Verde, bianco, rosso (Chiara Urru, Noemilyn Pasumbal Mayuga)

Fu una serata piacevole. Dopo aver messo i bambini a letto, io e mia moglie Bahareh ci sedemmo sul divano per rilassarci.

– Siamo stati proprio bene stasera, vero Saeed? Ci voleva proprio una bella cenetta tra di noi, dopo la giornata di oggi. Anche i bambini, per una volta, sono stati buoni e calmi

– Sì, hai proprio ragione. Al comune, non so più a chi dare i resti. Da una parte gente per la tessera elettorale, dall’altra, riunioni su riunioni per la scelta degli scrutatori … Insomma, un inferno!

– Dai, pochi giorni ancora e sarà tutto finito. Pure io, oggi in banca, stavo impazzendo. Come ogni primo del mese c’era la fila di anziani per riscuotere la pensione, un macello!

Diedi un bacio sulla fronte a Bahareh: di fronte a “colei che porta la primavera”, non potevo che dirmi “fortunato” (così significano i nostri nomi in Iran).

– Non ci pensiamo, domani è un altro giorno.

Misi l’acqua a bollire e preparai la tisana rilassante da bere prima di andare a dormire.

 

Quel pomeriggio, appena uscita dalla banca, avevo appuntamento per un caffè con la mia amica Anna, che era appena tornata dall’Australia e non vedevo da anni. Il tempo sembrava volare mentre ci aggiornavamo. Sorseggiavamo il nostro caffè, quando alla TV trasmisero il telegiornale locale. Prima notizia: un gruppo di profughi era appena arrivato nella nostra città.

– Sai – mi disse Anna – visto che ancora non ho trovato lavoro, nel frattempo ho deciso di dedicarmi al volontariato. Con questi nuovi arrivi, ce ne sarà molto bisogno. Per il momento, staranno in un caseggiato abbandonato, nell’attesa che il centro di accoglienza venga reso nuovamente agibile. Sono perlopiù iraniani, proprio come te e Saeed! So che lui è molto impegnato per via delle elezioni in questo periodo … Ma tu, che ne dici di venire con me qualche volta? Anche il pomeriggio, quando smonti dal lavoro …

– Eh, magari – le risposi senza darle troppo peso – ma non credo proprio di avere il tempo…

– Puoi farlo quando ti va, senza impegno. Sarebbe davvero di aiuto avere un’iraniana con noi.

Sorrisi un po’ imbarazzata e poi la salutai perché mi ero accorta che era l’ora di andare a prendere i bambini a scuola.

 

Appena arrivati a casa, andai in cucina per preparare la merenda.

– Lo sai mamma – cominciò Giacomo – oggi in classe sono arrivati due nuovi compagnetti e la maestra ci ha detto che dobbiamo aiutarli, perché sono iraniani e non parlano italiano…

– Io ho provato a dire a uno di loro: iinaa aismi markw  [1] – aggiunse Marco, il più grande – ma non mi ha risposto. Magari ci potete insegnare qualche altra parola per parlare con loro!

Io risi e gli risposi di sì. Il discorso non si protrasse oltre perché avevo detto loro di darsi una mossa a fare i compiti, visto che il diario ne era pieno.

Intanto, però, la notizia di questi profughi miei connazionali arrivati a Fiorebello, la proposta di Anna e il racconto dei miei figli, avevano reso la mia giornata diversa dal solito, perché non mi aspettavo ci fossero altri sbarchi e pensavo che la situazione in Iran si fosse calmata. Evidentemente mi sbagliavo.

 

– Buongiorno tesoro! Ecco un caffè bello carico per iniziare questa nuova giornata!

Bahareh mi sorrise, stropicciò gli occhi, poi si sedette sul letto e apparecchiai, con il vassoio sulle sue ginocchia, la nostra piccola colazione. Bevemmo il caffè e scambiammo qualche parola, tra scherzi e risa. Poi, guardando le tazzine di ceramica iraniana che ci avevano regalato i suoi genitori, lei fece un cenno come se si fosse ricordata improvvisamente di qualcosa.

– Sai Saeed, – mi disse – ieri, parlando con Anna, ho scoperto che sono arrivati nuovi profughi iraniani.

– Già, – risposi – lo so. Purtroppo, a questo scempio non ci sarà mai fine.

– Anna mi ha detto che andrà a dare una mano nel caseggiato in cui li hanno sistemati. Mi ha proposto di andare con lei ogni tanto e…penso che lo farò. Ha pure un bel nome il posto! Lo hanno chiamato Il Girasole.

– Ma dai… tra il lavoro e i bambini non abbiamo nemmeno il tempo per noi stessi, figurati se puoi trovarne anche per il volontariato! Ora va’ a svegliare i bambini, ché è già tardi, io devo correre a prepararmi. A dopo tesoro.

 

Mentre aspettavo Giacomo e Marco all’uscita di scuola, vidi passare Anna, che stava parlando con due donne che portavano il chador.

– Ciao, Bahareh! – salutò Anna, appena mi vide – sono qui anch’io a prendere mia figlia. Vieni: ti presento Azita e Balour. I loro figli sono stati inseriti nella classe proprio ieri.

Io sorrisi e feci un cenno di saluto con la mano. Poi sentimmo il suono della campanella e vidi Giacomino e Marco arrivare insieme alla piccola Susanna, figlia di Anna, e ai due bimbi iraniani.

– Mamma, possiamo andare con loro? – mi disse Giacomo – La maestra ci ha chiesto se possiamo aiutarli coi compiti, così possono imparare a parlare italiano e poi possiamo giocare insieme. Dai, ti prego!

– Bahareh, è destino allora! – intervenne Anna – che ne dite di andare tutti insieme al Girasole?

Io lì per lì non sapevo cosa dire, perché volevo solo tornare a casa e riposarmi. Però non me la sentivo di rifiutare, in cuor mio non vedevo l’ora di conoscere meglio Azita e Balour, di dare loro una mano, e in più vedevo i bambini già entusiasti all’idea di stare insieme. Così andammo.

Il Girasole si trovava nella periferia di Fiorebello. Anna mi spiegò che tutto ciò che vedevo era stato organizzato e reso possibile solo e soltanto dai volontari, poiché ancora non c’erano fondi destinati a questo gruppo di profughi appena arrivati. I volontari erano una decina e si erano organizzati in turni per garantire sempre una presenza di riferimento. C’era una cinquantina di persone della mia nazionalità; sui loro volti si leggeva quanto fossero debilitati dal viaggio, affamati e soprattutto, tristi, perché si trovavano lontano dal loro paese e dalla propria famiglia. Dormivano tutti in una stanza, chi con sacchi a pelo, chi con solo coperte. Mi guardavo intorno e pensavo a mio marito, che a suo tempo aveva vissuto la stessa situazione.

Anna mi disse che a quell’ora era il suo turno e aveva delle faccende da sbrigare, così mi accompagnò da Azita e Balour, nell’attesa di liberarsi, mentre i nostri figli, nel frattempo, si erano sistemati in una stanza per fare i compiti tutti insieme.

– Da quanto tempo sei in Italia? Tuo marito è italiano? – mi chiese per prima Balour.

– Sono qui da quindici anni – risposi – Mio marito è iraniano come me, ma ci siamo conosciuti qui in Italia. I miei genitori in Iran sono avvocati e hanno voluto mandarmi all’estero per studiare, perché dopo la guerra con l’Iraq il nostro paese era a pezzi. Così mi sono trasferita in Italia anni fa e ho intrapreso la facoltà di economia; ora lavoro in banca.

Vidi Azita che mi guardava con aria di stima.

– Wow, che brava, e che fortuna hai avuto! Non so se sai com’è la situazione nel nostro Paese: il clima tra Iran e Israele è sempre più allarmante, sta per scoppiare la guerra che abbiamo sempre temuto. Si sono verificati diversi conflitti armati e mio marito è morto in uno di questi. Mi sono ritrovata costretta a fuggire perché non eravamo più al sicuro. Abbiamo incontrato lei – indicò Balour – e suo figlio Darioush una volta sul barcone. Abbiamo viaggiato per giorni e giorni, tra forti tempeste e senza cibo, pensavo che non saremmo mai arrivati…

Azita scoppiò a piangere e non riuscì a proseguire il racconto. Mi avvicinai a lei con un fazzoletto e le accarezzai la testa per cercare di confortarla.

In quel momento arrivò anche Anna, che aveva finito di sbrigare le faccende e teneva in mano un piatto con un bel dolce.

– Che meraviglia, ma questo è l’halva’! – commentai, cercando di tirare su il morale ad Azita parlando d’altro. Assaggiammo il dolce budino di riso e continuammo la conversazione parlando di cucina iraniana e italiana e Azita pian piano si riprese.

 

 

Non vedevo l’ora di arrivare a casa per la cena. Ogni giorno nuove faccende da sbrigare, nuove persone da contattare…ero sfinito. Finalmente, da quel giorno, le elezioni si erano concluse.

Appena aperta la porta di casa, sentii un odore familiare di prezzemolo, menta, finocchietto, curcuma…un profumo antico, che non sentivo da tanto.

Una volta entrato in cucina, tutto fu chiaro: mia moglie aveva imbandito una cena iraniana. La tavola era un trionfo di colori: il giallo oro della curcuma e dello zafferano si mescolava armoniosamente al verde delle verdure a foglia e al bianco del riso, disposto a montagnetta in un piatto. Il profumo che avevo sentito entrando era quello inconfondibile della kuku’-ye sabzi, la frittata di verdure ed erbe aromatiche che si trovava sul tavolo, accanto al khoresh gormeh sabzi. Di fronte a quello stufato di carne, con fagioli e verdure, sembrava di essere tornati magicamente indietro di anni, in Iran, quando da bambino rientravo a casa la sera con mio fratello e mia madre ci preparava mille prelibatezze. Per me oramai erano sapori dimenticati: io e Bahareh non usavamo mai cucinare iraniano, la cucina italiana ci piaceva molto ed eravamo bravi entrambi ai fornelli, mentre quella iraniana era più complessa, soprattutto per noi, che avevamo lasciato il paese da giovanissimi. Io avevo molti ricordi delle pietanze che preparava mia madre, ma era come se fosse un sogno, un’altra vita; sentire quei profumi, dopo tutto quel tempo, era un tuffo nel passato.

– Ciao tesoro! Come mai hai preparato cibi iraniani stasera?

– Ciao Saeed, ben arrivato! Oggi pomeriggio sono andata con Anna e i nostri bambini al Girasole. Ho chiacchierato a lungo con i nostri connazionali e abbiamo parlato tanto dei nostri cibi! Mi è venuta voglia di mangiare persiano e ho provato a fare qualcosa. Dopo anni mi sono sentita ispirata!

Io avevo già iniziato ad assaggiare la frittata, poi lasciai il pezzo che avevo preso nel piatto e la guardai contrariato.

– Ma … Bahareh, non mi sembra una buona idea portarci i bambini, non è un ambiente adatto.

Bahareh mi guardò come se avessi detto chissà che cosa.

– Ma che dici! Si sono divertiti un mondo con la figlia di Anna e gli altri bambini: hanno subito fatto amicizia e giocato assieme.

– Non è questo il punto. Non è un luogo adatto a loro: succedono cose orribili. Non voglio che Marco e Giacomo le vedano, né che magari pensino che siamo… come quei profughi.

Mia moglie a questo punto sgranò gli occhi e iniziò ad alzare la voce.

– Saeed, quali cose orribili? Ma smettila! È giusto che i nostri figli sappiano che non tutti sono fortunati. Ed è giusto che entrino in contatto con dei nostri connazionali! Hanno solo da imparare.

– Non voglio che ci vadano, punto e basta. – replicai sbattendo la brocca dell’acqua sul tavolo. – E non ci dovresti andare neanche tu, visto che ti lamenti di continuo perché sei troppo impegnata … Che c’è? Adesso hai magicamente trovato il tempo pure per fare volontariato?! Se Anna ci va è un altro discorso, è disoccupata e deve trovarsi qualcosa da fare. Io e te abbiamo una famiglia di cui occuparci, prima di pensare ai profughi. E soprattutto non coinvolgere i nostri figli!

– Ma perché? Si sono trovati bene assieme ai bimbi iraniani. Poi li aiutano a fare i compiti. E io di tempo ne ho, non è vero che mi lamento!

La discussione stava diventando troppo accesa e impegnativa, così troncai il discorso.

– Bahareh, basta. Non voglio più sentir parlare di questi profughi! Già se ne sente abbastanza in tv! Sono stufo! Cambiamo argomento per favore. E mangiamo, sono stanco.

Speravo che Marco e Giacomo non avessero sentito niente dalla loro cameretta, ma a tavola si accorsero che io e Bahareh non eravamo tranquilli e sorridenti come al solito: né io né lei mangiammo con appetito. La cena iraniana che Bahareh aveva preparato con tanto entusiasmo finì per avanzare al giorno dopo. Misi a letto Marco e Giacomo e poi andai a dormire con la mia tisana poggiata sul comodino. Lessi qualche pagina del giornale mentre la sorseggiavo: non mi andava di parlare con Bahareh. Poi crollai in un sonno profondo, tormentato da incubi.

 

Sono infreddolito. Mio fratello Arman si poggia su di me, battendo i denti per il freddo. È notte e abbiamo ormai perso le speranze. Mia madre ha pagato più di 10 000 dollari americani affinché non ci separassero durante il viaggio. Siamo partiti da Teheran in un tir, mio fratello in braccio a me, nel cassone insieme a più di cento persone. È stata una corsa senza soste e senza cibo né acqua fino al Kurdistan, dove abbiamo incontrato i quchakhbar[2] curdi che ci hanno condotto lungo un sentiero tra i monti, a piedi fino alla Turchia. Arrivati a Smirne, abbiamo aspettato cinque ore in spiaggia nell’attesa d’imbarcarci come ci è stato promesso. Ho rubato da una barchetta lì ormeggiata un giubbottino di salvataggio. – Tieni Arman – ho detto a mio fratello – questo prendilo tu ché sei il più piccolo. – Poi, una volta sulla barca, rimaniamo per tre giorni in navigazione. La barca è vecchia e noi ammassati uno sull’altro, senza cibo né acqua. I trafficanti avvistano le coste della Grecia e improvvisamente ci ordinano di saltare in mare, minacciandoci con le armi. Finiamo in acqua. Vediamo la spiaggia, ma l’acqua è ancora alta e gelida. – Arman, sono qui – dico a mio fratello guardandolo negli occhi e cercando di tenergli la mano, mentre tenta di reggersi a galla – Non aver paura, presto tutto questo sarà finito. Verranno a salvarci e arriveremo in Grecia e poi ci porteranno in Italia! – cerco di rassicurare mio fratello mentre vediamo, in lontananza, una nave. Tutti gli altri attorno a noi muovono le braccia, urlano, piangono. Nella confusione che si è creata, Arman perde il giubbottino e io cerco di tenerlo per mano, perché ancora non sa nuotare. Ma le onde sono talmente forti che ci allontanano. – Saeed! – comincia a urlare agitando le braccia – Saeed! –. Poi più niente. Sparito, inghiottito dalle onde del mare. Chiamando il mio nome.

 

Erano ormai passate due settimane da quando ero stata per la prima volta al Girasole. Sia io che i bambini ci eravamo trovati così bene che avevo deciso di frequentarlo assiduamente, nonostante le proteste di Saeed. Io aiutavo Anna e gli altri volontari e, allo stesso tempo, avevo legato sempre più con Azita e Balour; con Azita, in particolare, si era creato un rapporto speciale. Il giorno in cui ci eravamo conosciute mi aveva soltanto accennato come fosse arrivata in Italia, ma poi, col tempo, aveva iniziato ad aprirsi sempre di più e quel pomeriggio mi raccontò per filo e per segno l’avventura che aveva dovuto affrontare. Un’avventura che mi era familiare, perché mi ricordava quella di mio marito Saeed.

– Abbiamo incontrato Balour e suo figlio Darioush sul barcone. Eravamo le uniche donne lì sopra, con questi due bambini che tremavano e piangevano. Non abbiamo potuto, o meglio voluto, dire nulla, durante quel terribile tragitto. Ci siamo solo guardate negli occhi, per dirci senza parlare “ce la faremo”, per farci forza l’una con l’altra.

Poi proseguì, raccontando di molti uomini cascati in mare e affogati durante le tempeste, e di altri deceduti lì a bordo, vicino a loro, non avendo resistito al freddo delle nottate.

Poi, tra le lacrime, mi ringraziò perché ero stata lì ad ascoltarla e a confortarla. Dopo aver calmato Azita, io e Anna iniziammo a preparare la stanza per la sera. Mentre eravamo nella sala a sistemare i sacchi a pelo per terra, sentimmo dei rumori di pneumatici frenare. Facemmo appena in tempo a posare per terra l’ultimo sacco a pelo, che fuori si scatenò un gran fracasso. Si sentivano cani abbaiare e grida di uomini. Io e Anna ci precipitammo all’ingresso, dove c’era una pattuglia della polizia che ci stava urlando al megafono di evacuare l’edificio immediatamente.

– Il nuovo sindaco ci ha ordinato di mandarli via da qua perché hanno occupato abusivamente l’edificio, grazie a voi. Fate uscire tutti quanti o saremo costretti a intervenire con la forza! – disse uno dei poliziotti, con aria cagnesca.

Intanto i bambini avevano sentito il frastuono ed erano usciti anche loro, spaventati. Giacomino si nascose tremando dietro le mie gambe e anche gli altri bambini, come lui, erano terrorizzati e piangevano avvinghiati alle loro madri.

C’erano urla di paura, cani che abbaiavano aizzati dai poliziotti, bambini che piangevano. Vedendo che i profughi erano troppi per poterli mandare via tutti insieme, il maresciallo ordinò di lasciar perdere l’operazione di evacuazione e di sequestrare coperte, abiti e tutto ciò che avrebbero trovato all’interno del caseggiato. Io e Anna non sapevamo come reagire. Giacomo e Marco piangevano, urlavano, i loro occhi mi chiedevano perché stesse succedendo tutto ciò. Io non potevo fare altro che abbracciarli, in un angolo, e dire loro che si sarebbe risolto tutto presto. Alla fine dell’operazione, il maresciallo si avvicinò a me ed Anna, ci chiese i documenti e ci fu ordinato di seguirli in questura. Non avemmo scelta. Mentre andavamo verso la macchina della polizia, chiamai Saeed.

– Pronto, Saeed? Senti, non posso parlare tanto. Ti devo chiedere di venire in Questura a prendere Giacomo e Marco, stiamo andando lì. Poi ti spiego.

L’interrogatorio durò circa un’ora, poi uscimmo in corridoio, in attesa. In quel preciso istante arrivò Saeed. Il commissario lo riconobbe e, dopo qualche resistenza, si lasciò convincere a lasciarci andare senza altre conseguenze.

Arrivammo a casa. Era ormai sera inoltrata e portai a letto i bambini, che crollarono subito in un sonno profondo. Stavo per andare in bagno, quando sentii la voce di Saeed che mi chiamava.

– Bahareh! – iniziò ad urlare mentre scendevo le scale – Ti avevo avvertito. Ti avevo detto di non andarci. Questa è la goccia che ha fatto traboccare il vaso! – mi guardava con gli occhi pieni rabbia, puntandomi il dito contro mentre nervosamente camminava avanti e indietro – Domani tutti sapranno che mia moglie è stata interrogata in Questura! Lo sai cosa significa questo, per noi? Non hai pensato al mio lavoro? Ma figurati, hai voluto fare di testa tua! – lo guardai e gli feci cenno di abbassare la voce, ma mi ignorò completamente. –  Ti sembra normale che Giacomo e Marco abbiano assistito a tutto questo?! E poi … dopo tutto quello che ho passato, mi fai una cosa del genere?! Ma a cosa stavi pensando?

Se fino ad allora lo avevo ascoltato con gli occhi bassi e sentendomi anche un po’ in colpa, da quel momento iniziai anche io a rispondergli alzando la voce – Saeed, non pensavo mai che sarebbe potuta accadere una cosa del genere! Sono consapevole del tuo passato e dei sacrifici che hai fatto per arrivare a ciò che sei ora, però appunto per questo sono andata lì, affinché queste persone possano avere un futuro, come è stato per te! – gli dissi, guardandolo negli occhi. Poi mi girai per andare a prendere un bicchiere d’acqua in cucina.

– Bahareh – mi disse, trattenendomi per un braccio – stammi bene a sentire: nessuno mi ha aiutato. Io mi sono fatto da solo. Mi sono dovuto rimboccare le maniche e mettermi d’impegno per diventare ciò che sono! Altro che volontari!

Tirai via il braccio dalla sua presa, riuscii ad arrivare in cucina e presi un bicchiere d’acqua per entrambi. Li posai sul tavolo in sala e mi sedetti, invitando anche lui a sedersi accanto a me. Mi sforzai di assumere un tono più pacato.

– Va bene, ti sarai anche fatto da solo. Ma è inutile che rinneghi il passato vietando a me e ai bambini di avvicinarci ai profughi nostri connazionali. Sono sicura che se Marco e Giacomo ci familiarizzano fin d’ora, rimarranno molto meno sconvolti un domani, quando dirai loro che anche tu sei stato profugo – gli dissi, cercando di prendere la sua mano tra le mie.

– Capisco che tu adesso non ti senta pronto a parlargliene, ma in fondo prima o p… – il mio gesto non era servito. Saeed sembrava implacabile. Strappò via la sua mano dalla mia presa e si avvicinò alla vetrata della sala, guardando fuori, prima di girarsi nuovamente verso di me e urlare:

– Bahareh, BASTA! I miei figli non devono vedere certe situazioni! Dovrebbero pensare solo a giocare e alla scuola!

– Ma Saeed, è proprio per giocare che ce li ho portati! Dovevi vederli, come erano contenti…– replicai, ormai sfinita dalla discussione e guardandolo con sguardo implorante.

– Bahareh, Non so più come dirtelo! Con oggi la faccenda del centro di accoglienza e dei profughi è chiusa! Chiaro?!

Se ne andò in camera, sbattendo la porta. Ero confusa. Tra le lacrime, da una parte non riuscivo a capire Saeed e i suoi ragionamenti, mi sembrava di non riconoscerlo più; dall’altra, però, mi sentivo come se avesse perso fiducia nei miei confronti, perché avevo esposto troppo i bambini e forse in questo non aveva tutti i torti.

 

L’aria era tesa da quando io e Bahareh avevamo avuto quella discussione. Davanti ai bambini cercavamo di far finta di niente, ma Giacomo e Marco si lamentavano continuamente e chiedevano di andare al Girasole per giocare. Allora io cercavo di far capire loro che non era un posto sicuro. Non avrei mai voluto che i miei figli assistessero allo sgombero ma almeno avevo un pretesto per farli allontanare definitivamente dal Girasole e dai profughi. Da quando era iniziata la storia di quei migranti, nonostante la tisana rilassante, non era passata una notte senza incubi: rivivevo l’episodio della morte di Arman. Sentivo la sua voce che mi chiamava.

Quel pomeriggio mi liberai prima del previsto e pensai di tornare a casa subito per riposarmi e trascorrere un po’ di tempo coi bambini. Mentre attraversavo il cortile, dalla vetrata mi sembrò di vedere un bambino che giocava coi miei figli. Poi, entrato in casa, capii cosa stava succedendo: Bahareh aveva portato a casa nostra uno dei piccoli profughi per giocare con Marco e Giacomo. Ancora una volta, aveva trovato un modo per frequentare quella gente. Stavo per esplodere in un accesso d’ira, quando Bahareh si alzò.

– Arman! – disse rivolta a quel bambino – Vieni, ti voglio presentare una persona – e poi, indicandomi sorridente – Questo è mio marito, il papà di Marco e Giacomo, si chiama Saeed.

E lui, Arman, il nome di mio fratello. Negli occhi di quel bambino iraniano, lo stesso sguardo indifeso. Il mio Arman non ce l’aveva fatta. Rividi le onde del mare e poi di nuovo quel bambino, di nome Arman, di fronte a me. Allora mi sovvenne un pensiero: forse non tutto era perduto. Forse a questo mondo c’era ancora speranza. Arman in persiano significa “speranza”. Sorrisi al bambino, poi mi sedetti per terra e mi misi a giocare con lui e i miei figli, insieme alla mia amata Bahareh.

Raccontai loro come in fondo culture, tradizioni, cibi, lingue e simboli spesso possono avvicinare persone lontane: verde, bianco e rosso sono anche i colori della bandiera iraniana! E che importa se sono orizzontali!

[1]
[1] “Io mi chiamo Marco” in lingua persiana

[2]
[2] Mafiosi