Presentazione di Fulvio Pezzarossa

Interscrittura, ponte fra le culture.*

Escono in questo volume alcuni dei testi più significativi scaturiti dal Laboratorio che, sotto il tutorato dell’argentino Miguel Angel Garcia e della brasiliana Cristiana de Caldas Brito, ha condotto gli allievi lungo un percorso formativo alla pratica della scrittura creativa.
Con questa proposta il Dipartimento di Italianistica dell’Università di Bologna, superando i consueti obiettivi didattici, si rivolge alle curiosità intellettuali di figure dal profilo aperto, connesse con l’Argentina o il Messico, la Polonia e il Brasile, il Marocco o l’India, l’Albania e la Nigeria, la Lettonia e l’Egitto, oltre che con le sfaccettature regionali degli allievi italiani. Varia anche la consuetudine con l’esercizio della scrittura, pur se l’intenzione dei seminari non puntava a formare scrittori professionali, ma piuttosto a fornire una predisposizione al confronto e all’ascolto delle varie sensibilità, trasposte in veste narrativa.
La convinzione che muove il progetto, alla sua seconda e fortunata edizione, è che la rinuncia ad un esclusivo punto di vista, possa attivare la capacità di sintonizzarsi sulle logiche dell’altro, favorendo «preziose opportunità di accesso ad altre chiavi di lettura, ad altre costruzioni di senso» (A. Fucecchi). Spingendo ad una messa in discussione delle gerarchie dei valori, vuole coltivare un’intelligente «flessibilità immaginativa» (G.C. Spivak), per formare alla complessità (M. Callari Galli), secondo una pratica dell’intercultura in quanto «interazione di due identità che si danno reciprocamente un senso» (M. Cohen-Emèrique), «esprimendo il compito del pensare e del fare a partire da angoli “culturali” diversi» (G.C. Spivak). Pertanto gli incontri hanno mirato a dar vita a «comunità conversazionali» (S. Benhabib), cercando una vera strategia di interazione culturale, in grado di sviluppare una concreta empatia, fino a «creare il coro di una moltitudine», «sfida della ricerca di una creatività collettiva, da stimolare e liberare con un capillare lavoro in comune» (F. Faloppa), secondo quella che è stata definita una logica della distinzione inclusiva:
Cosa significa dunque “sguardo cosmopolita”? Senso del mondo, senso della mancanza di confini. Uno sguardo quotidiano, vigile sulla storia, riflessivo. Uno sguardo dialogico, capace di cogliere le ambivalenze nel contesto delle differenze che sfumano e delle contraddizioni culturali. Esso mostra non soltanto la “lacerazione”, ma anche la possibilità di organizzare in una cornice culturale multietnica la propria vita e la convivenza. È uno sguardo nello stesso tempo scettico, disilluso, autocritico. (U. Beck)

Sul territorio della letteratura allora si sperimenta la capacità di ciascun interlocutore di esprimere saperi e competenze attraverso un sistema di simbolizzazione del reale e strategie cognitive che danno significato al mondo. L’urgenza è infatti quella di scrivere il futuro a più mani (B. Ducoli), mentre la necessità del confronto dialettico con le risorse dell’altro spinge ad attuare una decolonizzazione dell’immaginario.
La rottura delle logiche del pregiudizio e dello stereotipo, rinfranca le capacità di ciascun partecipante al dialogo creativo, manifestandosi la scrittura come concreta esperienza di empowerment delle soggettività socialmente deboli, le quali possono giungere ad esplicitare una loro presenza significativa attraverso percorsi di cittadinanza culturale.
Ne discende la proposta centrale del Laboratorio: di abitare insieme lo spazio della letteratura, che diviene postcoloniale nel momento in cui non si esprime in chiave di localizzazione puntuale, su territori stabili, definiti, omogenei, ma piuttosto esaltando manifestazioni impreviste e interconnessioni a rete, attraverso le quali transitano elementi di memoria, appartenenza e identità transculturali, che impongono la necessità di essere «più disponibili alla comunicazione e agli scambi, alle intese e ai suggerimenti, alle ibridazioni e ai mescolamenti» (F. Remotti).
Il Laboratorio vuole muoversi in un’ipotesi di pedagogia che guardi agli studi culturali, superando le contraddizioni che paiono spingere al silenzio l’altro, il diverso, l’emarginato, condizionato da risorse espressive univoche e limitate. Convinti invece con Aimé Césaire che «aucune race ne possède le monopole de la beauté, de l’intelligence, de la force», si tratta all’opposto di Far parlare i silenzi:

[…] lo scrittore Yusuf Idris, nel suo libro Alla fine del mondo, ci propone di far parlare i molti, innumerevoli, sterminati silenzi di chi emigra. Di limitare lo spreco di storie che potrebbero essere raccontate e che dovremmo nelle nostre città e ovunque incominciare ad aggregare comparandole, avvicinandole, scambiandole con le nostre. (D. Demetrio)

Fulvio Pezzarossa
Professore di Sociologia della Letteratura
Dipartimento di Italianistica
Università di Bologna