dell’autrice, non vi parlerò. Credo sia un’altra storia.

L’ uomo osservava un albero di limoni, e anche io ho vinto la noia dell’attesa affinando i sensi, cercando di percepire i più sottili particolari di me e dello strano spazio che sta intorno, da cui tutto mi è giunto come un impasto smorzato di suoni, voci, atmosfere di macchie e sogni.

È in quel tempo che ho conosciuto Anna. Credo che a volte sia felice. Corre spesso lungo la riva di un mare, io intanto immagino di sentire la spuma densa e frizzante, intrisa di ghiaia, sotto i suoi piedi, il gusto di gocce salmastre sulle labbra screpolate e socchiuse, il suo fiato corto al ritmo delle onde. Sorrido.

La sento leggere ad alta voce, per ricordare meglio quanto zucchero ci vuole nell’impasto, poi succede che ne mette sempre un po’ di più, forse per far felice Andrea, che alle quattro esce da scuola e va pazzo per i suoi biscotti. Lo capisco, piacciono anche a me.

Quando lei suona mi succede sempre di sentirmi bene, tanto bene da aver voglia di piangere.  Le note, in un intercalare dolce poi grave, sembrano raggiungermi da un luogo infinito – privo di forme, un luogo assai più remoto delle corde da cui provengono- per poi rimbalzarmi attorno. I miei pensieri, ancora labili come polvere al vento, mi portano a credere che quel violino sia davvero solo uno strumento, tramite cui si manifesta, librandosi nell’aria e appoggiandosi sulla pelle, qualcosa che è molto di più: qualcosa che è l’essenza della vita. Ma sono momenti, sono sensazioni che non ho ancora la facoltà di poter spiegare, nemmeno a me stessa.

Così come non riesco a spiegarmi Andrea.

Colleziona centinaia di barche, so che aspetta il momento giusto per liberarle in mare, salpare a bordo della più robusta e portare via Anna con sé. Glielo dice spesso. Credo sia una specie di pirata. Un giorno ho sentito il suo amico Pietro urlargli contro che altro che barche, quelli erano solo gusci di noce e che se voleva poteva al massimo trasportarci un quarto di biscotto per una mini crociera nella vasca da bagno. Da un po’ Pietro qui in casa non si vede più.

(E comunque io credo a Andrea)

A volte è strano, piange spesso, ed è frustrante per me non riuscire a capire il perché.

Forse è per via di quei giorni.

Quelli in cui non sento il solito ticchettio legnoso di barche tra le sue dita, le sue parole che sanno di favola e che intrecciano fantastiche ( Anna le definisce improbabili) imprese di eroici pirati contro mostri dalla testa di coccodrillo, con denti aguzzi e armati di spada laser.

Quelli in cui sento suoni sordi, colpi stonati sul corpo che nulla possiedono della dolcezza di una nota, poi un singhiozzo, risposta muta di Andrea a una voce ruvida che non conosco. Voglio tapparmi le orecchie, come fa lui.

Voce impastata che biascica qualcosa, non sono l’unica a non capire le sue  parole … o loro non le vogliono capire, poco cambia.

Porte che sbattono, la voce si smorza, si perde nello spazio di quattro mura lasciandosi dietro una bava di disgusto e di disperazione che ti si appiccica addosso.  Andrea che si avvinghia a me – lo posso sentire, sento il suo respiro prima irregolare poi sempre più lento, al ritmo del mio – so che ha paura. So che Anna ha paura.

Poi lui raccoglie quello che resta delle sue barche, alcune sono a pezzi, non c’è nulla da fare, le spade laser hanno vinto, i mostri hanno vinto. Del resto ne serve una, solo una per salpare al largo insieme con lei. Ma credo che in quei momenti anche Andrea ci veda davvero soltanto dei miseri, inutili gusci di noce.

Anna un giorno gli ha detto che era finita, se ne sarebbero andati.

Basta cucire bottoni addosso alle camicie per  otto ore al giorno, avrebbe suonato il suo violino e sarebbe stata amata per questo. Tremava, sapevo che in quel momento gli occhi le brillavano come non mai. Parlava di un posto strepitoso, dove avrebbero passeggiato mano nella mano per grandi viali, assaggiato il pane e i dolci più buoni del mondo (più buoni dei tuoi biscotti?? aveva chiesto incredulo lui )visto quadri meravigliosi e una enorme piramide tutta di ferro … il nome di quel luogo non lo ricordo, ma un giorno vorrei davvero  trovarlo e vivere lì. Andrea era felice, lo sentivo ridere. Sembrava proprio il suo sogno, quello che faceva da tanto tempo. No niente barca aveva detto Anna, si usava un aereo, ma che importa.

Valigie gonfie, due biglietti sul comodino della stanza da letto.

Poi era arrivata quella telefonata. Era notte fonda,dormivamo tutti.

Era corsa ad alzare la cornetta, poi il silenzio, non so per quanto tempo. Prima un sussulto, poi qualche singhiozzo soffocato con la mano (Andrea non doveva svegliarsi, non doveva vederla così) e infine il pianto, la testa affondata nel cuscino.

Non si partiva più.

Non ho mai potuto chiederle chi fosse stato quella notte dall’ altro capo del filo a terrorizzarla così tanto, ma l’ho sempre saputo.

Quando Anna non piange insieme a Andrea, quando non corre lungo il mare sperando che l’aria fatta di sale sciolga il bozzolo di  dolore che la attanaglia, mi parla.

Mi dice che la sua pancia è ormai un grande limone e che anche la vita è un limone.

Piacevole al tatto, appetitoso il profumo, il suo colore ci illumina gli occhi: poi la mordi e a volte è aspra, acida addirittura. Ma va colta e assaporata fino in fondo.

Che vuoi farci Alice, è la vita.

 

I’m sitting here in a boring room

It’s just another rainy Sunday afternoon

Di nuovo quella voce ruvida, una bottiglia a pezzi,ma Anna è davanti a Andrea, lo copre con il suo corpo, stavolta non accadrà. Non accadrà. Non accadrà.

I’m wasting my time I got nothing to do

I’m hanging around and I’m waiting for you…

Invece accade che lui le sferra un calcio poi un altro e un altro ancora. Anna urla Andrea urla e allora sferro un calcio anche io,un calcio contro il mondo, più forte di tutti gli altri. Poi il nulla.

But nothing ever happens

And I wonder.

L’ho detto. Questa storia finisce con un pianto e con una canzone.

Quel giorno, 19 marzo 1996,  all’interno della sala operatoria n. 3 di un ospedale triestino, muore mia madre.

Ma all’interno della stessa sala, dalle piccole casse di una radiolina sgangherata escono le note di una  canzone  che parla di un uomo e di un albero di limoni.

I wonder how I wonder why

Yesterday you told me about the blue blue sky

And all that I can see

Non so se quell’uomo stia ancora guardando e attendendo, ma per me è giunta l’ora e non aspetto più: con un forte pianto – per lei per mio fratello per i suoi gusci di noce contro mio padre  contro la vita – sono venuta al mondo.

Is just a yellow lemon tree.

 

 

 

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