Patria Patris (Lila Breccia, Francesca Cassinadri, Carlotta Della Pasqua, Manuela Famà)

Quel pomeriggio Roberto era sdraiato sul divano e i piedi, avvolti nelle pantofole da casa, erano appoggiati sul tavolino in salotto. In una mano aveva la sua birra preferita, nell’altra il telecomando, e gli occhi erano incollati allo schermo sull’azione dell’attaccante. Nonostante fosse assorbito del tutto e cercasse di non farci caso, i rumori di chiodi, martello e seghetto lo costringevano ad alzare il volume di continuo. Suo padre, nel capanno che si era costruito, continuava a smontare e rimontare cose, con una frenesia che gli faceva prendere oggetti vari, soprattutto motori, e smembrarli per il semplice piacere di farlo. -Con tutto il tempo che ha, proprio in questo momento doveva mettersi a fare un baccano simile?- Pensò Roberto sfogandosi innervosito sul telecomando. A volte lo odiava proprio. C’erano stati momenti, in passato, in cui aveva provato a includere suo padre nelle piccole attività che di solito fanno i padri e i figli, come ad esempio guardare le partite. Ma lui diceva che erano perdite di tempo e che gli ricordavano momenti che preferiva non ricordare. Roberto sapeva poco e niente del suo passato. Era suo padre eppure conosceva così poco della sua vita: era nato in Istria, in un paese vicino a Trieste e come tutti i suoi coetanei era partito per combattere in guerra. Per il resto, ogni qualvolta lui o sua madre cercavano di strappargli qualche informazione in più, lui si chiudeva in sé stesso in quel suo maledetto capannone.

Ai rumori di sottofondo, si aggiunse anche il campanello, che suonò per tre volte prima che Roberto se ne accorgesse. Scocciato e coi nervi a fior di pelle, si alzò dal divano e andò ad aprire la porta. Il postino era lì, sull’ingresso, con una pila di lettere in mano. Roberto le afferrò in modo scortese e sbatté la porta senza nemmeno salutare il postino. Diede una rapida scorsa alle buste: bollette, bollette e ancora bollette. Tutta l’energia elettrica che sprecava suo padre. Fu mentre le stava appoggiando sul tavolo, che intravide una busta più piccola delle altre, giallognola, che portava in cima un francobollo verde con delle scritte che Roberto non riusciva a leggere. Sollevò il piccolo involucro, da parte di una certa Marija Marcovìc, indirizzato a suo padre. La mamma era morta da cinque anni e non era strano che suo padre potesse avere un’amante, anche se non doveva essere vicina, visto il francobollo e il nome straniero. Approfittando del “fine primo tempo” decise di portargli la busta nella sua tana e lo trovò lì, con la mascherina sugli occhi, intento a saldare una marmitta sulla vecchia Guzzi. “Vittorio, c’è una lettera per te!” Provò a gridare Roberto, senza successo. Gli toccò una spalla e suo padre fece un balzò: “Mi hai spaventato!” sbottò “Cosa vuoi adesso?”.

Quando il figlio gli porse la lettera, Vittorio sbiancò e indietreggiò di qualche passo, accasciandosi sulla sedia che stava nell’angolo. La scartò, le mani gli tremavano e faticò a sfilarla dalla busta. Gli occhi cominciarono a correre su e giù per il foglio, incapaci di cogliere fino in fondo quello che stavano leggendo. Scoppiò a piangere, mentre i singhiozzi gli spezzavano il respiro. Roberto non aveva mai visto il padre piangere, nemmeno quando era morta sua madre. Solo quando si calmò un attimo riuscì a domandargli con tono apprensivo: “Papà, ma che succede? Di chi è quella lettera?”. Vittorio teneva la carta in mano e la fissava in silenzio, continuando a piangere. Poi staccò gli occhi dalla lettera e li posò sul figlio: “Siediti” disse con voce tremante “Voglio raccontarti perchè ho lasciato l’Istria. Devo raccontartelo, però qualsiasi cosa sentirai cerca di non interrompermi e, per quanto possibile, di non giudicarmi”.

“Papà ma che stai dicendo? Perchè dovrei giudicarti?”.

“Tu non capisci. Lascia che ti racconti”.

Allora Vittorio cominciò dal principio e tutto ebbe inizio quando, era solo un ragazzo e quel giorno se lo ricordava bene. Si trovava in piazza Man- la piazza principale della sua città – a disputare il solito torneo di calcetto con gli amici: il gruppetto era molto variabile, chiunque passasse poteva aggregarsi.

La costante erano lui e Gojko: formavano infatti una squadra invincibile, loro due contro tutti sin da bambini. Sapevano entrambi che tra le loro famiglie non correva buon sangue, ma non si erano mai preoccupati di cose che andassero al di là delle partite o delle confessioni sulle ragazze del paese. Quel giorno Gojko stava per segnare un goal da centrocampo, quando Luigi, che già lavorava in città, irruppe sventolando un giornale. Le case del popolo di Trieste e Pola erano state incendiate dai fascisti. Dopo un momento di stupore i ragazzi continuarono a giocare, poiché quelle erano cose da grandi, che non li riguardavano. Quando però i genitori vennero a prendere i figli, il padre di Vittorio lo sgridò: “Te lo dico ora e non te lo ripeterò: devi smettere di uscire con questa gentaglia. Specialmente con Gojko. Sei stato avvisato: se ti vedrò ancora con lui sarò costretto a mandarti via.”

Non vedere più Gojko, rinunciare alle partite, alle risate e alle litigate; fare a meno del proprio migliore amico: come poteva pensare che l’avrebbe mai fatto? Le sue idee squadriste poteva tenersele per sé, sempre dietro a obbedire agli ordini senza nemmeno riflettere un attimo. Lui no, non avrebbe obbedito. Al suo amico non ci rinunciava e non sarebbe certo stata una sfuriata del padre, l’ennesima degli ultimi giorni, a fargli cambiare idea. Vittorio sapeva benissimo che il padre avrebbe insistito; ogni discussione, una piccola battaglia. Ogni frase studiata meglio di una strategia militare.

Roberto ascoltava stordito e Vittorio continuava: sai, non siamo mai stati troppo vicini, io e mio padre, non era certo un padre affettuoso o con cui farsi due chiacchiere. Ma l’ho sempre rispettato, gli volevo bene perché era mio padre, pur avendone un po’ paura. Quella volta andammo avanti a discutere a lungo. Ai tempi non me ne rendevo conto, ma ora capisco che era impossibile dialogare con lui, avevamo pensieri opposti ed eravamo entrambi decisi a combattere per farli valere. Nella sua bocca parole come diverso, altro, italiano, slavo, assumevano connotazioni nere, andavano a identificare due fazioni opposte, nemiche: l’italiano contro lo slavo. Camminavo per le vie della città frastornato, le parole e le frasi di mio padre mi martellavano la testa. La tensione era cresciuta, certo, ma davvero si stava arrivando a una rottura così netta? Non lo credevo possibile e mi sbagliavo. Ormai la volontà degli squadristi era chiara, mio padre era stato chiaro: “Riprendiamo i pugnali, per la salvezza dell’Italia!”, “Lo straniero deve essere cacciato!”, slogan urlati, pieni di odio, che facevano presagire una dura oppressione. Loro però, i tanto odiati “allogeni”, non sarebbero rimasti fermi a guardare, subendo in silenzio le violenze dei Fasci, e Gojko in particolare. Cosa dovrei fare? – Pensavo. Schierarmi contro il mio migliore amico? Gojko è come un fratello per me. Armarmi contro la mia stessa famiglia? Mio padre, a cui nonostante tutto devo la vita. L’unica cosa di cui ero certo era che avrei difeso fino all’ultimo gli amici. Andai alla loro ricerca e quando li trovai percepii nei loro occhi un cambiamento: il loro sguardo racchiudeva un misto di rabbia e inquietudine. Gojko aveva gli occhi fissi a terra, inchiodati al suolo. “Cosa vuoi sporco italiano?” esclamò Vjeko, il più grande della compagnia, “non hai niente da fare qui, torna a casa da tuo padre”. Cercai di difendermi; il fatto di essere figlio di un fascista non faceva di me uno di loro. Gojko cercava timidamente di aiutarmi, finché non decise di mettermi alla prova: “Dimostraci di essere ancora nostro fratello, aiutaci a resistere contro questi maiali, farai la spia per noi, sarai le nostre orecchie e i nostri occhi per vincere questa battaglia”.

Accettai, cos’altro potevo fare?  In quel momento l’unica cosa che mi stava a cuore era non perdere la stima e la fiducia dei miei amici, la stima e la fiducia di Gojko. Ero uno di loro? Allora nemmeno me lo sarei domandato. Certo se mio padre mi avesse scoperto non ci sarebbe più stata alcuna possibilità di dialogo. Ma che cosa fare? Non avevo scelta, dovevo battermi contro l’abuso di potere,  la sopraffazione, la rabbia ingiustificata.

Alla fine del racconto, Vittorio prese una scatola da una mensola e l’aprì sul tavolo, poi guardò Roberto, per invitarlo a studiarne il contenuto, ma il figlio lo osservava senza sapere cosa dire. “Facciamo una pausa papà, vuoi un po’ di te?”.

“Vado io” rispose brusco il padre e con un sospiro si alzò dalla poltrona e uscì dalla stanza. Roberto si sentiva molto scosso, non capiva perché il padre avesse deciso di raccontargli tutte quelle storie, si era sempre accontentato di sapere poco di lui, padre misterioso e inafferrabile. Tornò a guardare la scatola e prese in mano un sottile foglio giallo che recitava:

“P.N.F.- Comando Squadristi-: Attenzione! Si proibisce nel modo più assoluto che nei ritrovi pubblici e per le strade si canti o si parli in lingua slava. Anche nei negozi di qualsiasi genere deve essere una buona volta adoperata SOLO LA LINGUA ITALIANA. Noi squadristi, con metodi persuasivi, faremo rispettare il presente ordine. GLI SQUADRISTI.”

Il padre lo sorprese in quel momento mentre rientrava con due tazze fumanti di tè. Vide cosa aveva in mano Roberto ed emise un grugnito: lo aveva riconosciuto subito, si era conservato bene. Si sedette sulla poltrona e fissò il soffitto,  poi chiuse gli occhi.

“Lo capisci o no che l’italianità è in pericolo? Questi territori sono nostri, abbiamo portato luce e pane in queste terre dimenticate da dio e ora devono esserci riconoscenti! Quel disgraziato di tuo figlio…” Vittorio smise di ascoltare, conosceva bene la dinamica mattutina: il padre inseguiva la madre mentre faceva le faccende di casa e la annegava con i suoi vaneggiamenti. Come tutte le mattine non doveva farsi vedere, il padre gli aveva proibito di frequentare i croati e lui puntualmente sgattaiolava fuori di casa e andava a guadagnarsi la fiducia degli stranieri portando informazioni rubate o eseguendo piccoli atti vandalici di resistenza. Si vestì in silenzio e uscì dalla finestra sul davanzale, lo attendeva un panino con la marmellata avvolto in un panno, uno dei modi della madre per ricordargli che non era solo. La consolazione che trovò in quel gesto materno lo fece sentire in colpa: sentimenti da femmina, così li avrebbe definiti il padre e allo stesso modo Gojko. Il pensiero di una qualche loro somiglianza lo fece rabbrividire, ma era questo il motivo per cui desiderava la consolazione e la rassicurazione della madre: non si sentiva a suo agio né a casa né fuori, con Gojko e gli altri. I discorsi silenziati al suo arrivo erano sempre più frequenti, non si fidavano e non lo consideravano parte del gruppo, gli ricordavano costantemente che lui era italiano , ricco e fortunato: non era come loro e non poteva esserlo. Quel mattino era andato a prendere Gojko e lo aspettava davanti a casa, per iniziare insieme la giornata. L’amico uscì pensieroso ma sorrise quando incrociò il suo sguardo, mentre la madre sull’uscio gli allungava il panino per colazione. Vittorio e Gojko si salutarono scambiandosi i panini. Questa piccola ininterrotta tradizione e l’apparente serenità di Gojko calmarono Vittorio; sembrava una giornata come le tante prima degli incendi, prima del fascismo del padre e prima della nascita dell’organizzazione rivoluzionaria di Vjeko. Si avviarono abbracciati verso la piazza, mentre discutevano di quanto crescessero bene le figlie del panettiere. A pochi metri dal bar, Vjeko discuteva animatamente con Antonio; appena lo vide, Gojko sciolse l’abbraccio e accellerò il passo, assumendo quella posa nuova, che il padre chiamava boria croata e che Vittorio temeva di saper ormai riconoscere anche nell’amico oltre che in tutti i compagni di Vjeko.

“Se non sai leggere te lo spiego io: da ora si parla solo italiano!” Antonio sbraitava e brandiva uno strofinaccio zozzo. Vjeko urlava e insultava l’uomo per le sue origini siciliane mentre i compagni mostravano a Gojko e Vittorio il manifesto affisso sulla porta: il foglio giallo che Roberto aveva preso dalla scatola. Vittorio era sconvolto, come poteva Antonio comportarsi così? Dopo tutti gli anni di fedeltà al bar, tutti i pomeriggi passati a giocare a carte con i vecchi del paese, che sapevano bestemmiare in slavo, in tedesco e in italiano, come poteva pensare che fosse giusto? Come poteva Antonio, preso in giro da tutti perché meridionale, uno scansafatiche terrone che non riusciva ad abbandonare il suo dialetto, pretendere che non si parlasse più una delle lingue con cui tutti loro erano cresciuti e che per tanti era la lingua di famiglia? Vittorio si era perso nei pensieri e non si era accorto che la situazione stava precipitando: Gojko aveva ribaltato un tavolino, imprecando in croato. Vittorio corse a prenderlo da parte per calmarlo “Gojko fermati, se arriva la polizia sei nei casini” ma Gojko se lo scansò di dosso e iniziò ad allontanarsi, Vittorio lo raggiunse di nuovo “Lascia perdere questa stronzata, non ci metterà più piede nessuno da quella merda!”, a quelle parole Gojko si fermò e guardò Vittorio “non capirai mai vero? Tu sei uno di loro” “Io sono dalla vostra parte” “No, lo sai anche tu e comunque nessuno ti vuole, non servi a niente… vattene!” Lo spinse via, ma Vittorio cercò di opporre resistenza, si azzuffarono per poco, interrotti da Vjeko, che prese Gojko sottobraccio e lo portò via, sussurrandogli all’orecchio qualcosa, poi sputò davanti a Vittorio e se ne andarono, senza voltarsi. Vittorio si alzò e andò a strappare il manifesto.“Così tradisci tuo padre e il tuo paese!”, lo rimproverò Antonio, un altro che aveva perso la testa completamente e sapeva solo recitare slogan.

“Cosa avete fatto allora?”, chiese Roberto, interrompendo i ricordi del padre, che gesticolava agitato sulla poltrona.

“Abbiamo smesso di andare al bar, ma poi quei manifesti sono comparsi in chiesa, nei negozi, sulle panchine, sui muri. Ad ottobre hanno chiuso la scuola croata e non hanno più permesso alla mamma di Gojko di insegnare. Li volevano eliminare, li volevano fare sparire”.

“E non avete fatto niente?”. Roberto si pentì della domanda, il padre si era di nuovo rabbuiato e lo aveva guardato storto, come a dire “cosa ne vuoi capire” o magari si sentiva punto sul vivo perché aveva accettato tutto senza combattere, ma la risposta smentì le sue riflessioni.

“Sì”. Gli tolse la scatola dalle mani e tirò fuori un quaderno in pelle, un taccuino; dopo averlo sfogliato in silenzio gli indicò una pagina e se ne andò alla finestra. Stava piangendo? Roberto guardò i fogli che aveva davanti, erano ingialliti e rovinati, inzuppati di una scrittura convulsa e confusa.

“4 novembre 1923: Gojko mi nasconde qualcosa”. Le entrate successive non avevano date, erano frasi telegrafiche piene di scarabocchi, aggiunte, commenti:

“Gojko e gli altri hanno ucciso un gruppo di fascisti. Erano nel bar di Antonio. C’era mio padre, Gojko lo sapeva. Me lo ha detto. Non mi ha chiesto scusa. Ha detto che dovevano farlo. Lo sapeva. Non posso perdonarlo. Sono dei mostri. Anche io ora”

“Papà non capisco, cosa è successo?”

La voce di Vittorio era irriconoscibile, lontana, fredda e meccanica: “Hanno incendiato il bar e hanno ucciso mio padre. Io ho fatto i loro nomi e hanno ucciso Gojko e tutta la sua famiglia. Pensavo fosse giustizia.”

Quella parola risuonava nella sua testa, come un assordante palliativo, mentre gli ufficiali si dirigevano soddisfatti verso la porta d’ingresso. Uno di loro si era girato, e aveva detto “Tuo padre sarebbe fiero di te, hai fatto la cosa giusta.” Vittorio aveva annuito, e poi si era rinchiuso nella sua camera.

Erano arrivati all’improvviso, forse un’ora prima, e avevano cominciato a fare domande sul bar e sui ragazzi, e soprattutto sul suo ruolo in tutta la faccenda. Erano trascorsi un paio di giorni dalla morte di suo padre, ma lui continuava a  non sapere  cosa fosse successo. Incontrare gli altri era stato impossibile, Gojko non si era fatto vedere.

Seduto ai piedi del letto, le dita strette intorno alle ginocchia, Vittorio aveva fissato la parete, provando a dare un ordine alla frenesia.

Il pendolo in salone aveva rintoccato un’ora, ma non importava quale fosse, perché sapeva che quello era il momento in cui i soldati avrebbero fatto irruzione in casa di Gojko. Lui se ne stava di sicuro in camera, a pensare alla mossa successiva, ispirato dai suoi libri, dalle maledette idee che ci trovava dentro. Quante ore trascorse ad ascoltarlo delirare, e a cercare invano di non farsi travolgere dal suo entusiasmo.

Stringendo ancora più forte la presa sulle ginocchia, si era chiesto: “non avrei davvero potuto fare nulla per fermarli?”

Sì, qualcosa avrebbe potuto fare, ma la situazione era sfuggita di mano a tutti.

No, invece, non avrebbe potuto fare niente.

Non ora, no. Forse in passato.

Ma allora era troppo presto, nessuno avrebbe potuto prevedere tutto questo. E comunque era ed era sempre stato impotente, né i suoi gesti, né le sue parole sarebbero serviti a nulla.

Di nuovo, aveva cominciato a camminare avanti e indietro per la sua camera.

Qualcosa aveva fatto, però, sì, aveva denunciato Gojko, che l’avrebbe pagata cara, insieme alla sua famiglia.

Ma a cosa sarebbe servito? Suo padre era morto, e la resistenza sarebbe stata piegata di lì a breve. La massa informe di ribelli sarebbe stata riportata all’ordine: niente più manifestazioni, niente più attacchi, niente più confusione. Gojko, come tutti gli altri, avrebbe ricevuto la giusta punizione. Una punizione terribile, se quel che aveva sentito era vero.

Era tornato nella sala principale, e poi aveva fissato il portone. Lo aveva spalancato, ed era rimasto sull’uscio, per un po’. Poi, di fretta, aveva imboccato le scale, e una volta in strada aveva corso più veloce che poteva, verso il quartiere dove abitava Gojko.

Affannato e coperto di sudore, era arrivato nel momento in cui i soldati lo stavano trascinando via.

Non era riuscito ad avvicinarsi, le gambe erano paralizzate. Radicato in quel punto della strada, aveva desiderato che Gojko si voltasse, e che leggesse nel suo sguardo il rimorso, e il desiderio di rimediare.

Ma Gojko non si era voltato.

In quel momento aveva sentito dei passi avvicinarsi alle sue spalle, sempre più concitati. In un’agitazione crescente, aveva a stento riconosciuto la sorella di Gojko. Aveva fatto in tempo a fermarla, mettendole una mano sulla bocca. L’aveva implorata di non muoversi, ma non era riuscito a spiegarle cos’era successo.

Aveva solo saputo trascinarla via da lì, fino al piccolo fiume appena fuori dalla città, pregando che gli occhi nascosti nei vicoli stretti non li vedessero.

Da quel momento, Vittorio non riusciva più a ricordare molto.

Le aveva chiesto di aspettarlo nascosta tra le rocce sulla riva, sarebbe andato a prenderla quella notte.

Ma nel buio, non l’aveva trovata.

Nei giorni successivi aveva continuato a cercarla, ma era svanita. Non aveva mai scoperto cosa fosse successo, se fosse riuscita a nascondersi, o a fuggire. Se fosse stata catturata.

Pochi mesi dopo, dopo aver perso anche la madre, aveva lasciato come un vigliacco quella terra dove non aveva più fratelli,  dove non aveva saputo appartenere ad alcuna fazione.

Il resto Roberto lo sapeva, c’era stato l’arruolamento, e i viaggi. E poi la guerra. Tornare in Istria non era stato più possibile, e così la sua vita era andata avanti in Italia, il paese al quale dicevano appartenesse. Si era trascinato qui, anno dopo anno, aveva sposato una donna, aveva avuto un figlio. Ma l’Istria era sempre rimasta nella parte più profonda di lui, così che nessuno potesse sapere, scoprire quello che aveva fatto.

“Non chiedermi perché l’ho tenuto nascosto, non farmi questa domanda”, disse Vittorio, dissimulando con un sorriso l’angoscia che gli trasfigurava il volto.

Ma Roberto taceva, puntando il suo sguardo vuoto sul viso di fronte a lui. Avrebbe voluto chiedere tanto, ma quello non era il momento giusto.

“La lettera, viene dalla sorella di Gojko?”

Vittorio annuì, ma non riprese a parlare. Roberto aspettò un po’, poi chiese:  “Cosa c’è scritto?”

“Mi ha cercato a lungo, dice. Lei vuole pensare a quello che è successo, e capire. Parlare con chi potrebbe saperne più di lei”. Respirò, per evitare che la voce si spezzasse. “ Ma lei è andata avanti, è rimasta lì. Non ha mai dimenticato il passato, non ha paura di ricordare, o di scoprire la verità. Invece io non posso tornare indietro”.

Vittorio si alzò in piedi, e si allontanò.

Poi si fermò, di spalle, riprendendo con tono fermo. “Quelle faccende non mi interessano più, è stata la vita di qualcun altro”.

Roberto si oppose alla familiare arroganza del padre.

“Lei ha il diritto di sapere”, disse poi si fermò, indeciso se continuare, spaventato da come il padre avrebbe potuto reagire. “E tu puoi tornare indietro, in Istria”.

Vittorio si voltò verso di lui, con le guance rigate di lacrime.

“Tornare in Istria?”

Roberto non sapeva se sarebbe stato possibile, e quanto dolore avrebbe potuto arrecare. Ma annuì.

“Possiamo andare insieme”.