Quel benedetto gelato (Federica Ceccaroni, Nicole Marinaro, Thea Pellegrini, Alberto Rompianesi)
10 luglio 2070
In un lungo fischio di freni, il treno si fermò al binario.
A gambe incerte, Francesco salì la scaletta del regionale: ripida, ripidissima, ogni viaggio di più. Sedette a fatica e si guardò intorno: pendolari, studenti, famiglie con infinite provviste, ragazzi di colore dinoccolati e con le cuffiette nelle orecchie; un uomo elegante che parlava al telefono, signore bionde con volti stanchi e accenti lontani. Valigie e zaini fra i sedili di cuoio blu, annunci indistinti dall’altoparlante.
Il treno ripartì con una scossa e prese velocità, arrancando, come prendono velocità i vecchi regionali. Il paesaggio sfrecciava sempre più rapido fuori dal finestrino, e -ancora una volta- Francesco avvertì una strana empatia: nelle partenze cigolanti di quei vagoni verdi, riconosceva la semplice fatica di un vecchio.
La sensazione pungente di quel caldo d’inizio estate non l’aveva ingannato: stava iniziando a piovere di una pioggia sottile. Schiacciate sul vetro, le gocce tracciavano lunghe scie oblique, e, come tornato indietro di tanti anni, Francesco si perse a seguirle con il dito premuto sulla finestra. Sussultò quando il treno entrò nel buio dell’ultima galleria, il suono ritmico delle ruote amplificato d’improvviso. Sprofondò nel sedile e appoggiò la testa, stanco. Era quasi arrivato, e poteva cominciare a pregustarsi il gelato della “Brivido”: da sempre, il migliore nei dintorni di Bologna, e qualcuno giurava che il gusto nocciola non avesse eguali in tutta l’Emilia. Nel rimbombo, distinse appena la voce dell’altoparlante che annunciava la prossima fermata.
10 luglio 2020
“Si informano i gentili passeggeri che siamo in arrivo alla stazione di Sasso Marconi”.
Scendere dal treno fu un sollievo: lassù, in collina, Francesco riusciva finalmente a scrollarsi di dosso quella sensazione d’afa bagnata, che, accasciata sopra la città, penetrava in ogni vicolo. Eppure, anche là, tra il verde, permaneva un sentore d’aria immobile e grave, d’elettricità sospesa, quasi.
Francesco si avviò verso il campo. L’ultimo mese si era trascinato pigro: le partitelle con gli amici in attesa del ritiro, le giornate al mare, i giri in motorino tra i colli. Quando si affacciavano alla sua mente l’ombra minacciosa del debito di fisica e l’espressione compiaciuta di quell’infame di Sghedoni, le scacciava come mosche fastidiose: la scuola era chiusa da un mese e settembre era ancora lontanissimo.
Quell’estate, la città gli era apparsa più deserta del solito. Non erano solo le famiglie della Bologna bene che fuggivano in villeggiatura: piano piano, i negozietti di frutta e verdura avevano iniziato a chiudere, gli espositori vuoti e le cassette sottosopra; l’insegna di Mesopotamia – il kebab migliore di Bologna – era spenta ormai da settimane, e non gli capitava più di essere avvicinato da vucumprà con rose, cartine e cianfrusaglie. In spiaggia, poi: dov’erano finiti i venditori ambulanti di cocco che solitamente presidiavano gli ombrelloni della Riviera? Si era sempre chiesto come resistessero al sole cocente senza battere ciglio, mentre i bagnanti schiattavano di caldo. Ma quest’anno, niente: niente braccialetti, niente cocco.
La radio del bar vicino alla stazione gracchiava le ultime notizie: “…dopo un mese…attuazione… 87% di sì… italianizzazione completa dei cognomi…ordine…”.
Francesco sentì una sottile agitazione farsi strada nello stomaco. Già, il referendum. In televisione ne avevano parlato per settimane: quorum, affluenza alle urne, risultati, dibattiti, festeggiamenti, proteste. A lui quelle cose non interessavano: preferiva Sky, che trasmetteva tutte le partite del campionato. La votazione c’entrava qualcosa con gli stranieri, le invasioni, cose del genere, ma a lui i neri o i cinesi, finché si facevano i fatti loro, non facevano né caldo né freddo.
Affrettò il passo. Un capannello di ragazzi già attendeva al campo, tutti con i loro borsoni, e parlottavano fitto fitto.
Perché non c’era il mister, che aveva dato loro appuntamento al ritiro estivo e che, di solito, era il primo ad arrivare al campo, sempre intento a compilare le sue scartoffie, con l’immancabile Marlboro in bocca? Si avvicinò ai suoi compagni di squadra, tanto intenti a discutere da neppure salutarlo, e si guardò intorno dubbioso.
La voce rauca di Ercolani li chiamò a raccolta. Il viceallenatore, alto e allampanato, era grigio in volto, senza neppure l’accenno del consueto sorriso sghembo.
“Ragazzi, un annuncio. Come saprete, oggi, per gli stranieri residenti in Italia, e i loro figli e nipoti, decorre il termine per decidere se rimanere qua e rinunciare alla propria lingua e i propri usi, o se tornare nel proprio paese. Forse questo non lo sapevate, ma il nonno del mister era di Buenos Aires. Biraghi sembrava italiano, ma per qualche motivo ha deciso di non rimanere.”. Ercolani scosse la testa, incredulo. “Non lo capisco, e non so dirvi se tornerà o meno. So solamente una cosa: la società mi ha affidato la conduzione della squadra, quindi da oggi il nuovo allenatore sarò io.”
Si fermò, schiarì la voce, aprì la bocca come per aggiungere qualcos’altro e poi la richiuse, abbassando la testa.
In quel momento, Francesco capì che cosa si intendesse quando qualcuno diceva che gli era crollato il mondo addosso.
Come? Com’era possibile che Biraghi così, da un giorno all’altro, se ne fosse andato e l’avesse lasciato? La sua guida, il suo punto di riferimento, era sparito, evaporato, come quelli nei film, che si salutano prima di scomparire dietro a un’auto o al passaggio di un treno.
Non poteva credere che quell’allenatore dal nome italiano e dall’accento così tremendamente bresciano, potesse avere origini argentine e, soprattutto, arrivasse a prendere una decisione del genere: il pallone, i ragazzi, l’insegnamento del calcio era tutto quello che Biraghi aveva nella vita.
Francesco sentì una fitta improvvisa proprio lì, dalle parti dello stomaco, una sensazione che avvertì subito come inedita, nuova, che poco aveva a che fare con ragioni di natura tattica, tecnica o calcistica: forse aveva creduto troppo che il mister, per lui, nutrisse un affetto che andasse oltre, che lo considerasse davvero come un figlio. Evidentemente si sbagliava: di lui non gliene fregava niente.
Biraghi lo accusava di essere egoista, di pensare troppo a se stesso e poco, molto poco, alle esigenze della squadra. Non mancava di farglielo notare ogni volta che ce n’era bisogno e lo rimproverava di fronte a tutti, ma Francesco sapeva che il mister credeva molto nelle sue potenzialità e stava cercando la chiave per fargli fare quel salto di qualità che tutti si aspettavano da lui.
Con Ercolani non si era mai preso: il viceallenatore lo considerava troppo sicuro di sé, presuntuoso e con poca voglia di mettersi al servizio dei compagni di squadra.
Francesco si accorse che le cose stavano davvero cambiando la domenica successiva quando, poco prima dell’inizio dell’amichevole contro il Sasso Marconi, il nuovo allenatore entrò con un taccuino in mano nello spogliatoio.
Mentre Ercolani leggeva i nomi di quelli che sarebbero scesi in campo, il suo cuore cominciò ad accelerare i battiti, fino alla terribile notizia: per la prima volta, da un anno a quella parte, Francesco non sarebbe partito titolare.
Era ancora sotto shock mentre si dirigeva verso il luogo più temuto, più odiato e più maledetto da qualunque calciatore: la panchina.
Per Francesco, tuttavia, la notizia peggiore fu che la partita andò benissimo: la sua squadra vinse con un rotondo 4-0, e il Presidente esaltò la figura di Ercolani, “un allenatore sottovalutato e troppo a lungo confinato in un’ombra che non meritava”.
Il dubbio che si era fatto largo in lui da un po’ di giorni a quella parte, era ormai diventato una certezza: da quel momento, in squadra, di Francesco non ce ne sarebbe stato più bisogno.
20 agosto 2020
Il tutto era cominciato quella stessa mattina, quando, scorrendo annoiato la Home di Instagram, si era imbattuto in una foto appena pubblicata da Ercolani in cui comparivano alcuni degli esponenti della società calcistica dell’anno prima. In un angolo a destra, con quel suo caratteristico sorriso storto e impertinente stampato in faccia, stava Biraghi, mentre sotto era riportata la dedica nostalgica di Ercolani, il quale ricordava “La volta in cui Biraghi aveva cucinato per tutti”. Dunque quella era la casa del mister? Avendolo sempre visto in tenuta sportiva era davvero strano vederlo indossare degli abiti eleganti. Un inspiegabile bisogno di conoscere la vita privata del mister si era a quel punto impadronito di lui al punto che l’occhio gli era caduto subito sul geotag riportato in alto. Via Beroaldo 35.
Francesco si diresse verso lo stabile, un condominio piuttosto anonimo dipinto di giallo. Cosa si aspettava di trovare? Non sapeva dirlo con certezza. Forse un segno del passaggio di Biraghi, o magari, chissà, un messaggio lasciato nella buchetta della posta solo per lui, con delle sentite scuse e una spiegazione dettagliata delle dinamiche che lo avevano indotto ad andarsene. Magari c’era di mezzo una donna? In fondo il mister, con quella sua carnagione olivastra in netto contrasto con gli occhi chiari, poteva dirsi un uomo attraente.
Si avvicinò alla porta. La dicitura “Lorenzo Biraghi” appariva ancora tra i campanelli del condominio. D’istinto premette il pulsante.
“Chi è?” Rispose una voce femminile.
“Buongiorno, stavo cercando Lorenzo Biraghi, abita qui per caso?”.
La voce tentennò qualche secondo, dopodiché rispose secca: “Salga. Quarto piano. L’ascensore è rotto”.
Ad attenderlo all’ingresso c’era una donna sulla trentina di colore, cosa che stupì molto Francesco dato che la voce sentita dal citofono non aveva fatto intuire alcuna provenienza straniera.
“Buongiorno, mi chiamo Anna. Prego entra. Posso offrire qualcosa mentre parliamo? Un caffè magari?”.
“Se non le è di disturbo, accetto volentieri grazie ” disse Francesco a bassa voce. Cominciava a sentire un leggero imbarazzo per essersi presentato lì senza un reale motivo.
“Bene, siedi pure sul divano, arrivo subito”.
Francesco si sedette in salotto e cominciò a guardarsi attorno: l’appartamento era piuttosto spoglio, in particolare lo colpì la quasi totale mancanza di decorazioni: nessun quadro alle pareti, nessun soprammobile, appena qualche libro appoggiato su una mensola, tra cui spiccavano un dizionario italiano-francese, una copia della Commedia di Dante e qualche fumetto.
Anna tornò nella stanza e si mise a sedere sulla poltrona di fronte. “Lei è un… parente del signor Biraghi?”
“Un suo giocatore” precisò Francesco.
“Ah, un calciatore… be’… è partito per l’Argentina una settimana dopo il referendum. Immagino sapeva delle sue origini…”.
“A dir la verità no, non lo sapevo, o meglio, lui a me non lo ha mai detto” rispose Francesco senza riuscire a nascondere una punta di risentimento.
“Ah, capisco… un bravissimo uomo Lorenzo, sì, proprio buono. Lui ci ha aiutato tanto a conoscere le persone che abitano qui quando siamo arrivati a Bologna per la prima volta. Ha anche fatto conoscere a Tommy un amico con cui giocare a calcio…”
“Tommy è… suo figlio?” chiese Francesco.
“Oh no no, è il mio fratellino piccolo. Ha otto anni e vive con me e mio marito. Prima eravamo al piano sopra… una casa molto piccola… E poi, quando il signor Biraghi ci ha detto che andava via siamo venuti ad abitare qui. All’inizio non era contento…ma non per la casa, no…non era contento che restavamo per principio, ecco, fino all’ultimo ha provato a convincerci di andare via”.
“E come mai?”
“Per le nostre origini. Per lui era sbagliato che gli italiani ci chiedevano di dire no alle nostre origini solo perché siamo stranieri.”
“E allora perché voi siete rimasti?”
“Perché andare via? Per cominciare tutto dall’inizio? Possiamo imparare di nuove origini qui, il mio fratellino è piccolo e avrà un futuro da italiano e forse un giorno anche io sarò una mamma italiana”.
Era una donna difficile da decifrare, pensò: sotto quelle parole così ricche di speranza si percepiva un’amara rassegnazione, anche se Francesco non riusciva a intuirne fino in fondo il significato.
“Da dove siete venuti?” domandò dopo un po’.
Una smorfia comparve sul volto di Anna, accompagnato da un gesto della mano, come se stesse cercando di scacciare una mosca invisibile. “Mi chiamavano Anaya, ma non dico altro… vorrei separarmi da quella me, capisci…”.
Ad un tratto, un bambino spalancò la porta della cucina e comparve nel salotto correndo: “Wollu! Il caffè brucia!” Dalla cucina proveniva in effetti un chiaro odore di caffè bruciato.
Anna scattò in piedi, dicendo con tono irritato: “Ah Tommi! Quante volte te l’ho detto? Devi parlare solo italiano quando ci sono altre persone!”. Poi si diresse svelta in cucina. Francesco la seguì.
“Oh, che disastro!” disse Anna cercando di rimediare al danno con una spugna. “Scusa, era una delle prime volte che lo facevo. Adesso ci riprovo …”.
“Non si preoccupi, in realtà mi sono accorto che è tardi, devo andare…” e poi, non riuscendo a trattenersi, disse tutto d’un fiato: “Volevo solo chiederle una cosa: per caso il signor Biraghi le ha lasciato detto qualcosa da riferire in caso qualcuno venisse a cercarlo? Un messaggio, una lettera, qualcosa?”.
Anna si girò fissandolo. Ci pensò un attimo. “No.” disse infine, “Perché?”.
“Niente, niente, curiosità… devo proprio andare adesso” e così dicendo si diresse veloce verso la porta della cucina, scavalcando il piccolo Tommy che intanto si era steso per terra ad attaccare le figurine dei calciatori al suo album.
Colpito da un nuovo pensiero, Francesco si bloccò: “Ehi Tommy, ti va di fare due tiri di sotto?”.
A tutti coloro che, nella propria famiglia fino alla terza generazione, annoverino uno o più elementi di origine diversa da quella italiana.
Ai sensi della Legge dello Stato italiano gli individui sopracitati avranno facoltà di optare per la completa italianizzazione o optare per il trasferimento in un altro Paese.
Italianizzazione:
- Coloro che eserciteranno il diritto di italianizzarsi dovranno rinunciare al proprio nome, scegliendone uno sostitutivo che possa uniformarsi alle caratteristiche dello Stato Italiano, espresse in nota al documento.
- Coloro i quali opteranno per l’opzione riportata al punto 1 del documento dovranno rinunciare alla propria cultura e ai propri usi e costumi, uniformandosi e facendo propri gli unici usi e costumi italiani.
- Chiunque opti per l’italianizzazione sarà sottoposto a numerosi test e valutazioni che potranno confermare o meno la propria volontà di omologazione e la propria preparazione in ambito di cultura e storia italiana.
- Non sarà ammessa nessuna lingua oltre a quella italiana.
- Chiunque tenterà di opporsi a queste direttive, includendo gli ambienti privati e familiari, sarà costretto ad abbandonare il paese, come da seconda opzione del referendum.
Cambio di Paese:
- Coloro i quali eserciteranno il diritto di rifiuto dell’uniformarsi alla cultura dello Stato italiano dovranno, entro i sei mesi seguenti, trasportare il proprio domicilio in un altro stato, pena l’incarcerazione o l’espulsione forzata dal Paese.
- Chiunque opterà per l’allontanamento potrà conservare i beni mobili e personali in proprio possesso, ma dovrà abbandonare i beni immobili situati nel territorio dello Stato Italiano.
- Chiunque deciderà di allontanarsi dal paese potrà usufruire di un contributo economico da parte dello Stato italiano. L’ammontare della somma offerta è pari a uno spostamento su qualsiasi mezzo di locomozione, a patto che il biglietto sia in classe economica. A tal fine è stato istituito un accordo con le compagnie dei trasporti che si adopereranno per garantire un posto a chi deciderà di usufruire di mezzi pubblici per spostarsi. Nessun contributo economico sarà previsto per chi deciderà di utilizzare i propri mezzi.
N.B.
Per i minori di 18 anni, la scelta sarà effettuata dai genitori o da chi ne esercita la potestà genitoriale. Una volta raggiunta la maggiore età, sarà loro possibile decidere se concordare con la scelta effettuata dal genitore o se cambiare la propria opzione.
Questo diritto potrà essere esercitato soltanto da coloro i quali, al momento della votazione, abbiano compiuto i 15 anni d’età.
Francesco leggeva con attenzione il testo del referendum che aveva ignorato qualche mese prima. Se solo avesse letto, se solo avesse prestato più attenzione, se solo… In quel momento, però, non servivano i se, i ma, serviva solo capire che cosa era successo e quel testo lo avrebbe aiutato.
Un insieme di voci lo distrassero dalla lettura del documento.
L’autobus era alla fermata di Porta S. Donato. A quanto pareva l’autista stava impedendo l’entrata ad una donna musulmana. “Mi spiace signora, ma è scritto nel regolamento: non posso far salire nessuna donna con indosso il velo a bordo. Coraggio, se lo tolga che la faccio salire. E faccia presto anche, che siamo in ritardo”. La donna fece segno di non voler salire e così l’autobus ripartì, accompagnato dallo sbuffo del conducente. “Le auguro una buona passeggiata!” disse dal finestrino rivolto alla donna, che ormai si era incamminata a piedi.
“Incredibile, che faccia tosta” commentò un anziano seduto davanti a lui.
“Veramente! Ho assistito alla stessa scena l’altro ieri in banca sa? Non hanno mica capito che non li vogliamo, eh?” rincarò la dose una seconda signora sulla cinquantina.
“Che poi è anche una questione di sicurezza” disse una terza donna “io voglio sapere chi ho davanti, con quel velo in testa si fa fatica”.
“Sì infatti – ribadì l’anziano – dobbiamo pure pensare un po’ anche a noi no? Siamo in Italia in fondo”.
Giunto alla sua fermata, Francesco si diresse sollevato verso l’uscita della vettura. Appena fuori, fu colpito da una folata d’aria nuova.
20 ottobre 2040
La porta sbatté così forte che il caffè bollente cadde sul bancone in marmo del solito bar. Francesco, appena uscito dall’ufficio per la pausa delle 11, si girò di scatto verso l’entrata: Tommaso era rosso in viso e lo guardava con affanno.
“È tornato”.
Con uno sguardo perso, Francesco interrogò il suo amico. Si capivano di solito, ma in quel momento non riusciva a comprendere a che cosa si riferisse.
“Biraghi. Biraghi è tornato. È tornato per la bambina”. Francesco lasciò un euro al solito barista e seguì Tommaso verso casa.
“E al lavoro che diranno?” accennò timido Tommaso.
“Capiranno”.
Biraghi aveva suonato il campanello del palazzo giallo quella stessa mattina alle 9.27, Tommaso se lo ricordava perché aveva pensato che fosse un orario strano per consegnare la posta. Anna, aperta la porta, aveva lasciato cadere il biberon caldo sul pavimento appena intravisto il suo profilo oltre la sagoma di Tommi.
“Non potevo non conoscerla, dov’è?”. Biraghi era tornato per vedere Linda.
Il rumore metallico della chiave nella toppa fece da sipario alla vista di Biraghi con in braccio la bambina. Sedevano su una poltrona di pelle scura, dai braccioli ampi e soffici, uno dei quali era rovinato sul lato. Francesco rimase immobile: non sapeva se accennare un sorriso o un timido cenno con la mano. Biraghi lo guardò, fisso, dimenticatosi per un momento del corpicino caldo che stringeva tra le braccia. Si alzò, fece scivolare Linda in braccio alla mamma e, sempre in silenzio, aprì la porta indicando a Francesco di seguirlo.
“Quindi, come ti vanno le cose?”, il tono di Biraghi era quasi allegro e non faceva trasparire nessuna rabbia nei confronti di Francesco. Balbettando, cercò di rispondere al suo vecchio allenatore, ma non riuscì a pronunciare una frase di senso compiuto.
“Ma lì non c’era un tabacchi una volta?”. Biraghi indicò il piccolo alimentari all’angolo.
Francesco frugò nelle tasche in cerca del pacchetto di Marlboro da offrirgli, ma la mano rimase sospesa.
“Non credevo ti avrei più rivisto in Italia” disse, ritirando la mano.
“Anaya per me è come una figlia e questa bimba è un regalo del cielo: la aspettava da tanto. Ci tenevo a esserci e poi mi erano rimaste certe questioni da sistemare”.
Guardandolo negli occhi, poi: “Tu, invece, hai più continuato con il calcio?”.
“No, non ero così sicuro di voler essere un calciatore… forse non sapevo nemmeno chi essere”.
Biraghi non rispose, tirò fuori un paio di occhiali da sole e li appoggiò sul naso, sistemando la tasca nella quale erano riposti.
Francesco ruppe il silenzio: “Perché te ne sei andato?”.
“Sapevo chi essere”.
Biraghi non guardò più in faccia il suo ex atleta, si incamminò lungo la strada assolata e, guardatosi intorno, fermò un uomo con una ventiquattrore.
“Scusi, ha una sigaretta?”.
L’uomo gliene offrì una e Biraghi la accese portandola alla bocca.
Francesco rimase fermo dov’era, guardando il fumo della sigaretta alzarsi e segnare il suo allontanarsi, un’altra volta.
Bologna, 10 luglio 2070
“Si informano i gentili passeggeri che siamo in arrivo alla stazione di Sasso Marconi”.
Quanto tempo era trascorso, da quando era seduto in treno? Una cosa che si era accorto di aver peggiorato con l’età, era la capacità di calcolare i tempi: succedeva che, in certi pomeriggi, si fermasse ad accumulare parole su parole in qualche bar del centro insieme agli amici e passassero delle ore intere, quando invece a lui sembravano solo pochi minuti.
Quando la voce meccanica annunciò l’arrivo a destinazione, Francesco si alzò a fatica e, non appena il treno si fermò, scese la scaletta, prima che questo riprendesse la sua corsa.
Dopo quello scroscio estivo, di quando il cielo deve trovare per forza qualcosa di cui lamentarsi, la giornata stava diventando molto calda, una di quelle in cui l’estate bussa alle porte con insistenza e alla fine, in un modo o nell’altro, riesce comunque a farsi aprire: Francesco sorrise, pensando con piacere al gelato della “Brivido” che lo aspettava, ma una fitta alla gamba sinistra gli ricordò quanto i suoi anni si divertissero a prendersi gioco di lui.
Uscì dalla stazione e chiamò un taxi.
Sasso si era fatta più bella, come una vecchia signora a cui il tempo dona il fascino della maturità: quanti edifici nuovi, quanti locali che lui nemmeno si sarebbe immaginato tanti anni prima.
Kabir, il simpatico tassista con cui aveva subito cominciato a scambiare qualche parola, partì alla volta della gelateria, quando qualcosa catturò l’attenzione di Francesco.
“Kabir, mi lasci pure qui, grazie” intimò al conducente: tirò fuori una banconota, lo pagò e scese dall’auto, guardando davanti a sé con le ginocchia che tremavano.
L’insegna “Centro Sportivo Bulgarelli” luccicava rossa, esattamente come se la ricordava: forse solo una leggera mano di vernice in più, ma tutto, dal colore ai caratteri delle lettere, era come lo aveva lasciato un giorno di tanto tempo prima.
E se… Girò lo sguardo alla sua sinistra e lo scorse, proprio lì dove era sempre stato: il bar del campo lo guardava.
Quante volte si era fermato lì con tutti gli altri, alla fine degli allenamenti, a prendere qualcosa di fresco e ad essere stupido come si può essere solo a una certa età?
Chissà se era ancora lì… Aspetta, come si chiamava il figlio del proprietario? Proprio non riusciva a ricordarselo. Entrò, perché la nostalgia è una bella donna di cui alla fine torni sempre a sentire bisogno, e un barista cinese lo accolse con un sorriso: be’, si disse, almeno qualcosa era cambiato.
Raggiunse il campo da gioco: c’erano cinque-sei ragazzini, tra cui un paio di colore, che in tenuta non ufficiale maltrattavano quello che, in un’altra vita, era stato il suo più fedele amico: il pallone.
Li guardò con una sana, benevola invidia: il corollario prevedeva colpi di tacco, al volo, di testa, tutto quello in cui lui, tanti anni prima, era il più bravo di tutti.
Certo, l’afa di quel pomeriggio gli pesava addosso, ma si sarebbe inserito volentieri per mostrare a quei giovani come si desse realmente del “tu” alla palla. Però quelle maledette, maledette ginocchia…
All’improvviso, uno dei ragazzi sbagliò il controllo: un attimo e il pallone schizzò via.
Fu un momento, un gesto istintivo, come se il ragazzo che un tempo era stato fosse tornato un’ultima volta, a dirgli addio: allungò la gamba destra e, con il collo del piede, stoppò il pallone con tanta eleganza che quello, addomesticato, si fermò sul posto.
Poi, dopo un palleggio, con un lancio millimetrico di sinistro lo spedì dritto tra i piedi di uno dei ragazzi che, alzando un braccio coperto di tatuaggi, lo ringraziò con uno sguardo tra il divertito e l’incredulo.
Francesco si tolse il cappello a tesa larga, si passò una mano tra quello che restava dei capelli e con la coda dell’occhio intravide un ragazzino dal volto famigliare, con i pantaloncini corti e le sue scarpette da calcio di tanti anni prima, fargli un malizioso occhiolino e sorridergli, prima di dissolversi nel nulla.
Senza voltarsi indietro, sperando che la Brivido riuscisse a soddisfare ancora i suoi gusti più difficili, si incamminò alla volta di un benedetto gelato che rinfrescasse quell’afoso pomeriggio di luglio.
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