I fiori dell’aria – Patricia Quezada

 I FIORI DELL’ ARIA
 di Patricia  Quezada

   In piedi, sul palco di legno che aveva aiutato a montare quella mattina, Ben esultava. La luminosità del  cielo tagliava come una lama, la cupola finiva brusca in angoli retti, ricamati  di tegole. Il mormorio discontinuo della folla gli arrivava a ondate, lasciandogli un sapore salato, di  mare, sulla lingua.
  Alzò lo sguardo, quelle persone, migliaia, erano lì, aspettavano le sue parole. Ben inspirò profondamente. Valutava la situazione, non era più a calpestare la sabbia a piedi nudi, non era più un nessuno, impaurito e lurido,  accovacciato nel buio ventre d’una nave, insieme ad altri sventurati. Era lì, eretto, nel mezzo della piazza e doveva parlare. 
   Doveva parlare, e dalla sua bocca sarebbero dovute fluire parole di lotta, di speranza, di rivendicazioni. Lo aveva già fatto tante altre volte, era una sua dote naturale che aveva saputo sfruttare. La sua voce profonda acquisiva una vita propria, e si rovesciava sulla gente, sovrastando e rapinandone i desideri, in un crescendo di eccitazione che scandiva con il battere deciso dei piedi e la gestualità d’un attore. Si dimenava come in sorda lotta contro un nemico invisibile mentre la sua voce elencava una lunga serie di diritti stracciati e di ingiustizie ripetute. Ad un tratto si fermava, muto e immobile. La moltitudine tratteneva il fiato, aspettava l’esplosione finale, la  frase trionfale che avrebbe regalato  loro un valido motivo di euforia collettiva, che li avrebbe fatto sentire appagati, complici, per un momento, meno soli.
 Ben sapeva arrivare all’anima della gente, conosceva il suo potere, mille volte aveva provato davanti allo specchio ogni gesto, in solitudine aveva sorriso soddisfatto a sé stesso, prima di lasciarsi cadere singhiozzando a terra.

  La notte prima Ben, sdraiato sul letto, aveva lasciato vagare lo sguardo tra le lunghe foglie verdi che penzolavano dagli scaffali, lanciandosi nel vuoto, alla ricerca della luce della finestra lontana. Lei, la donna-fiore dell’aria,  aveva creato una specie di giardini pensili di Babilonia in miniatura. Il rosso profondo dei muri sembrava emanare caldo. Ben sentì un rivolo di sudore scendere dalla fronte per poi perdersi dentro la fronda scapigliata e fulva della sua amante. Lei si scosse ridendo.
Avevano appena fatto l’amore.
Ad un tratto lei disse:  “Raccontami una favola africana”,  mentre gli disegnava con un dito affusolato e bianco segni segreti sulla pelle.
Seguì un silenzio, poi lui rispose: “ Una volta c’erano due fratelli, uno saggio e uno stolto… “
 Le raccontò del cucchiaio magico, unico bene d’una famiglia poverissima, che veniva tramandato di generazione in generazione dall’inizio dei tempi. Le raccontò della foresta ingannevole e del vecchio stregone, delle tre uova e del lago Bianco. Lei ascoltava in silenzio, ogni tanto la sentiva sussultare, a volte il respiro diventava più corto, intanto il suo dito continuava a disegnare ghirigori sul suo petto.
  Ad un tratto Ben si accorse che era ansioso di arrivare alla fine del racconto, ma allo stesso tempo lo allungava aggiungendo dettagli che non erano mai esistiti soltanto per prolungare il godimento. Il corpo di lei si abbandonava docile al ritmo della favola, vulnerabile e arresa, ormai soggiogata dalla sua voce.  Non si accorse quando il bisbiglio di Ben iniziò a contorcersi, a trasformasi in un tono monocorde, quasi una litania, a volte tagliente, a volte rauca, non si accorse  quando un filo di crudeltà si insinuò tra le parole e gli occhi di lui iniziarono a socchiudersi minacciosi e sadici osservando ogni sua reazione. Sapeva che la donna-fiore si era affezionata ai due fratellini, aveva festeggiato con commenti e sorrisi la buona riuscita del fratello bravo,  e aspettava con indulgente ansia una simile fine per il fratello maldestro ed egoista, dopo tutto era una favola, per questo, quando arrivò la fine, non era pronta.

   Il grande uccello portò al centro del villaggio, come monito,  il cuore strappato dal petto del ragazzo stolto, fatto a pezzi e divorato degli animali in riva al lago.   La donna-fiore trasalì, grosse lacrime le scivolarono sulle guance. Pulendosi il naso con il dorso della mano disse: “Forse non era necessario che il ragazzo morisse per imparare la lezione”.
  “No, disse la voce fredda di Ben nella penombra, lui non doveva imparare la lezione ma gli altri, sì”.
   Le favole africane sono crudeli e impietose, come d’altronde lo è la vita, chi non è preparato muore.
  Mentre si vestiva, Ben  guardò la donna-fiore dell’aria, nuda, pallida, piangente. Si accorse di non provare per lei neanche un briciolo di tenerezza. Non avevano nulla in comune, lei era soltanto uno dei tanti fiori dell’aria in cerca di un approdo, pezzi di vita che svolazzavano, che allungavano le misere radici aeree cercando la sicurezza d’un tronco vero, vivo. Di una corteccia accogliente e generosa che permettesse  loro di inserire le estremità esauste e succhiare una linfa che non gli apparteneva, una linfa che aveva il sapore amaro della carità. Non sentì più desiderio di lei, soltanto un incommensurabile vuoto.
 Si sentiva ancora vuoto, lì sul palco, mentre guardava con distacco tutte quelle  persone di fronte a lui. Un sorriso bieco si disegnò sulla sua  faccia,”Ma che cosa vi aspettate da me – pensava- siete dei parassiti,  dei poveri fessi”. “Volete che continui ad alimentare le vostre illusioni? Ok, lo farò, altrimenti voi crepate, neri e contorti  come carta  bruciata, altrimenti voi rischierete di capire finalmente  che siete nulla, solo… nulla.”
 Era immerso in questi pensieri quando in fondo alla piazza, proprio all’angolo, apparve, preceduta da urla di paura, una figura nera, demoniaca, tutta schiuma bianca e sangue, che agitava spaurita la lunga criniera, e scalciava, madida di sudore. Un cavallo ferito, impazzito di dolore si apriva un varco tra la gente, che disperata, scappava schiacciandosi gli uni contro gli altri e urlando senza controllo.
 Ben saltò giù dalla piattaforma, fissando la bestia. Osservò il fianco deturpato dell’animale. Una lunga bocca rossa, come una smorfia lucida si distingueva chiaramente. Il cavallo nero scalpitò colpendo le pietre del pavimento con un rumore metallico. Iniziò a girare  su se stesso, impazzito di dolore e di paura. Il morbido muso schiumante, il fiato corto, gli occhi, neri, umidi, ricercando in vano una via d’uscita.
 Ben non dubitò un secondo, il  sangue gli pulsava veloce nelle tempie mentre si avvicinava lentamente all’animale.
 
  La sua  donna-fiore  un  giorno gli aveva detto con la sua voce tenue e accomodante:” Devi adattarti, altrimenti qui non attecchirai, non potrai fare radici!”. L’aveva fissata torvo, proprio come il cavallo fissava adesso lui.
 “Hai ragione”, le aveva detto, “ma io non ce la faccio,
non mi sento affatto come quei fiori dell’aria che spuntano dalle tue parti, che si aggrappano alla prima pianta che gli capita, che si accontentano di sopravvivere, io non ci riesco. Non mi basta, non mi riconosco, qui non sono io, sono solo una pelle vuota di serpente o un guscio di cicala, qui sono solo un riflesso, un riflesso…”.
 
 “Shsssssss… – disse Ben in un bisbiglio- Calma, amico, shsssssss” Allungò la mano piano verso il muso fremente dell’animale, il palmo verso l’alto, come gli aveva insegnato Jeffry, il palmo verso l’alto…
 
 “Gira la mano, metti il palmo verso l’alto, così non lo spaventi! E tienilo sempre più in basso della sua testa, lasciati annusare prima di toccarlo. Devi guadagnarti la sua fiducia”; così diceva Jeffry, mentre gli faceva vedere orgoglioso i cavalli ai quali doveva badare. Ben ammirava suo fratello, sembrava avere sempre tutte le risposte. Sebbene  sette anni di differenza non fossero tanti, per il piccolo Benjamin, Jeffry era la figura più simile a un padre che avesse mai avuto. A quei tempi, Jeffry era felice d ‘avere trovato questo lavoro a casa di madame Landau, quella era una brava donna, amava i cavalli berberi e non aveva paura dei soldati. Diceva che non si sarebbero mai azzardati  ad attaccare la sua tenuta e men che meno aggredire una vecchia signora come lei che non aveva mai fatto danno a nessuno, anzi, che sempre era stata molto generosa, e che non  sarebbe mai andata  via da quel luogo, cosi diceva. “Mio padre e mia madre sono sepolti in questa terra, e il fiume Ubangi  mi ha vista nascere! Nessun ragazzaccio mi obbligherà mai a lasciare la mia terra!” Jeffry rideva con la sua risata contagiosa e bisbigliava all’orecchio del fratellino: “Questa vecchia, piccolo Ben, è un po’ pazza, ma è buona gente”, e Ben assentiva felice, con la bocca piena di dolce polpa di mango.

La piazza sembrava immobile, detenuta nel tempo, un manto di silenzio avvolgeva la folla. Ben accostò la sua testa a quella superba del animale e con una voce nuova, mesta, nuda di paure, narrò al cavallo la sua storia.

 “La foresta, allora, ci accoglieva, era la  nostra casa.
Ogni giorno andavo con Jeffry alla tenuta di Madame Landau, erano giorni radiosi per lui, amavo Jeffry; non soltanto  amavo lui in questo modo, a quei giorni amavo anche Florence. Ma lei adorava solo Jeffry, viveva per i suoi occhi, tratteneva il fiato ogni volta che lo sentiva arrivare. Si faceva in quattro per renderlo felice, che poi non è che ci volesse tanto per riuscirci. Mio fratello
era una forza. Ogni cosa che faceva, la faceva con  l’anima. Si svegliava ogni giorno che era già una gioia, nulla riusciva a rattristarlo. Per questo Florence lo amava, aveva iniziato ad amarlo ancora prima che fosse concepito. Lo aveva immaginato quando era ancora bambina. Florence era una brava infermiera, aveva imparato tutto dalle suore, ed era diventata indispensabile nel povero ambulatorio con pretese di ospedale del villaggio.
Florence ancora credeva che sarebbe stato possibile un futuro. Lei era una donna generosa in tutti gli aspetti, i suoi vestiti avevano sempre  grandi fiori di colori sgargianti, degli orecchini di conchiglie e di semi che danzavano avanti e indietro quando camminava, ma la cosa che più mi meravigliava era che sembrava leggera, leggera e veloce. Malgrado la sua mole era capace di combinare mille cose simultaneamente.
  Io, da piccolo,  mi aggrappavo al suo collo grosso e da lassù, il mondo mi sembrava meno pauroso. Florence era anche mia madre.
  Ma i soldati arrivarono, e fecero piazza pulita con tutti, e il fiume Ubangi, che scendeva fino alle trentadue cascate chiamate di Livingstone, portò a quei tempi tanti corpi giù dalle cascate, fino a Kwa Kasai, e qualcuno arrivò perfino alle rive di Kinshasa. Tra quelle migliaia di corpi, c’era anche quello di Jeffry.
 Allora Florence andò fino alla riva del fiume, si tolse con cura il suo bel vestito verde, con fiori di girasole giallo splendente, lo piegò per bene e lo lasciò sopra una roccia, poi si tolse gli orecchini, quelli a forma di mezzaluna verde smeraldo e si addentrò nel fiume piano, e con l’anima che scalpitava dalla voglia di raggiungere Jeffry, si lasciò morire. Io la vidi farlo ma non feci nulla. Ormai lei non era più con me. Sulla riva i cavalli lasciati a sé stessi nitrivano dalla fame e qualcuno era ferito per via dei coccodrilli. Uno si avvicinò a me e io gli accarezzai il muso morbido.
Nella piazza di pietra, Ben disse al cavallo nero, sgranando con piacere i suoni antichi della sua vera lingua: “Lo sai perché non feci niente, amico mio?”
 “Prima di dormire, Florence, mi leggeva un brano della Bibbia. Il mio preferito era Corinzi 13, parlava dell’amore, ed era bello, ma c’era una parte del brano che mi creava una specie di aspettativa, di desiderio, diceva “adesso vedo le cose da bambino, penso da bambino, ma quando sarò uomo vedrò le cose da uomo” e poi diceva quella cosa degli specchi, “Adesso vediamo le cose come in uno specchio, in modo oscuro, ma poi le vedremo faccia a faccia”, diceva “Adesso vediamo in parte ma allora conosceremo pienamente”.
  Tutte le volte alla fine del brano io, guardando la sua serena faccia tonda, le chiedevo: “Quando sarà allora?”. E lei con un sorriso un po’ incerto mi diceva ogni volta,”Quando sarai un uomo”.
  Quando lei annegò nel fiume, io non la seguii
soltanto perché volevo arrivare a diventare un uomo, volevo capire, volevo “conoscere pienamente”, ma questo specchio continua ad essere profondamente oscuro.”
 
  Quando Ben accarezzò il cavallo, sentì sotto la pelle umida un fremito. Si guardò intorno, vicino a lui localizzò la donna-fiore. Aveva la faccia corrucciata, attorno a lei altre donne e uomini fiori dell’aria avevano iniziato a tirare fuori i “ganci” che hanno al posto delle radici.
  Ben sapeva  il nome in latino del fiore – o garofano – dell’aria: Tillandsias. E’ una pianta  originaria del Sud America, un giorno glielo aveva raccontato la sua donna latina mentre gli stringeva alcuni ganci lucenti attorno al  corpo. Lei gli aveva anche detto che i fiori dell’aria si nutrono tramite squame che ricoprono la base dei loro corpi, che trattengono gli alimenti e l’acqua e che non hanno radici ma una serie di “ganci” con i quali si fissano a qualsiasi supporto vegetale o minerale che gli capiti vicino; a volte quando si aggrappano a una roccia,  riescono a sopravvivere prendendo dall’aria il nutrimento. Riescono a fiorire anche in ambienti molto ostili, ma poi muoiono.
E’ quasi un miracolo la loro esistenza. Malgrado la loro disgraziata vita si riproducono ed è possibile ritrovare i loro figlioletti scavando sotto la roccia. I fiori dell’aria sono stoici, si intestardiscono in vivere ad ogni costo.
La sua donna-fiore  dell’aria, in mezzo della piazza,
adesso piangeva. Piangeva lucide lacrime bene adattate.
  Ben capì la situazione, intuì il proprio destino: lui non era munito né di squame né di ganci, non era più capace di vivere dentro quella vecchia pelle di serpente stropicciata, non poteva più nascondersi sotto terra, nel guscio vuoto d’una cicala.
  Sentiva sotto i piedi, sotto il selciato, e ancora più sotto, il fluire dell’acqua. Sapeva che c’era un fiume nascosto, una scappatoia.
  Alcuni carabinieri si stavano avvicinando, certe bandiere iniziavano timidamente a ondeggiare, i cartelloni giacevano calpestati dai piedi e trafitti dai ganci d’inserimento nel tessuto sociale ben riusciti.
  Distinse, tra la folla, qualcuno non munito né di ganci né di squame anche lui, che l’osservava guardingo.  Non sentì la minima solidarietà.
  Il cavallo era fermo ma tremava, aspettava. Qualche giubbotto arancione del 118 accennò  ad avvicinarsi, e fu questo il segnale. Ben si aggrappò alla criniera aspra dell’animale e si tirò su con un salto, montandolo.
  Il cavallo berbero sobbalzò sulle sottili caviglie posteriori, alzò le zampe nitrendo e scalciando, ondulò la testa in un ultimo cenno di ribellione e poi partì al galoppo, martellando  con un suono ritmico il selciato della strada Maggiore, alla volta del fiume Ubangi, mangiatore di uomini, affluente del grande Congo, padre dei fiumi.
 
 
 

 

 
 

 

 

 

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