Il passo del camaleonte (Rosalia Cangelosi, Giorgio Kralkowski, Jessica Retto, Elena Majo, Nicolas Simonetti)

Visto dal satellite, l’intero distretto di al-Jabal al-Akhdar è una macchiolina verde scuro. Se ci sei in mezzo, però, è un misto di terra bruna striata di nocciola e macchie d’alberi.

Tramonta il sole anche oggi. Appena finita la merenda due bambini escono di casa con la bocca ancora sporca di briciole. Giocano con tutto ciò che trovano, ora dei bastoncini di legno, ora le lattine che hanno portato con sé. Si rincorrono con il petto gonfio cavalcando lande di terra bruciata. Le ore passano e con il calare della luce si dispiegano i misteri della sera. A pochi passi da un profondo uadi l’ultimo sole calca sulla polvere tre ombre diverse. I contorni, prima netti, ora tremano, sbiadiscono. I due fratelli giocano con una lattina vuota, uno dei due la calcia lontano. Vedono un camaleonte, lo seguono per il sentiero polveroso, si fermano per non spaventarlo, si avvicinano. Ora sono inginocchiati con lo sguardo fisso e concentrato a cogliere ogni movimento di quell’esserino “magico”. Mentre la terra restituisce calore alle gracili ginocchia di Hamzah e a quelle più robuste di Yassin, seguono attenti la strana lucertola che ondeggia verso la lattina.

– Non ci credo. Lo vedi anche tu?

– Si Hamzah, sembra una magia. Il nonno di mamma ce lo diceva sempre, ti ricordi? Dentro ogni essere vivente c’è l’universo intero.

– Quindi secondo te possiamo farlo anche noi? Possiamo trasformarci in quello che vogliamo?

Il camaleonte non si cura delle riflessioni dei due e si allontana prima che l’ultimo raggio scompaia.

È ora di tornare a casa. Il profumo della cena scende le scale mentre i ragazzi le salgono. Quando incontra le loro narici, partono a gara e corrono fino al terzo piano. Madeeha è sulla soglia, indossa un grembiule a fiori rossi, blu, ocra. Tra le mani tiene un enorme piatto di cous cous, strabordante di granelli gialli, sugo e verdure bollite che attorcigliano vapore sopra di loro.

 

Quelle mani, otto anni dopo, Madeeha non le avrebbe mai immaginate a cucinare per il campo di accoglienza di Agrigento. Ora si allaccia un grembiule bianco, lo lega ai fianchi. Pasta al sugo, cotoletta e purè di patate suonano ancora come categorie vuote nella testa di molti ospiti.

A partire da oggi, Madeeha lavora in cucina con altre tre donne del campo e con Maria, una signora siciliana che fa volontariato come capocuoca, ma alle sue regole.

– Su, tritate aglio e cipolla… girate il soffritto, che sennò si attacca… Madeeha gli spaghetti, l’acqua bolle!

Maria accompagna la voce rauca con gesti da burattinaia, nel tentativo di coordinare il gruppo di novelle cuoche. Le mani di Madeeha tremano al ritmo delle domande che le frullano in testa. Si chiede a cosa servano tutti quei cucchiai grandi, e quelli con i buchi, pensa “perché un mestolo con i denti?”. Solleva pasta lunga in pacchi da cinque chili e ogni movimento si mescola a un dubbio nella testa: “Tutti insieme?”. Dispone i pacchi sul banco, li apre, prende in mano gli spaghetti, ma la strada tra le sue mani e l’acqua bollente è sbarrata dal più complesso degli enigmi: “Se sono così lunghi, li dovrò spezzare?”. Le mani stanno per cedere, il vapore scotta. Maria intanto si aggira per la cucina come una sentinella, lanciando aspri rimproveri in dialetto siciliano:

– Tutto bene qua?

– S–sì

– E allora perché ti sei fermata?

– Stavo per…

La donnona scavalca Madeeha, prende sottobraccio un intero pacco e svuota una pioggia di stecchetti. Qualche minuto e un’intera pentola di sugo rosso si svuota, scivola, si mescola, solleva vapore e mentre esce lascia il posto allo sfrigolare delle cotolette. Yassin e Hamzah non hanno ancora idea di cosa stanno per mangiare. Si pizzicano le braccia a vicenda mentre sono in fila. Arriva il momento di servire i commensali: – Via, via! – abbaia Maria.

La fila inizia a spezzarsi, i due sono già al tavolo. Un gran piatto di spaghetti al pomodoro li sfida. Mentre Yassin è pronto ad avventarsi su di esso, Hamzah invece lo scruta per qualche istante, – Bismillah – sussurra, per prendere confidenza con quel che non conosce. Una certezza, un gesto, una frase: i rituali sono rassicuranti anche quando perdono il loro senso originale. Hamzah la ripete ancora – Bismillah – questa volta a voce più alta. Guarda Yassin, cerca una conferma, una solidarietà che lo riporti per un attimo a casa. Invece lo trova con la faccia impiastricciata di rosso, la bocca piena, le labbra che fanno sparire l’ultima coda di uno spaghetto scotto. Gli da una leggera gomitata.

– Tu non preghi? – chiede stizzito, ma con il timore reverenziale che ha per suo fratello. I due sono diversi e si nota anche dal modo di camminare: Hamzah è sempre tre passi dietro e guarda per terra, Yassin saltella, ha le gambe spesse.

– No – gli risponde Yassin mostrandogli la bocca sporca di sugo.

– Perché? – incalza Hamzah.

– Non siamo a casa, perché dovrei? Hai assaggiato?

– Prima di mangiare si fa, lo abbiamo sempre fatto.

Yassin ingoia un altro boccone, ciancica qualche parola tra i denti:

– E quindi? Non siamo a casa, questo non è il nostro cibo, qui nessuno sa nemmeno cosa vuol dire Bismillah, sembri stupido se lo dici.

Hamzah fissa il piatto, sussurra ancora più piano – Bismillah –, e prende la prima forchettata.

 

Il frinire delle cicale è un coro che copre le voci isolate e i silenzi dei profughi nel campo. Fuori dalla mensa il cielo è terso, l’aria pulita. Fra mezz’ora comincia la lezione di italiano nel vecchio e sbilenco municipio. Hamzah si sente fortunato a seguire le lezioni ed è sereno quando spiega “le cose della scuola” a suo fratello, anche se a volte non è facile, soprattutto dopo essere andato a travagghiari. Il lavoro fisico non gli dispiace, ma a scuola trova risposte per le sue mille curiosità. Ha sempre avuto più confidenza con le domande: già da piccolo s’incantava a osservare i segni che ricamavano la carta con cui il nonno avvolgeva le uova. Amava andare oltre l’abito delle cose, come un bambino che smonta i suoi balocchi perché di giocarci non si accontenta. Yassin, invece, iniziava subito a giocare, cercando di scoprire intorno a sé le regole per prolungare il divertimento. Per lui la traversata in mare aveva risolto ogni conflitto, adesso si tratta solo di organizzarsi e “diventare” il prima possibile italiani.

Anche oggi la lezione si fa in corridoio. Yassin si guarda attorno e sbadiglia, i suoi pensieri vorrebbero volare altrove, oltre quelle quattro pareti.

Ripete – Non voglio stare qua, usciamo –, sentendo il bisogno di dichiarare la sua seccatura ad Hamzah, che prova invano a spiegargli il discorso della maestra.

– Ci rinuncio – insiste – vado al campo da basket, se vuoi ci vediamo lì –, si alza e si avvia.

Senza che Hamzah possa fermarlo percorre tutto il corridoio, ma all’improvviso scorge qualcosa dalla finestra, si sporge e guarda giù. Una folta treccia bionda, posata sulla spalla, incornicia il volto di una ragazza dagli occhi verdi. I due si scambiano uno sguardo, lei si accende una sigaretta e continua la sua passeggiata, mentre lui la osserva allontanarsi.

 

È finalmente sera. Yassin ha un segreto da condividere con il fratello. Uscito dal campo ha seguito la biondina. Come incantato le è andato dietro, senza mai perderla d’occhio, fino al bar della stazione. Dall’altra parte della piazza una brunetta minuta l’ha chiamata a gran voce – Valentina! –, lei le ha sorriso e si è avvicinata, si sono baciate sulle guance e hanno parlato per qualche minuto, poi è entrata nel bar. Poco dopo Valentina è apparsa dietro il bancone per servire i primi caffè del suo turno pomeridiano. Ora racconta tutto ad Hamzah, senza nascondere l’impazienza di rivederla e trovare il modo di parlarle. La chiama per nome, Valentina questo, Valentina quest’altro, come se già la conoscesse.

– Avete lavato i denti? – la voce di Madeeha interrompe Yassin – Fatto le abluzioni? E la preghiera?

Guarda i due giovani e intuisce la loro eccitazione:

– Che cosa c’è? – chiede loro.

Yassin è felice di condividere il suo segreto, ma la reazione di Madeeha raffredda il suo entusiasmo.

– Le ragazze di qui – dice con una smorfia – non sono timorate di Dio come le nostre.

“Le solite prediche” pensa Yassin, “la religione è buona solo per i vecchi come lei”. Non dice niente, non osa.

Tutt’a un tratto, il sonno e la stanchezza sembrano vincerlo, ma appena Madeeha augura loro la buonanotte, ricomincia da dove si era interrotto. È dal tardo pomeriggio che pensa a come farsi notare da Valentina. Ragiona a voce alta, la presenza dell’amico lo aiuta a schiarirsi le idee: “Intanto domani chiederò a Moussa se mi presta i suoi jeans nuovi, e poi gli chiederò consiglio sulla maglietta da indossare”. Subito lo assale un dubbio: “Come posso fare colpo su una ragazza così bella? Chissà quanti corteggiatori avrà? Forse è già fidanzata… il cuore delle ragazze è un mistero, chissà se quello delle italiane è più facile da raggiungere”. Pian piano i pensieri lo accompagnano nel sonno.

Madeeha, invece, non riesce ad addormentarsi. La foga di Yassin le toglie il sonno, avverte un pericolo:

“E se volessero rimanere in questo paese per sempre?”. Mentre si gira tra le coperte ripensa alla vita della sua bisnonna, Farah: “non ho mai detto a quei due cosa accadde a quella povera donna, quanto il suo nome non le avesse portato fortuna”.

Aveva dodici anni quando un ufficiale dell’esercito italiano la scelse per sé. Suo padre l’aveva ceduta per qualche gallina, due sacchi di grano e un po’ di denaro, come pegno per la sua rara bellezza. Non si può dire che Farah fosse felice in quella nuova situazione, ma si abituò presto. In fondo quell’uomo era gentile e non le faceva mancare nulla. Lei si occupava della casa, cucinava e gli stirava le uniformi.

Un anno dopo, nacque Halima e Farah dovette imparare, da sola, a fare la mamma. Non fu facile all’inizio, ma anche a quello si abituò.

Un’estate l’italiano le disse che sarebbe tornato a Roma per una promozione, e che al suo ritorno non avrebbero più vissuto insieme, per via delle leggi razziali. Aggiunse di averle già trovato una sistemazione adeguata: un giovane contadino, disposto a sposarla e a crescere Halima come figlia sua. Non doveva preoccuparsi di nulla, era già tutto sistemato.

Halima aveva raccontato tante volte quella storia a sua nipote Madeeha, decantando la rettitudine e la generosità dell’italiano, che era stato come un padre amorevole, finché aveva potuto. Un uomo lungimirante nell’affidarle alle cure di nonno Hamed, che le aveva veramente amate entrambe.

“Come poteva sua nonna definire quell’italiano un padre amorevole?”, si era sempre chiesta Madeeha. Lei non era una sprovveduta, aveva una sua opinione sugli invasori ed era convinta che Farah e Halima avessero subito una violenza, anche se addolcita con qualche cortesia. Troppi italiani si erano sbarazzati in quel modo dei loro figli “meticci” semplicemente voltandosi dall’altra parte. Invece Hamed, la prima volta che aveva incontrato Halima, l’aveva guardata negli occhi e le aveva sorriso, cingendola con una collanina d’oro e granati, la stessa che adesso Madeeha porta al collo, come il ricordo più caro che serba di sua nonna.

“Perché i nuovi frutti, anche se dolci, dovrebbero essere più buoni di quelli vecchi, se il loro seme è marcio da sempre?” pensa, rivoltandosi nel letto. Si ripete “voi non siete italiani… voi non siete italiani” e questa frase le rimbomba in testa tanto da costringerla ad alzarsi per andare a dirla ai suoi figli. Si precipita nella loro stanza – Voi non siete italiani! –, ma non è che l’inizio, un fiume di parole esonda inaspettato.

– Voglio che questo lo capiate, deve entrarvi bene in testa!

– Che c’è mamma, cos’hai? – le chiede Hamzah con voce tremolante, ma Madeeha, incurante della domanda, continua a ripetere il suo mantra – voi non siete italiani!

– Non lo siamo ancora, ma possiamo diventarlo! – irrompe Yassin, scuotendosi dal torpore e dal turbamento che lo aveva ammutolito.

– Forse non ti ricordi cosa vi dissi prima di partire… – gli risponde lei con tono autoritario – che una volta sbarcati non ci saremmo fermati qui, che l’Italia non era il paese per noi!

– E chi ti dice che non lo è? lavoriamo tutti i giorni, Hamzah ci aiuta con la lingua… – le dice, indicando il gracile fratello seduto sul letto.

– Sono io a dirvelo, e ve lo ripeto! – gli risponde lei, puntando il dito contro i due. – Non ci stabiliremo qui, vi avevo avvertiti che saremmo ripartiti per la Francia e così sarà, come Dio ha voluto!

– Come tu hai voluto! – le dice Yassin, tirando via il lenzuolo per alzarsi in piedi.

Madeeha abbassa lo sguardo e tace per qualche istante, poi riprende con voce rotta:

– Di’ la verità, hai davvero cambiato idea per un’italiana che neanche conosci?

– Tu non capisci… – risponde con un mormorio sommesso.

– Io capisco quanto basta, capisco che vuoi tradire me, la nostra famiglia e il nostro patto!

– Nostro? Sei tu che l’hai deciso, come sempre vuoi decidere tutto delle nostre vite!

– È così allora? Vuoi essere il giochino temporaneo di un’italiana viziata? Vuoi farti prendere in giro? Loro non amano, loro non sanno cos’è l’amore, loro ti usano e quando non gli servi più ti buttano via! – urla lei, spinta da un dolore che finora aveva sempre trattenuto.

– Tu non puoi proibirmi niente, se pensi di decidere al posto mio ti sbagli!

– Invece posso eccome, possibile che tu non capisca che lo faccio per te? Sei mio figlio, carne della mia carne – gli dice avvicinandosi, ma lui la respinge con sdegno. Madeeha lo fissa negli occhi, vorrebbe abbracciarlo, e finisce col dire:

– Ricordi cosa dicono le scritture? Nel giorno della Resurrezione, sarete chiamati col vostro nome e col nome dei vostri padri.

Il cuore di Hamzah palpita, un brivido lo raggela, sa che suo fratello potrebbe dire qualsiasi cosa.

– Io non ho più un padre – risponde Yassin, inghiottendo un dolore che gli stringe lo stomaco – e non voglio neanche una madre!

Madeeha cancella quelle parole con uno schiaffo. Il colpo fa vacillare Yassin. Si tocca la guancia incredulo, poi sbatte la porta ed esce dalla stanza. Hamzah guarda sua madre, prova pena per lei, per suo fratello e per sé stesso. Madeeha resta in silenzio, gli si avvicina, posa una carezza leggera sulla sua testa e si volta verso il corridoio. Si dirige verso il bagno ma si ferma sull’uscio, la porta è socchiusa. Scorge il ragazzo davanti allo specchio, sente scorrere l’acqua nel lavandino. Indecisa se aprire la porta, si volta e torna in camera. Yassin vede nel riflesso una macchiolina di sangue sul labbro, ormai ha deciso: attenderà che Hamzah si addormenti e se ne andrà via, lontano.

 

Qualche rumore e una scarpa infilata bastano a far schiudere le palpebre di Hamzah nel sonno leggero di una notte agitata. Tra le prime luci del mattino si muove una sagoma scura, sottile, come un miraggio. Yassin si aggira per la camera, afferra qualcosa, infila un pugno in tasca.

– Dove vai? – mugola Hamzah – è presto per la colazione.

– Dormi scemo, vado a fare una passeggiata – gli dice il fratello, e accoglie l’ordine come se fosse un invito perso in un sogno.

 

– Hamzah, sù. Alzati, lavati e preparati – Madeeha scuote la spalla di suo figlio, ripete con tono basso le solite parole, ma quando si volta vede il letto di Yassin ancora sfatto.

– Hamzah, dov’è Yassin? – Il sogno prende la forma di ricordo, tra verità e bugia inconsapevole.

– È andato a fare una passeggiata, sarà uscito circa un’ora fa. Ha detto che torna.

– Sarà per ieri? Forse uno schiaffo è stato troppo, ma…

– Diceva che voleva schiarirsi le idee, non so… tornerà.

Hamzah si infila la maglietta sgualcita e si chiede dove si sia andato a cacciare suo fratello, mentre Madeeha rientra in camera sua. Dopo qualche istante la madre torna sgomenta:

– Hai visto la collanina della nonna?

Il ricordo del pugno di Yassin che scivola nella tasca prende un significato che Hamzah scaccia immediatamente:

– No, non l’ho vista, ieri sera dove l’hai messa?

– Nel cassetto, come al solito, ma ora non c’è… che l’abbia posata da qualche parte? Sai quanto ci tengo.

– Ma sì, da qualche parte dev’essere mamma, hai controllato tra i vestiti?

Hamzah si affaccia a controllare sotto il letto, senza trovare niente.

E’ ora di fare colazione. Per le strade del campo si guarda intorno, ma non trova suo fratello da nessuna parte. Seduto in mensa tiene lo sguardo basso sulla ciotola del latte, “Può essere che… la collanina… Yassin?”. Madeeha si siede di fronte al figlio con una grande tazza di tè alla menta:

– Non la trovo da nessuna parte, sei sicuro di non averla vista? – dice preoccupata.

– Ho controllato ovunque mamma, in camera non c’è.

Lei si guarda intorno e prosegue:

– Tuo fratello non fa colazione stamattina?

– Non so… sarà già al campo, forse torna per pranzo – ma il dubbio che la passeggiata sia solamente una scusa prende solidità.

 

Nel frattempo dalla tasca di Yassin riemerge un pugno chiuso, da cui scivola fuori un sottile pendente d’oro e granati. La collanina di Madeeha dondola mentre Yassin cammina verso il paese. Tra lui e il bar di Valentina c’è solo una stradina in discesa, qualche negozio che sta aprendo. Affretta il passo, un motorino gli taglia la strada. Il ragazzo alla guida, camicia di lino slacciata e maniche arrotolate, si volta e lo squadra da sopra gli occhiali ovali:

– unni l’hai l’uocci, testaiminchia! – e tira dritto sullo scosceso viottolo.

“Però, davvero una bella camicia” pensa Yassin, mentre lo vede proseguire sulla strada fino al mare. Dopo qualche altro passo si specchia nella vetrina di un vecchio Compro Oro. Gli sembra che quei vestiti, rimediati e consunti, lo trasformino in uno sconcio insetto. Apre il pugno, osserva la collanina: “E se Valentina, vedendomi così, la rifiutasse? Non posso, non voglio riportarla indietro”. Per un attimo gli occhi si fanno lucidi, il pugno più stretto: “Anche se la mia famiglia mi chiamerà ladro… non m’importa, l’ho fatto per me.”

 

Qualche ora dopo, seduto su una panchina all’ombra del caseggiato che circonda la piazzetta, Yassin aspetta il momento giusto per entrare nel bar. “Finalmente, chissà se le piacerò vestito così” pensa, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni nuovi. Fissa il vuoto mentre sorride, sembra non provare rimorso per ciò che ha fatto. Getta uno sguardo d’insieme al suo nuovo acquisto: maglietta, pantaloni e scarpe, tutto al prezzo di quella collanina, rivenduta senza pensarci troppo. “Ormai è tardi per tornare indietro”, fa un respiro profondo ed entra. Lo scampanellio della porta non avverte nessuno del suo timido ingresso, Valentina continua a chiacchierare con la brunetta del giorno prima e altri due amici, un biondino butterato e un altro, barbuto e con i baffi all’insù. Arrivato al bancone siede poco distante da loro, si schiarisce la voce e ordina un caffè.

– Ci siamo già visti da qualche parte? – gli chiede lei.

– M-mio nome Yassin – le sussurra trepidante, tendendo la mano. Lei ricambia la stretta, ma ritira la mano subito dopo.

Segue un silenzio ovattato, rotto dal risolino beffardo degli amici di lei.

– Da dove vieni? – gli chiede il barbuto.

– Io?

– E chi altri?

– Di Libia.

– Sei uno di quelli venuti col barcone? – incalza allora la brunetta, ma Yassin non sa cosa rispondere, – Barcone, gommone, motoscafo, quella roba lì – ripete lei con un ghigno carico di scherno, e questa volta lui fa cenno di sì con la testa.

– Sarà uno dei lavoratori nei campi qui vicino – dice astioso il butterato.

– E come fa a comprarsi i vestiti? – incalza l’altro – Ha ancora l’etichetta attaccata, li avrà rubati.

Yassin continua a non capire e trangugia dalla tazzina, versandosi un po’ di caffè sulla maglietta, mentre Valentina assiste divertita alla scena. Passa qualche istante e la campanella suona ancora.

 

Appena entrato, Hamzah nota subito il nuovo abbigliamento del fratello e gli sale la rabbia. I loro sguardi si incrociano, si scrutano in silenzio.

– Che vuoi… – lo apostrofa Yassin – i miei vestiti nuovi?

Hamzah è immobile e senza parole, non lo vuole più guardare in faccia, si gira dall’altra parte. Yassin lo raggiunge e gli afferra il polso:

– Perché fai così? Che ti prende, fratello!?

Hamzah cerca di divincolarsi, lo spintona a sua volta e gli risponde:

– Hai venduto la collanina per comprarti quei vestiti! Sei un ladro, rubi alla tua famiglia, mi fai schifo!

Hamzah prova a liberarsi, ma la maglietta del fratello si impiglia nel suo orologio e si lacera.

– Ti sta bene – gli dice Hamzah – adesso hai rotto la tua bella maglietta nuova!

Attraverso la vetrina entrambi vedono arrivare Madeeha, che ha seguito Hamzah fin lì. Agita le braccia in aria e urla – Yassin! Yassin!

Valentina e gli altri ragazzi assistono alla scena ammutoliti, con gli occhi di chi è imbarazzato per il disagio altrui. Yassin toglie di mezzo Hamzah con un altro spintone ed esce dal bar correndo a testa bassa.

 

È ormai senza fiato, il cuore gli batte all’impazzata, si chiede come Hamzah si sia permesso di dirgli quelle cose, soprattutto davanti a Valentina. Suo fratello lo insegue e pensa “Come può averci tradito? Come può fare questo a noi… la sua famiglia!”. Come cavalli al galoppo attraversano la campagna calpestando tutto quello che incontrano. Un vecchio contadino assiste alla scena, abbandona l’orto e li insegue con la forca:

– Le mie cicorie, cugghiuni, le mie cicorie!

Hamzah si gira e vede l’ometto corrergli dietro e inveirgli contro, Yassin accelera. Sembrano due bambini spaventati, ma non lo sono più. Dopo aver lasciato indietro il pover’uomo, che rinuncia a inseguirli, si appoggiano a un muretto per riprendere fiato e iniziano a ridere, di nuovo complici per un momento soltanto. Hamzah dà un colpo sulla spalla a Yassin:

– Ma cosa ridi, scemo? Quello lì voleva menarci.

– Cavolo se lo so, ma la vuoi smettere di darmi sempre quei colpetti? Credo di avere la spalla lussata ormai.

Un silenzio eloquente cala fra i due, il vecchio è ormai lontano, la sua figura si fa minuscola mentre torna verso il campo. I ragazzi calciano una zolla di terra. Ora che la corsa è finita e lo scherzo svanito Hamzah si fa serio, rimugina in silenzio, poi alza lo sguardo:

– Hai preso tu la collanina di mamma?

Yassin non risponde, fissa a terra e Hamzah capisce:

– Perché l’hai fatto?

– Perdonami! – dice Yassin con la voce rotta – Volevo sapere come ci si sentiva ad essere uno di loro.

– Ma perché, cosa c’è che non va in te?

– In noi vorrai dire, non lo capisci che siamo diversi?

– No, io sto benissimo, è a te che manca una rotella! Che ti è passato per la testa?

– Hai ragione, non volevo tradire o ingannare voi, se ve l’avessi detto non avreste capito, mi è sfuggito tutto di mano, non avrei mai voluto ferirvi.

– Pensi che la mamma potrà perdonarti?

– Ti prometto che recupererò la collanina oggi stesso, sono certo che è ancora possibile. Tornerò dal tizio a cui l’ho venduta. Appena possibile gli restituirò tutto il denaro e me la farò ridare.

– Ma non accetterà mai di aspettare così a lungo!

– Gli dirò di non venderla, di tenerla lì. Gli riporterò qualcosa ogni settimana, lavorerò il doppio se necessario!

Hamzah osserva la faccia pentita di Yassin, la sua nuova maglietta strappata. E’ suo fratello, il ragazzo che corre sempre avanti prima di aver pensato, quello che lo ha sempre difeso, aiutato, che nelle cose semplici, immediate della vita gli ha fatto vedere come si fa. Ora sembra diverso, mutata la sua ostentata sicurezza, oscurata dall’errore e dalla vergogna. Eppure Hamzah continua a provare ammirazione per lui, perché sa che anche suo fratello, dietro a quella maschera di sicurezza, ha potuto sbagliare. Ai ricordi che componevano un’immagine perfetta, adesso si aggiungono il furto e i vestiti che Yassin porta addosso. Si volta verso Hamzah e lo guarda dritto negli occhi:

– Ti ricordi quell’animaletto che abbiamo visto da bambini, quando eravamo a casa?

– Si, perché?

– Da quando abbiamo messo piede in questo paese avrei voluto poter fare la stessa cosa. Volevo scomparire come lui, nascondermi, essere invisibile. Anche adesso ho paura, mi sento un pesce fuor d’acqua, come posso essere me stesso in un posto che non mi appartiene? Ancora mi chiedo se quello che faccio è giusto, se quello che dico è sbagliato e spesso preferisco tacere. Sai, forse il bisnonno aveva ragione quando diceva che dentro ogni essere vivente c’è l’universo intero, ma il guaio è che io, nel mio, mi ci sono perso.

Hamzah guarda suo fratello, colui che fin da bambino lo aveva nascosto ai pericoli della vita, anche quando il loro mondo era andato in pezzi, perso tra i flutti del mare e il giudizio di voci sconosciute. Non riesce a capire quelle parole. Rinunciando a chiedergli spiegazioni, lo prende per il braccio e lo spinge oltre il campo di grano, che in quel momento si veste di giallo e oro.

– È mezzogiorno – dice – invece di iniziare a parlare come il nonno, non credi sia meglio tornare dalla mamma?

Si allontanano in fretta, al fruscio dei loro passi sul terreno due sagome si perdono tra le spighe cullate dal vento.