Witch Hazel – Caterina Cecconi

Witch Hazel

di Caterina Cecconi

A Natale la città si svuotava di studenti e se t’azzardavi a uscire la sera gli unici che potevi incontrare erano i chavs. Nell’appartamentino di Mayfields Road eravamo rimasti solo io, Liza e Massoud.
Non vedevo l’ora che fosse il 23 per tornare in vacanza in Italia, dalla mamma, dal papà e dal pandoro con lo zabaione. Liza non sarebbe partita perché il biglietto per la Cina era troppo costoso e Massoud m’aveva detto che quell’anno a Teheran era meglio se non ci tornava.
Rientravo dal campus e la strada piatta e vuota faceva scivolare più velocemente i passi. Camminavo in fretta per il freddo e per evitare gli unici esseri deambulanti sopravvissuta alla moria natalizia. Chavs: il disagio sociale negli anni duemila aveva deciso di andarsene in giro sotto forma di assembramenti di adolescenti bianchi vestiti da rappers neri e dotati di una precisa consapevolezza delle cause dei loro mali: gli studenti -stronzi col privilegio di un’istruzione- e gli immigrati -che avevano fregato il lavoro al loro babbo-. Rientrando all’interno di entrambe le categorie preferivo stargli ben distante.
Questo lo dico perché sto cercando di ricostruire come ci siamo ritrovati in una situazione del genere e che cosa sia scattato nella mente di noi tre, o meglio, noi quattro contando anche Riccardo. Per quanto ripensi ai fatti di quella serata pre-natalizia c’è sempre qualcosa che non riesco a inquadrare, un elemento irrazionale, come se una sorta di membrana di diffidenza si fosse frapposta fra noi e l’ambiente circostante, impermeabilizzando i rapporti.
Potrei elencare alcuni fatti che ci avevano allertato, indizi di quello che sarebbe successo: un po’ di tempo prima Liza era stata inseguita e spinta a terra da un banco di chavs che le avevano suggerito di tornarsene al suo paese, molti negozi erano stati chiusi per la recessione e nessuno aveva riaffittato i locali, mentre nel ristorante in cui lavoravo come cameriera part-time uno dei clienti mi aveva chiesto se fosse possibile essere servito da personale non straniero, poi un ubriaco al volante era entrato nel giardino del vicino. Venendo a casa avevamo visto due ambulanze e la sua auto lì, con le ruote anteriori sopra le macerie e il muso accartocciato, impennata in una posa che parodiava quella delle macchine nei concessionari.
Scusate. Continuo a non spiegarmi bene e a mischiare cose che non c’entrano. Il punto è che fu proprio ciò che non c’entrava a determinare quello che sarebbe successo in quella notte. I singoli fatti non avevano avuto un particolare rilievo ma si erano condensati in una atmosfera sovraccarica di elettricità.
Da quando Liza mi aveva raccontato dell’imboscata tesale dai chavs in Rape Alley -‘Vicolo Stupro’, come l’avevamo soprannominato- evitavo di passarci da sola. Si trattava di una scorciatoia con un ponte di ferro che oltrepassava un canale d’irrigazione. Andarci di notte non conveniva: c’era poca luce, lamiere di metallo separavano il viottolo dagli arbusti circostanti e una nebbiolina bianca saliva dal canale. Il febbraio prima avevo scoperto che quegli arbusti che infestavano le rive facevano dei fiori con petali gialli e isterici e un profumo simile al Calicanto ma più denso. Li avevo raccolti e poi mi ero informata sul loro nome: Witch Hazel. Strega Nocciola, un nome incantevole e inebriante come l’odore.
Se tornavo da lezione quando il sole era calato, attraversavo i prati del Common e piuttosto che Rape Alley prendevo la strada più lunga, nella boscaglia che costeggiava l’antico campo santo. Nel ’47 le bombe dei tedeschi avevano cancellato interamente la città e le sue mura medievali. Di storico restavano solo le tombe di quel cimitero vittoriano: risparmiati dagli aerei della Luftwaffe i cadaveri erano stati gli unici fortunatissimi reduci. D’estate l’erba era così alta che si vedevano spuntare solo le punte delle croci. La gente andava lì a passeggiare con il cane, ci giocavano i bambini e io c’andavo per leggere le lapidi.
Nonostante fossero passati più di sessant’anni dalla ricostruzione, la città mi dava l’idea un luogo asettico. High Street, il grosso centro commerciale dove la gente si passava i sabati pomeriggio e la periferia residenziale fatta di villette a schiera: tutto sembrava posticcio. Le case -ne avevo visitate parecchie prima di trovarne una- sembravano scenografie in cartapesta: avevano pareti sottilissime, finti palquet fatti di linoleum, mobili di legno compensato. In giro nessun posto di ritrovo con della personalità, solo friggitorie cinesi e franchising -Kentuky Fried Chicken, McDonald, Pret A Manger- .

Quella sera Massoud disse di non contare su di lui:- Devo finire il progetto di ricerca. Sono messo così male che forse starò in biblioteca fino a tardi. Ci ribecchiamo a casa-. Dottorando in ingegneria elettronica, aveva scelto di immolare la sua gioventù alla ricerca di come incrementare la velocità di un sistema operativo -Dai, non fare tardi, che quando torni beviamo qualcosa qui assieme- dissi, appoggiandogli una mano sulla spalla. -Ok, ci provo- rispose con un sorriso goffo, irrigidendo la schiena a quel contatto fisico.
Così uscimmo io e Liza. La via di Riccardo, Vincent Road, era, se possibile, ancora meno illuminata delle altre. Quando arrivammo la porta era socchiusa: Riccardo ci sentì suonare e aprì anche la seconda, di vetro. -Hi Fra, Hi Liza! No, non ti preoccupare per quella porta: il legno dello stipite s’è gonfiato con l’umidità e non s’ incastra più. La riesco a chiudere solo in estate. –
Guardammo un film. Non ricordo quale, ma di sicuro non era un horror o un poliziesco. Poi restammo lì a chiacchierare. Riccardo ci disse che non ne poteva più di essere a casa da solo, che era contento di ritornare a Modena per le vacanze, poi disse di salutargli Massoud, se non riusciva a vederlo prima di partire.
Appena uscite di casa io e Liza notammo che una delle macchine parcheggiate lì vicino aveva i finestrini frantumati. Fu come essere nel gioco ‘trova le quattro piccole differenze’ ma qui la differenza era solo una: all’arrivo c’era sembrato che l’auto fosse intera. Tutt’attorno, Vincent Road, era morta come prima. Perché da dentro casa non s’era sentito nessun rumore? Ci allontanammo in fretta. -Liza, che si fa, passiamo per il Common?- – Sì, passiamo per il Common.- Fottuta Rape Alley, evitarla ci costava parecchi minuti di strada in più che, a quell’ora, non erano una passeggiata. Costeggiammo il cimitero e mi stupii che ci volesse così tanto a farlo: ricordavo che fosse più breve. Liza parlava poco e si guardava attorno. Per scherzare le raccontai dei due pezzi di lattice, oblunghi e afflosciati, comparsi un giorno sulla pietra tombale di Esther Green. Già, nell’illustrarvi gli usi abituali che gli abitanti facevano del cimitero m’ero dimenticata di menzionarvi quest’altra attività alla quale il luogo si prestava.
La lastra aveva un ché di pittoresco, muschiosa, piena di crepe e in più seminascosta dietro due cipressi, ma tuttavia non mi riuscivo a spiegare quale coppia, probabilmente nella notte, avesse avuto l’ardire di usarla. A dire il vero il giorno del ritrovamento m’era balenata una seconda possibilità che avevo preferito non vagliare: troppo assurda. Chi sarebbe stato così scrupoloso da prendersi precauzioni con un cadavere d’epoca vittoriana? In quel momento però, con il buio che faceva da siepe alla strada, questa seconda idea sembrava meno irreale e la riferii a Liza. Ridemmo e accelerammo ulteriormente il passo.
Arrivammo a casa che Massoud doveva ancora tornare o forse si era già buttato a dormire. Suonò il mio cellulare: Riccardo.
-Ciao Fra, vi siete scordate qualcosa qui?-
-No, perché?-
-No? Ma non siete voi che avete suonato il campanello?-
-No, io e Liza siamo appena arrivate a casa, non è possibile. Comunque non mi sembra che ci si sia scordate qualcosa da te-
-Aspetta-.
-Oh, Fra? Ma allora, se non siete voi a suonare, chi è?-
-Aspetta ancora, vado a vedere e ti richiamo-.
Passarono un paio di minuti e il cellulare suonò nuovamente.
-Fra! C’è un uomo fuori da casa mia, l’ho visto, sta battendo sulla porta a vetri.-
-Hai provato a fare dei rumori per far capire che c’è qualcuno?-
-Ma no, sei matta?! Ho fatto finta di niente, ho spento la luce del corridoio e sono risalito in camera-.
-Ma se è uno scassinatore e vede che c’è gente di sicuro non entrerà-.
-Non lo so. Ci sono stati due furti nella zona ma questo deve essere pazzo, ha visto che c’è gente in casa eppure fa un sacco di rumore. Fra, è strano, continua a battere sempre più forte sulla porta, non so, o sta cercando di far saltare la serratura o è un maniaco. Potete venire qui con qualcuno?-
-Caspita, se fosse successo prima, ma ora siamo appena arrivate, non me la sento di rifare tutto il Common. E’ già stata un’impresa tornare indietro. Non c’è nessuno che abita vicino a te a cui puoi chiedere di affacciarsi e urlare per mandarlo via?-
-No, cazzo, sono partiti tutti. Ora sono chiuso dentro camera a chiave, ho spostato il letto contro l’entrata. Dio, ste porte fanno schifo, non reggono! Chiama la polizia -.
Liza nel frattempo mi guardava allarmata dal tono di voce di quella conversazione in italiano. -Cerca in internet il numero della polizia!- le dissi, e mi avvicinai al telefono fisso.
-Fra, per favore fai veloce, sta facendo sempre più rumore, quella porta non regge –
-Okay, Riccardo stai tranquillo, ora ci parlo, dammi il tuo indirizzo-.
-Sì, va bene, ma dai il telefono a Liza mentre parli con la polizia, non mettere giù-. Lo passai a Liza. Feci il numero della polizia. Il telefono suonò un sacco, rispose un centralinista che parlava come una mitragliatrice, mi passarono un altro tipo, forse non capivano cosa dicevo. Cercavo di spiegarmi chiaramente, di far intendere che era urgente, di non far trapelare la preoccupazione, cercavo troppe cose assieme. Quando misi giù la cornetta non avrei saputo dire se mi avevano risposto ‘sì interverremo subito’ o se mi avevano mandato a quel paese. Liza era ancora al telefono con Riccardo. Poi mise giù e ci mettemmo in cucina a guardare l’orologio. Mi chiese se secondo me avremmo dovuto comprare un nuovo lucchetto per il cancello. Le dissi che in effetti sarebbe stato il caso, ma che per venire a derubare una casa di studenti bisognava essere scemi. -Sì, però intanto tre o quattro pc se li tirano su – replicò Liza. Sentimmo un rumore di passi e delle chiavi girare nella toppa: era Massoud che disse subito:- Qualcuno è entrato in casa di Riccardo. Un ladro, o non lo so, non si capiva. Bisogna chiamare la polizia-.
-Cosa? L’abbiamo già chiamata!-
-Sono passato da lui perché credevo foste ancora lì, ho suonato e nessuno mi risposto. Vi avrei chiamato ma avevo il cellulare scarico. Ero sicuro che Riccardo fosse in casa perché vedevo una luce accesa. Allora inizio a bussare, un po’ forte: magari è il campanello che non funziona. Niente. Dopo un po’ noto una sagoma, attraverso la porta vetrata, che correre giù per le scale, spegne la luce e correre di nuovo indietro. E allora ho pensato: non può trattarsi di Riccardo, certo mi avrebbe aperto, con tutto il rumore che ho fatto!-.

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