Presentazione di Miguel Angel Garcìa

Sono uno scrittore, non un insegnante o un critico. Trovarmi tra le mani decine e decine di racconti è stata un’esperienza sconvolgente. Cosa ci si aspettava da me? Non certo la correzione ortografica e sintattica; neanche la valutazione dall’alto, “buono” e “non buono”. Era in gioco l’arte di narrare altrui, dovevo aprirmi alla lettura, capire quaranta o cinquanta sensibilità, scopi, esperienze, personalità diverse. Una volta fatto questo dovevo trovare l’imperfezione, la nota che stride, l’impianto non corrispondente alla storia, insomma se c’era dovevo trovare quel che non andava, per aiutare il narratore, e forse anche gli altri partecipanti al laboratorio.

Un lavoro allucinante e tuttavia attraente, quasi un vizio questo mettersi nelle scarpe altrui, nei loro mondi di fantasia, nel loro dire e non dire. Alla fine, come accade, ho imparato tanto da loro. Forse dovrei ringraziare il centinaio di partecipanti ai due laboratori di scrittura creativa Eks&tra-Dipartimento di Italianistica del 2007 e il 2008, perché mi hanno fatto capire meglio il mio personale immaginario.
La caratteristica distintiva dei nostri laboratori è mettere assieme novelli scrittori migranti e italiani sul terreno comune della lingua italiana; realizzare praticamente quel che si chiama, con una delle parole-etichetta del nostro tempo, “interculturalità”. Abbiamo trovato che se per interculturalità intendiamo il dialogo tra culture diverse, i nostri scrittori non la facevano, perché dialogavano tra soggetti diversi di una stessa cultura, una cultura un po’ mondiale, un po’ locale, che c’è dove non guardi, e non c’è quando la cerchi. Un reticolo fatto di punti di vista, filtri linguistici, esperienze diverse e altre solo apparentemente diverse, letture comuni. Un reticolo che è interculturale esso stesso.
Loro, e anche noi docenti, abitiamo uno stesso punto di vista, uno stesso angolino del reticolo della cultura mondiale, l’Italia. Questo, più ancora che la lingua, è il nostro terreno comune. Siamo qui, non si sa per quanto tempo, veniamo da lontano o da vicino, e andiamo vicino o lontano. Nel frattempo siamo qui, ed è quello che conta. Ci riconosciamo nel mondo ironico di Sara Anifowose: “Riassumiamo brevemente. Hai raggiunto quasi i trent’anni, sei single da dieci, lavori in un ipermercato da due, la mozzarella in frigo è scaduta da una settimana.” (Scadenze). Che è un mondo contiguo, forse la continuazione, di quello di Cecilia Ghidotti: “Solo alcuni condomini sono consapevoli di abitare un insediamento progressista e si sforzano di non farlo sapere agli altri che, altrimenti, si attiverebbero per cambiare il regolamento condominiale.” (Residence Acacia)
Questo mondo non è certo un paradiso, distribuisce locazioni che assomigliano piuttosto all’inferno. Come in questo racconto di Sara: “Mi ricordo, che quando ero più giovane delle volte avevo paura ad attraversare le strisce pedonali. C’è stato un periodo, un lungo periodo, in cui sentivo chiaramente i pensieri della gente e temevo che prima o poi qualcuno non si sarebbe fermato. “Una in meno” pensavo. “Una sporca, inutile, extracomunitaria di merda e delinquente in meno”, pensavo. Pensavo che sicuramente avrebbero detto a denti stretti “Una puttana nigeriana in meno”. Perché l’Africa che conosce la maggior parte degli italiani è solo quella che sentono ripetere al telegiornale più spesso. Ecco, questo mi ricordo. Non so dire cosa provavo e cosa provo adesso. Terrore, rabbia forse. Forse mi sentivo veramente inerme e insignificante. O forse no, forse il contrario.” (Sara Anifowose, Fino in fondo e basta scuse)
In questo mondo le relazioni personali sono sovente filtrate da strumenti burocratici; quando si cerca lavoro (o il permesso di soggiorno). “Dall’altra parte di una scrivania in betulla comprata all’ikea, il dottor Pozzi la scrutava da capo a piedi con uno sguardo a metà strada fra la commiserazione e la noia. La sua attenzione sembrò rianimarsi solo quando si soffermò sulle cosce coperte male da una minigonna fucsia. Alina non fece nessuna fatica a sostenerne lo sguardo, ma avrebbe preferito essere altrove, a bere un caffè bollente magari, leggendo da giornali vecchi di giorni, improbabili oroscopi sempre pieni di promettenti novità. Il dott. Pozzi si sforzò di imbastire una conversazione che avesse la parvenza di un serio colloquio di lavoro.” (Tonia Brancaccio, L’oroscopo perfetto).
Più astratto e minaccioso nel racconto di Sara Anifowose: “Abbiamo valutato attentamente il suo caso. Siamo positivamente colpiti dalla sua fermezza e dalle attitudini ai nostri precisi scopi che lei ha mostrato in questi trenta giorni. Come ben sa, l’accettazione della sua candidatura prevede un’irreversibile cambio di rotta nella sua vita. Non ammetteremo nessun errore e non le daremo una seconda possibilità. Tuttavia alcuni dei nostri psicologi hanno mostrato delle riserve nei suoi confronti, soprattutto per quanto riguarda alcune delle sue affermazioni dall’apparenza contraddittoria.” (Fino in fondo e basta scuse)
Altri aguzzini del mondo interculturale sono i condomini, i vicini arrabbiati, gli affittacamere. Si vive assediati da “altri” petulanti, arcigni, malevoli, da un coro di egoismo e di acido rifiuto. “La signora Stella dice che faccio troppo rumore e che il mio letto cigola. Mi manda lettere minatorie in cui scrive che produco “sciabordii d’acqua in orari antelucani”. L’amministratore del condominio mi scrive, consigliandomi di acquistare delle nuove reti da letto, con doghe in legno. Il padrone di casa mi ha già telefonato tre volte, questo mese, incazzato nero per tutta la storia. Questa faccenda mi sta esasperando e vado in paranoia solo all’idea di dover cambiare casa. Così nel corso del tempo, mi sono sorpreso a cambiare le mie abitudini. Se vado in bagno, per espellere i rifiuti dal mio corpo, mi sento in colpa.” (Andrea Masiero, Il rospo)
Tra gli sfruttatori, parassiti e aguzzini dei giovani e dei migranti occupa sicuramente un posto di rilievo l’Egregio Professore De Umbris, l’uomo-ombra (Lolita Timofeeva, L’egregio professor De Umbris che perse la testa per l’arte).
Nel mondo interculturale ci sono migranti interni oltre che esterni. Come il Michele di Francesca Veltre, che vive da tredici anni in un armadio-letto in casa di sua zia e che lavora in precarietà permanente: “Nella ditta Zanottelli e f.lli era l’unico operaio con patente per muletto, questo non bastava a dargli quella certezza del posto o certezza della pena, il suo contratto a progetto era stato rinnovato ventiquattro volte, ogni sei mesi e ogni quattro contratti era stato licenziato e riassunto… i suoi colleghi erano sette uomini, sette nani operosi, sette moschettieri coraggiosi, e avevano sette vite come i gatti. Attraverso le loro storie aveva viaggiato per il mondo, due infatti erano marocchini, due albanesi, uno era rumeno e gli altri due senegalesi, un po’ meno nani.” (Francesca Veltre, Semi)
C’è poco da ridere, ma i nostri scrittori intrecciano le loro storie con mano leggera, con un’ironia lieve. C’è anche chi, come il sordo non muto protagonista del racconto di Roberta Sireno, si riconcilia con il suo mondo, nel quale ha trovato un nuovo ruolo, e trova la bellezza sotto i portici: “E all’improvviso il respiro di Bologna con le sue strette viuzze pullulanti di negozietti e banchi, il fruttivendolo cinese, il macellaio con il grembiule giallo, il profumo croccante di pane del fornaio aperto sin dall’alba, il latte fresco del lattaio, il marocchino e l’albanese al bar con le brioches, i bambini che corrono sui marciapiedi e gridano, io grido, e grido dentro il mio anno 1989, dentro il mio cappello verde-oliva, l’attore, la vita, e poi la valigia, io sono vita.” (Roberta Sireno, L’ascolto di mezzo)
Il mondo interculturale è un’ameba il cui corpo ha estensione ma non limite. Le storie individuali tendono a ingarbugliarsi: non ci sono solo nativi e migranti, ci sono stranieri figli di nativi che sono emigrati, figli di stranieri che sono migranti, e via via le combinazioni più improbabili, e tuttavia del tutto naturali.
Ne appartiene di diritto la “mediatrice culturale” italiana negli Stati Uniti, nel centro psichiatrico dove si trova l’anziano Giovanni, e incespica tra l’inglese, l’italiano e il dialetto: “Bella collezione, una specie di ONU della demenza, tutti i gruppi etnici rappresentati in varie fasi di disagio.” (Pina Piccolo, La cognata)
Diversi racconti sono focalizzati nell’infanzia o nella pubertà, e alcuni sono particolarmente belli: quelli di Hema Biasion, Cecilia Ghidotti, Natalia Fagioli, Patricia Quezada. Quasi tutti sono localizzati nel Paesi di origine degli stranieri, e nei paesi d’origine dei locali. Scopriamo così che il mondo interculturale ha un fuori e un prima, che sono la stessa cosa, le stazioni di partenza di un viaggio.
Tra i toni nostalgici, agghindati di memoria, si distacca il racconto di infanzia patagonica di Quezada, che comincia nel colore abituale, ma finisce in tragedia: “Ricordo che in quei giorni eravamo tutti presi nei soliti preparativi per la imminente Festa della Primavera, più che meritata dato che eravamo reduci da un inverno australe, cupo, di quelli che non scherzano. Noi, figli di operai allora facevamo una bella vita.” (Patricia Quezada, Boh!)
Flash di Daniela Karewicz potrebbe essere incluso tra i racconti del paese di origine, se non fosse che il tempo è la seconda guerra mondiale, e che questa memoria non è di una parte del mondo, ma di tutto il mondo, includendoci. “Ogni tanto scatta un flash… Una figura in nero si aggira tra gli invitati riprendendo le loro facce, quelle che si mettono con prepotenza dinanzi a lui e quelle che si nascondono timidamente nella penombra. Dopo la lauta cena servita su antichi vassoi d’argento, gli ospiti brindano con la wódka alla salute del festeggiato. E’ il compleanno di Marian, giovane rampollo di una nobile famiglia. (…) Con mani tremanti avvolge in un vecchio giornale gli ultimi ricordi del suo passato, distante e sacro, e porta il pacchetto agli amici. Li trova allineati davanti al muro sgretolato del suo vecchio ginnasio. Arriva un camion. Balzano fuori quattro giovani nazisti in divisa grigioverde, puntano i mitra e li investono con una raffica di pallottole. Marian, terrorizzato, cade sulle ginocchia. Dietro di lui appare una figura in nero. Scatta un flash!” (Daniela Karewicz, Flash)
Leggeteli, ne vale la pena. Il loro mondo è anche il vostro mondo, anche se ancora non ne siete consapevoli.

Miguel Angel García
Bologna, 24 febbraio 2009