Io appartengo ai luoghi o i luoghi appartengono a me? – Ilona Nukševica
Io appartengo ai luoghi o i luoghi appartengono a me?
di Ilona Nukševica
Cos’è quella sostanza invisibile intorno? Cos’è che mi segue ovunque io vada? Come si congiungono quei frammenti del totale a formare una permanente sensazione in-between?
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Il mio primo viaggio all’estero faccio a due anni. Andiamo a trovare dei parenti ucraini con mia nonna. I ricordi si sono mischiati con il sole delle fotografie in bianco e nero ingiallito. Tornando a casa all’aeroporto di Riga, ci viene incontro mia mamma, mi dà una mela. “Почистити! (togliere la buccia)”, rispondo io in chiaro ucraino. “Voi fate come volete, ma io gli parlerò in ucraino,” erano state le parole della mia nonna rivolte al mio papà lettone e mia mamma ucraina, nata in Lettonia.
“Cosa sono tautasdziesmas?” mi chiedo, come non avessi mai sentito a casa nominare i canti popolari lettoni, mentre i miei compagni delle elementari raccontavano delle storie patriottiche, eredità familiare. Un paio d’anni dopo, sarò convinta di non poter vivere mai in un paese straniero, dove i “canti popolari” non saranno mai miei. Ma anche le convinzioni cambiano.
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Nonna è il centro del mondo e la sua casa. Siamo tre nel nostro regno. Io e mia sorella piccola stiamo meglio lì invece che dai genitori, che abitano a distanza di un paio di chilometri, in centro. La casa di nonna è all’entrata del bosco, davanti al prato, dove l’erba d’estate cresce fino alla vita, dove ti bagni tutto, correndo subito dopo la pioggia. L’abbiamo chiamata “Fazsenda”, dopo le telenovelle messicane che erano in moda al tempo.
Abbiamo una capra con tre piccoli capretti, al più piccolo i primi giorni davo il latte dal biberon, perché appena nato era troppo debole. Prima c’era anche una mucca, mi ricordo come l’hanno portata via in un grande camion, perché dopo anni sono tornati i proprietari del prato, dove si pascolava. In Ucraina all’età di dieci anni nonna ha cominciato a fare il pastore per guadagnarsi un po’ da mangiare e da vestirsi. In una famiglia di contadini con dieci figli ognuno doveva fare quel che poteva.
Le galline percorrono il nostro giardino liberamente. Ma in una parte, dietro il recinto, patate e pomodori crescono ogni estate. Che noia però togliere l’erbaccia e annaffiare le piante! Mia sorella è sempre stata più brava, nonna deve ripeterlo mille volte, prima io faccia il lavoro. Mmmm…ma che buone sono le fragole fresche dal nostro giardino, che raccogliamo durante il mese di giugno, anche quando nonna non riesce farlo da sola.
Dobbiamo andare con la capra Marta e i capretti al bosco vicino, perché gli piacciono i cespugli. Quando vado da sola, porto un libro da leggere. Con mia sorella portiamo le carte da gioco, ma una volta Marta ci ha mangiato il dieci di diamanti chissà perché proprio quella.
Stiamo da nonna quasi sempre. Ci sveglia la mattina e ci prepara la colazione prima di andare a scuola. Il sabato è il giorno migliore. Possiamo guardare vecchi cartoni animati tutta la mattina, mentre lei prepara вареники (vareniki) ucraini per il pranzo. Ah, si, prima non avevamo la TV, solo la radio e ogni sera alle nove c’era la fiaba, che ascoltavo attentissima, mia sorella era ancora troppo piccola.
“Nonna, dimmi ancora come vivevi in Ucraina!” I suoi racconti sono pieni di dettagli – come i bambini giocavano con la paglia che era sempre sotto il tavolo per Natale, come ogni famiglia a Pasqua portava il tipico pane –паска (pasqua) alla chiesa per benedirlo: “Una volta c’era questa famiglia che aveva la farina buona per fare la паска bianca e quindi ne hanno portata una fatta da legno. Ma che vergogna, quando l’hanno scoperto…” C’erano delle volte che nonna quasi non aveva da mangiare, ma le sorelle e i fratelli condividevano sempre ogni pezzo di pane. C’erano racconti dei tempi di guerra, quando un fratello, che non hanno preso nell’esercito, è andato nei boschi a combattere con i partigiani per la libertà dell’Ucraina contro i russi. Per questo hanno mandato in Siberia i miei bisnonni con i figli più piccoli. Mia nonna non stava più con loro, quando sono venuti a prenderli in casa.
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Alle superiori non sono più ogni giorno a “Fazsenda” della nonna. Ho tantissime cose da fare e devo conquistare il mondo là fuori. Canto in un coro, vado a dipingere, incontro amici, sono pure redattrice del giornale della scuola! Certo, che torno a casa tardissimo e stanchissima e la casa dei genitori è più vicina al centro, per questo scelgo di stare lì. Ormai non sono più piccola! Comunque i fine settimana o semplicemente i giorni nei quali volevo rilassarmi dallo stress quotidiano, faccio il solito cammino lungo il fiume per raggiungere nonna. Mi aspetta sempre, è a casa o al fienile per dare da mangiare alle galline o mungere la capra. Quando nonna non sta bene, devo mungere io. È il periodo, quando litigo con tutti, soprattutto con mamma. Ma anche con la nonna, solo lei è abbastanza forte e rigorosa da non prendermi sul serio. Mi fido solo di lei.
Per andare all’università ci vogliono quaranta minuti di treno. Sono brava negli studi. Cominciano le feste degli studenti. Mia sorella sta sempre più di me alla Fazsenda. Quando le chiedo della nonna, dice che sta bene, ma mangia troppo poco e alcune volte ha dei problemi con la pressione. Dice spesso che non vuole tenere più la capra, ma quello diceva per scherzo già un paio d’anni fa. Mi chiama sempre.
– “Pronto!”
– “Come stai nonna?”
– “Come un vecchio potrebbe stare. La capra non vuole ascoltarmi più! Quando venite da me? Portate quella carne che mi piace, dal negozio del paese.”
– “Certo nonna, me lo segno. Veniamo nel fine settimana.”
– “Va bene. A dopo allora! Ciao!”
Quel fine settimana parliamo molto. Mi dice che devo studiare bene, devo andare d’accordo con mia sorella ed ascoltare mia madre. Gli dispiace non vedermi finire gli studi, cominciare il lavoro, sposarmi… “Ma certo, che vedrai tutto, nonna!” L’ho sempre saputo, che devo prendere le sue parole sul serio.
Con gli studi e tutto quello che dovevo fare, sono passate due settimane che non sono stata alla Fazsenda. È un po’ strano che nonna ultimamente non abbia chiamato. Quando finalmente sono lì, la vedo sdraiata sul letto. È la sua voce che sento, le parole non sono sue. C’è qualcun altro in camera e lei lo vede.
“Ma che successo? Perché non mi avete detto niente?” mi rivolgo a mia sorella e anche a mio padre, che erano lì in quel momento. Come mai dice delle cose insensate, se poco prima una mente chiarissima all’età di ottanta quattro anni? Ma è davvero lei, la nonna con cui condividevo tutto? Ma è verità o un brutto sogno e mi sveglierò domani?
Alla sera papà deve andare a casa da mamma in centro, io e mia sorella rimaniamo a dormire con nonna. Più tardi lei sta peggio e io non so cosa fare. Chiamo la casa dei miei genitori, urlo al telefono: “Venite qui! Sta davvero male!” Cercano di tranquillizzarmi, ma nessuno viene. Ci calmiamo in tre, prendiamo la medicina e andiamo a dormire.
Ci lascia di notte. Mattino. Telefono. Vengono papà e zia. Casino. La signora delle onoranze funebri. Dettagli. Domande. La portano via. Sua figlia (mia madre) non è venuta.
Alla fine sono andati via tutti. Io voglio rimanere. Devo prendermi cura delle galline e della capra. Mi siedo sulla soglia di casa e Marta mi ascolta. Solo ora posso piangere, urlare, lamentarmi… È colpa mia, perché due settimane non sono venuta a trovarla, perché ritenevo gli studi più importanti di tutto. Ma che egoista che sono! Non ho mai davvero apprezzato tutto quello che mi ha dato mia nonna. Marta sta zitta e mi guarda negli occhi. Mi capisce. Anche lei sa che donna forte e indipendente era nonna. Come è arrivata dall’Ucraina con il marito e un figlio a cominciare tutto da zero, come ha lavorato, come ha mandato i figli a scuola, come ha sempre tenuto nel cuore la sua storia ucraina, come l’ha trasmessa pure alle sue nipoti. Mi metto la piccola croce che mi ha dato già da un po’, ma che non volevo mettermi. È dall’Ucraina, ora non la tolgo.
Io rimango qui. La sento, è ancora qui. È sempre seduta al suo solito posto sul divano. Ha quel vestito verde che metteva sempre. Una donna robusta con i cappelli corti, sempre più bianchi e gli occhi troppo profondi. Ora vado con la capra al bosco. “Torniamo fra due ore, va bene, nonna? Ciao nonna! A dopo.”
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“Lascia passare la cugina di Cristina,” dice una ragazza all’altra, quando scendiamo dal treno a Lviv in tarda domenica sera. Capisco, che loro parlano di me, che in questo incontro, immaginato in mille variazioni molti anni prima, ho recuperato la mia famiglia ucraina. Il luogo che ha riuscito di richiamarmi.
Ho una pesante borsa, piena dei prodotti buonissimi dalla campagna. C’è latte vero, appena munto, formaggio e pure вареники. Ho voglia di assomigliare a loro – le ragazze dal paesino nei Carpati, che insieme a me hanno superato quel percorso di tre ore in un treno affollato e lentissimo.
Sto tornando dal Golovetsko. Quel nome è con me dall’infanzia – dai racconti di nonna e buste di lettere con francobolli stranieri. “È già arrivata la lettera? E dalla alla mamma che la legge!” diceva nonna ogni volta, quando non voleva sforzarsi di leggere con gli occhiali. E noi, io e mia sorella ascoltiamo attente. Sì, davvero a Golvoetsko c’è un’unica strada centrale con le case bianco-azzurre dai due lati, e i vicini ancora lasciano le mucche insieme e le pascolano a turno. Ogni cortile ha delle oche da guardia, i tacchini camminano liberamente, ma di sera trovano sempre le proprie case.
I nomi delle persone che ho letto finora solo nelle lettere o sentivo per caso, in questo in questo giardino sotto la montagna, acquistano i propri volti. Mi salutano con mille baci e non lasciano dagli abbracci, non riescono a credere che è arrivata la loro parente dalla Lettonia. La domanda obbligatoria è: “Come sta tua mamma?” Qui la ricordano come una bambina.
– “Come sta zia e i suoi figli? E in generale come state in Lettonia?”
– “Stiamo bene, siamo entrati in Europa. Noi possiamo venire a trovarvi, ma voi da noi, no.”
Vigorosa donna di campagna, la cugina di mia mamma sta in mezzo ai tacchini ed è siccura che ancora si ricorda la strada dalla stazione per andare a casa nostra in Lettonia e ripete le parole lettoni che ha imparato. Io sento di appartenere a questo posto. Sì, sono cresciuta qui, solo che non ci sono mai stata.
“Che brava che parli la nostra lingua!”
“Mi ha insegnato la nonna…”
Devo per forza andare a trovare altri parenti nel paese. Le loro case sono piccole, non hanno più di due stanze e la cucina a parte. C’è sempre vita in casa, bambini piccoli, genitori, nonni, zii… Tutti insieme. Ogni famiglia ha una mucca o due, una maiale, le galline non contano.
Mangio вареники e osservo la stanza con una grande stufa in un angolo e il tavolo nell’altro, in mezzo alle finestre. Ma è possibile che questa sia la casa, dove è nata mia nonna, dove giocava quando era piccola, festeggiava Pasqua e Natale, dormiva d’inverno sulla stufa con le sorelle? A volte in quella camera dormivano tre adulti e dieci bambini…
Domenica mattina. Andiamo in chiesa, la stessa dove nonna portava паска e dove è stata battezzata. Dietro la chiesa è seppellita la mia bisnonna, una sorella e un fratello di mia nonna. È una semplice chiesa greco-cattolica, tutta fatta di legno e le icone sono decorate con i tipici ricami ucraini. Un prete giovane dice la Messa. E anch’io sono qui. E anch’io so recitare padrenostro in ucraino.
Una delle mie cugine ucraine è in terza elementare. Mi porta a vedere i prati in montagna, il sentiero alla sorgente dell’acqua. “Vuoi che ti faccia vedere dove andiamo a raccogliere i frutti di bosco?” mi dice e continua a elencare i nomi delle piante in dialetto, nomi familiari a me. Mia nonna non ha finito la terza elementare perché doveva andare a pascolare le mucche e non aveva le scarpe buone. Lei seguiva le mucche qui, su questa montagna, su questo prato. E ora ne sono sicura che ha camminato proprio qui. E ora lo so, che lei è proprio qui, affianco a me.
Ilona Nukševica
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