Una storia contemporanea (Greta Biondi, Ada Maria De Angelis, Carla Gambetti Selva, Simone Kaev)

Mercoledì 27 gennaio 2018, Sant’ Angela Merici, Giorno della memoria: resoconto

07.45: sveglia

08.30: passeggiata Nemo: {casa – Via Farini – Municipio – Via Taddei – casa} (ultimamente mi sembra stanco di fare lo stesso giro. Tira, tira, tira… i cani non dovrebbero essere abitudinari?)

09.00: ufficio (ma la casa? ho chiuso a chiave due o tre volte?)

10.45: femmina, occhi verdi, capelli castani, statura 1.68, segni particolari: nessuno (si sarà accorta che ho fissato per tutto il tempo quell’orribile neo sulla sua faccia? Avrei voluto strapparlo via, si sposava terribilmente con il resto del viso. Promemoria: pagare il resto degli alimenti del mese alla moglie). Nome: Anceschi Laura
Professione: educatrice (eccone un’altra di quelle cooperative sociali, ma “lavorano” tutti lì?)
Pratica: richiesta duplicato carta identità (Ma allora è un vizio, è già la seconda volta quest’anno, come si fa ad essere così distratti? Ma ce l’aveva anche prima quel neo? Come ho fatto a non accorgermene?)

11.02: maschio, occhi castani, capelli castani, statura: 1.75, segni particolari: nessuno (nonostante il colore della pelle stonasse parecchio con le pareti del mio ufficio). Nome: Zal Benjidida Abdessamad (Un altro di quei nomi impronunciabili, un’altra perdita di tempo.Non so nemmeno se lo sto riportando corretto… vabbè non importa)
Professione: non pervenuta (ti pareva…)
Pratica: richiesta carta d’identità

11.30: pausa caffè, macchiato – lettura giornale, il terzo da sinistra in edicola: L’eco di Bergamo. Notizie: Le proiezioni elettorali per la prossima chiamata alle urne; il capo cosparso di cenere di un assessore nominato dal sindaco; l’insindacabile ordinanza antibivacco; un’antica specie di manta in via di estinzione, chiamasi anche razza marina; l’emergenza umanitaria nel mediterraneo: la collocazione in provincia di alcuni migrant‡

(Eh? Che succede?! Pesto ripetutamente il tasto della I, ottenendo un buco sul foglio inceppato. Abbasso lo sguardo e osservo terrorizzato le due estremità del nastro della mia Olivetti. Rotto… Rotto! Rotto, spezzato in due, sfasciato! Ma che ca… che ore sono? Le 22.12. Olivetti Lettera 22. Bloccata. Bloccata. Bloccata come il mio fiato in gola alla vista dei martelletti che fino a trenta secondi fa battevano il ritmo delle mie 24 ore… ora si intravedono minacciosi attraverso la voragine nel nastro rosso e nero. Li sento stringermi il collo in una morsa di metallo.

Il rubinetto! Ecco, meglio, l’acqua mi scorre fresca tra le dita, passo la saponetta tre volte sulla superficie delle mani, le asciugo. Giro il rubinetto, una, due, tre volte. Sento rallentare il battito cardiaco, la morsa metallica si allarga, le aste della Olivetti tornano nella posizione naturale. La macchina si staglia verde sul biancume del soggiorno, il solito tranquillizzante verde ospedaliero che mi trasporta il cervello in lidi quieti e disinfettati.

Migrant.

Alla vista della parola su cui la macchina ha dato forfait, il cuore accelera di nuovo. Che significa? Perché ti sei fermata in questo punto? Insieme all’ansia, sento crescere un odio viscerale verso questa parola monca: migrant, migrant, migranti. Dannata I! Una I… mi ricorda qualcosa. Una I in stampatello che risalta dentro un logo… MultIcopy…  ma certo, MultIcopy, 13 mm, la marca del nastro, dei nastri, ne avevo almeno due o tre dentro la scatola, ma dove sarà?

Il latrato di Nemo mi interrompe: avrà fame. Non so se per buon dovere di padrone o per cercare un’occupazione alle mani tremanti, raggiungo la mensola e prendo una scatoletta. E la scatola dei nastri? Dove sarà quella maledetta scatola?! Nemo continua ad abbaiare e i suoi versi si confondono con il suono del campanello. Chi può essere? Ore 22.23. Sulla soglia appare quello che sembrerebbe un ragazzo.

«Ciao Pa…» sembrerebbe invece mia figlia. Nemo le corre incontro scodinzolante.

«Ciao…».

«A volte sembra che non ti ricordi manco il mio nome… Ciao, Nemo!»

«Che ti sei fatta ai capelli? Sembri un maschio…» dico osservando la sua testa rasata. Lucida come la superficie di un pallone aerostatico.

«È il motivo per cui sono qua… tu piuttosto, cosa ci fai con quella cosa in mano?» chiede indicando la scatoletta di cibo, per poi sbattere la porta e buttare il suo zaino sudicio sul mio divano diafano.

L’accostamento mi ricorda l’orribile neo della ragazza delle 10.45.

«Ma insomma!» urlo strappando lo zaino dal divano e allineandolo al ficus del soggiorno. Prendo le chiavi dalla mensola, infilo la chiave nella serratura, dò tre giri…

«Non basta un giro?».

«Lascia stare, siediti piuttosto, che è successo?» le dico buttando un occhio alla macchina da scrivere.

Lei si avvicina al tavolo, prende due sedie, si sistema sulla prima e allunga i piedi sulla seconda.

«Tira giù quei piedi dalla sedia!».

«Va bene, va bene» li toglie e mi guarda corrucciata.

«Insomma, vuoi parlare? Mi spieghi perché ti sei introdotta in casa mia a quest’ora? Non potevi chiamarmi, mandarmi un messaggio, che so?».

«Senti, ho scazzato con la mamma».

«Per quella cosa in testa?» le dico mentre mi dirigo a riporre la scatoletta… mamma, scatola, moglie… la scatola! La scatola con i nastri, l’ho lasciata nella vecchia casa!

«Sì, figurati, ha detto che non mi voleva vedere “ridotta così”» dice piegando ripetutamente l’indice e il medio di entrambe le mani, «allora le ho detto che me ne andavo, così non mi vedeva più sul serio e…».

«E…?».

«Sono venuta qua. Non ti importa vero? Cioè, è un problema se rimango stanotte? Eh? Per favore…»

«Bah… Va bene, ma solo per questa notte, che poi quella se la prende con me e io non c’ho la benché

minima voglia di essere coinvolto in queste cose…».

«Grazie, grazie!» mi fa, e mi si lancia addosso a braccia aperte. La stringo anch’io e con un leggero imbarazzo le accarezzo la testa rasata, mentre un tanfo di tabacco mi si insinua molesto nel naso.

«Senti, tesoro, sai mica se tua madre ha ancora quella scatola che avevo lasciato a casa vostra?».

«Che scatola?».

«Dai, avevo lasciato una scatola, uno scatolone da voi, dopo che io e la mamma…».

«Ah, ho capito quale!  Ma l’ha buttato via quando te ne sei andato!».

«C…Cosa?» le stacco le braccia di dosso, e la guardo terrorizzato.

«Che hai?».

«Niente…comunque…comunque puoi dormire in camera mia. C’è un altro paio di lenzuola nell’armadio, cambiale mi raccomando, io dormirò qui sul divano, vai pure che devo ancora sbrigare due robe…» le dico con voce metallica, sentendomi tremare le corde vocali.

Si allontana, non può affatto immaginare cosa devo sbrigare. Devo devo devo finire il resoconto. C’è chi teme di non arrivare a fine mese: io senza il mio resoconto non riesco ad arrivare a fine giornata. Ma come fare? Mi guardo intorno e tutto mi sembra in ordine, tutto è al suo posto e per un attimo l’angoscia abbandona i pensieri. Ma io lo so, lo so, lo so benissimo che sto evitando di guardare la scrivania. Eccola lì, nella coda dell’occhio: mi basterebbe spostare lo sguardo di un millimetro per metterla a fuoco. Conto fino a tre, faccio tre bei respiri e sprofondo sul divano. Ai miei piedi si sistema Nemo, che sbuffa, e lo capisco: mia figlia sta urlando al telefono con chissà chi nell’altra stanza.

Ho la testa che mi scoppia, devo uscire di casa, passeggiare e riflettere su una soluzione a breve termine. Prendo il guinzaglio appeso al solito posto e dò una, due, tre mandate per aprire la porta e altre tre per chiudermela alle spalle. Serrandola, avverto le chiavi come il naturale proseguimento delle dita, ne tocco i meccanismi interni, controllo ogni minuscola vite. Succede lo stesso quando abbasso la tapparella prima di andare a dormire: la tiro giù fino alla fine, la sollevo leggermente, per poi chiuderla davvero la terza volta, con forza, fino a che le stecche non sono tutte allineate e serrate. Come chi ha bisogno di spremere il tubetto del dentifricio dal fondo, o chi scrive sempre con l’inchiostro blu.

Mi guardo i piedi e cammino in strada, calpestando i masselli a lisca di pesce del marciapiede –  ma solo quelli più grandi, dove il mio 43 calza alla perfezione. Uno sì e uno no. Ormai conosco la sequenza a memoria, potrei farlo anche ad occhi chiusi. Marcio su quel pavimento – un, due, tre, – come un bravo soldato e intanto rifletto sul problema del nastro. Potrei ordinarlo online oppure mandare mia figlia a casa a cercare la scatola… Ma… un momento. Cosa sono queste tre pietre che ho davanti? Non c’è nessun massello numero 43 davanti a me. Non so più dove mi trovo.

Alzo lo sguardo e vedo che Nemo ha deviato dal nostro solito percorso. Mi fermo. Vedo fari in lontananza, in quello che sembra un parcheggio. Sento motori di auto e il brusio di un coro di voci. Ecco cosa è stato ad attirare la sua attenzione. Provo a tirare Nemo per tornare indietro, ma è troppo tardi. Colto alla sprovvista, resto pietrificato nella linea d’ombra tra un lampione e l’altro. Le auto partono all’improvviso, le voci si interrompono.

Il guinzaglio mi scappa dalla mano e in un attimo Nemo è lontano. Lo rincorro, lo riagguanto, tiro su la testa e soltanto adesso riconosco il parcheggio e l’edificio che c’è alle spalle: è il mio vecchio liceo. Ormai è abbandonato da una vita, cosa ci facevano lì quelle persone? Chi erano? Che importa.

Non ho un bel ricordo di questa scuola. Tutti dicono che il liceo è il periodo più bello di una vita. Quanto a me, ricordo solo voti mediocri, ragazze inavvicinabili e compagni di classe esaltati. Una scena mi attraversa la mente, come se qualcuno avesse cliccato play e fatto partire un film che mi ritrae dall’esterno.

Alcuni miei compagni stanno aggredendo Ivan, l’ultimo arrivato. Lo hanno fatto inciampare e poi preso a calci, solo per il gusto di sentirsi supplicare di smettere. Lui mi considerava suo amico, io non riuscivo nemmeno a guardare quella scena. Sono il solo rimasto in classe e potrei aiutarlo ma non lo faccio, sono incapace di muovermi e spero solo che non se la prendano anche con me. Stacco. Cambio di scena.

Eccomi, mentre attraverso il lungo corridoio che conduce alla presidenza. Entro. La preside sta seduta alla sua imponente scrivania, davanti a lei una pila di carte pronta a sommergerla. Neanche il tempo di sedermi e inizia a chiedermi perché non ho preso posizione nella rissa in classe. In quel momento, l’unica cosa che mi interessa è la posizione della bellissima macchina da scrivere che ho davanti. Verde, elegante e sinuosa. Zoom sulle sue pesanti dita ingioiellate che picchiettano sui tasti di quel meraviglioso strumento dal battito irregolare…

Il film si interrompe, ma non il ticchettio dei tasti. E se la macchina fosse ancora lì? Devo riuscire ad entrare… c’è sempre stata una porta difettosa, sul retro. La raggiungo facilmente ma mi blocco – cosa sto facendo? E se ci fosse qualcuno? Sento il guinzaglio tendersi, Nemo mi incoraggia a prendere iniziativa, a tirare giù quella maniglia.

Dentro, solo buio e silenzio. Il fascio emesso dalla torcia del cellulare scava nelle tenebre, illuminando una ragnatela e cumuli di polvere. Spengo e accendo la luce una, due, tre volte, ma la ragnatela rimane lì, Nemo tira il guinzaglio, e mi costringe ad addentrarmi nel corridoio. Cerco di pensare al placido verde della Olivetti, per respingere l’immagine della lordura che ho davanti, finché non scorgo la scala che dovrebbe condurmi al secondo piano. Alla presidenza.

Per non inciampare mi illumino i piedi e lo sguardo mi cade su un particolare: il laccio della scarpa destra sembra allentato… meglio allacciarlo subito, con tre giri stretti – com’è che si dice? Meglio prevenire che curare, come chi lava le arance con l’Amuchina o ingoia pillole al primo starnuto.

Ancora pochi scalini e raggiungiamo il piano della presidenza. Eccola lì, in fondo al corridoio, esattamente come ricordavo. La porta socchiusa ci invita ad entrare, perciò accelero. Un passo, due passi, tre passi e la luce metallica smette di tremare, illuminando la scrivania.

La vedo.

Sollevo il telo cerato e apro il coperchio: una Olivetti, come la mia, con i tasti che fanno quel toc toc toc uno a uno, come una sorta di jam session, un suono sincopato, disordinato, una sequenza che segue il flusso dei pensieri. Però – che schifo! Ascolto dentro di me il ritmo dei tasti e non mi accorgo che la polvere di decenni ha creato un velo unto e compatto, in cui ho immerso le dita.
Eppure il nastro mi serve, e ci sono così vicino. Tre respiri profondi e allungo la mano, lo afferro e mentre lo estraggo sento il rumore di un’auto provenire dal parcheggio. Nemo ringhia nel buio. Mi manca l’aria: antica sensazione. Cosa ci faccio qui, in questo luogo, davanti a una vecchia macchina da scrivere?

Devo andarmene immediatamente. Rimonto il coperchio, richiudo la macchina nella custodia, l’afferro, e corro verso l’uscita.

Scendo la scala opposta, quella che conduce alla vecchia palestra. Da lì, ricordo che potrei uscire dalla porta posteriore, antipanico. Mi sento osservato – forse qualcuno mi segue – il buio aumenta il mio terrore. Nemo però ha capito, è lui che tira e va nella direzione giusta: il cono di luce emesso dal cellulare proietta ombre lunghe su mattonelle e pareti.

Mi ritrovo nella palestra, i soffitti altissimi, i lampadari al neon. La torcia illumina decine di brande ammassate, pile di coperte e sacchi a pelo. Dev’essere una “camerata”, ma non riesco a immaginare come una persona normale possa passarci più di un minuto. Sembra che qualcuno abbia radunato tutto senza un piano, anzi, pare l’incarnazione del caos: agli angoli sono ammucchiati vecchi banchi, sacchi neri e scatoloni. Attraverso un filtro di polvere galleggiante, vedo stendersi sulle pareti un reticolato di muffa e ragnatele.

Non capisco dove sono. Sento appiccicarmisi addosso l’enorme massa sudicia che trasuda dalle pareti. Mi guardo le mani e mi accorgo che sono lorde di inchiostro. Il suono intermittente di una goccia che erode chissà quale superficie arrugginita, mi suggerisce la posizione del bagno. Appena ne intercetto la porta, Nemo lancia un latrato in direzione di voci che sembrano provenire da fuori. Devo scappare! Ma le mani!? Che fare? Non posso lasciarle in questo stato. E se mi beccano? Almeno avrò le mani pulite… Nemo tira verso l’uscita, ma questa volta decido io che direzione prendere.

Il getto d’acqua toglie un velo di sporco e mi fa sentire meglio. Manca il sapone, ma sono più calmo, ora. Richiudo il rubinetto: tre volte. Lo stringo più forte del solito. La manopola mi rimane in mano, con un suono secco, e odore di ruggine e calcare. La lascio cadere nel lavandino di ceramica bianca costellato di incrostazioni. Esco dallo stabile, senza guardarmi indietro, senza che nessuno mi veda, almeno credo.

Nemo mi sta davanti a guinzaglio teso. Nella mano stringo la maniglia della Olivetti come se non avessi fatto altro nella vita; non mi pesa neanche. Sono leggerissimo, ora. Se non vedessi la mia ombra riflessa per terra e i piedi che marciano uno di fronte all’altro, giurerei di fluttuare.

Penso a tutte le persone che avranno toccato, aperto, chiuso, spostato, sollevato quella Olivetti prima di me. Per fortuna sono riuscito a sciacquarmi. Anche se un velo d’inchiostro è rimasto sulle dita. Da quanto tempo questa macchina da scrivere non vedeva la luna e la strada?

Intanto il cane ha perso il suo passo svelto, da fuggitivo, e da quando siamo rientrati nel solito percorso, si sta stabilizzando sul ritmo da passeggio. Io al contrario mi sento stonato. I miei passi si fanno tachicardici, la valigetta detta il ritmo della camminata.

Mi immagino visto dall’alto, dall’esterno, a spasso con questo oggetto; dev’essere una scena piuttosto singolare. Accelero il passo e strattono Nemo, devo rientrare, togliermi il cappotto, sistemare tutto, scrivere. Mi rendo conto solo adesso di essere stremato. Mi mordo il labbro – salato – capisco di essere ricoperto da una pellicola di sudore. Non c’è in giro anima viva, benedetta la provincia.

Cammino dalla parte del marciapiede disertata dalla luce del lampione, guardo in basso e conto i secondi che mi dividono da casa. Quarantotto, trentadue, ventitré, undici, uno. Mi ha calmato, lo sapevo. Stacco il moschettone dall’asola dei pantaloni, centro la serratura con la destrezza di un cecchino, tre giri, ed entro: finalmente l’odore tiepido di casa mia. La vista di quelle brandine, quelle coperte, il puzzo di muffa e disinfettante scadente, i colori morti, mi hanno lasciato nelle pupille visioni sgradevoli, da film sui lager.

Accendo la luce e mi guardo intorno, a cancellare, o almeno tentare di eliminare quello squallore. Poso gli occhi sui miei mobili che profumano di foreste del Nord Europa, così rassicuranti. Vedo lo zaino di mia figlia per terra – mi ero completamente dimenticato di lei. Dorme, credo – meglio, ho tempo di sistemare il nastro, sostituirlo. Allineo la macchina da scrivere all’altra: smonto, estraggo, inserisco, mi siedo, giro il rullo, sposto la leva.

Adesso sono a capo, ho schivato quella parola, migranti, il buco creato dal solco della I sul foglio liscio e bianco. Provo a scrivere. Funziona! Ma invece del familiare inchiostro nero, vedo imprimersi un colore blu. Bah, non importa, ingoio il rospo, devo pur sempre finire. Riascolto il tamburellare dei miei polpastrelli – toc toc toc, respiro forte…)

12.30: pausa pranzo: omelette con spinaci 

13.30: rientro in ufficio          

14-17: scartoffie, varie ed eventuali, schedario, cartellino  

17.22: spesa – tragitto interrotto da manifestazione contro l’arrivo di alcuni migranti

18.02: rientro a casa             

19:32: doccia

20.00: cena, TV         

20.30: Scatoletta e passeggiata Nemo, ancora TV 

22.12: chiusura resoconto 27 gennaio 2018

* * *

La ragazza sbatte gli occhi due volte di troppo, come fa chi ha bisogno di prendere tempo, di aggiustare un momento che non combacia con ciò che si aspetta. Ha ancora il foglio tra le mani, l’ha preso per caso. L’appartamento del padre non l’ha mai incuriosita – solo quella macchina da scrivere ha sempre avuto un’attrattiva particolare, figuriamoci adesso che sono due. Si è avvicinata al tavolo attratta da quell’oggetto desueto, che si è duplicato durante la notte. Passa il dito sui tasti, tocca le bacchette, i lati e si accorge che è smontata. Prende in mano la parte superiore, la solleva  e legge la scritta sul retro, incisa su una piastrina metallica “Art. N 15647, proprietà dell’Istituto Tecnico Superiore Primo Levi”.

Non sapeva che il padre collezionasse macchine da scrivere, solo che scrive resoconti; sua madre l’ha citata un paio di volte, questa sua abitudine, con scherno nella voce. Lei non ne ha mai letto uno, ma non se lo immaginava così. Perché poi è per metà blu?

La ragazza si avvicina e inizia a leggere e rileggere, rendendosi conto che forse suo padre ha dei segreti. Ma perché mentire? Più ci pensa, più le sue sopracciglia si arcuano. Cerca di fare mente locale: lo ha sentito uscire con il cane, saranno state le 23; poco prima era arrivata lei. Ora si trova aggrovigliata tra l’indignazione di non comparire nemmeno nel resoconto (e si stupisce del proprio dispiacere) e la preoccupazione per l’alienazione del padre, per la rimozione di un pezzo di realtà. Si scopre più sconvolta di quanto credesse – incazzata più che altro. Ma poi, tutto questo, che senso ha? Vuole una risposta, la ragazza. Sente i passi del padre: sta per uscire dal bagno.

L’uomo si trova un foglio A4 sotto gli occhi, poi quelli spalancati e indignati della ragazza.       «Papà, ma perché scrivi cazzate?».

L’uomo sembra non capire.

«Quali?» balbetta  «chi? come?».

Poi forse capisce. Cerca di fuggire la tensione, va ad accendere la TV. La ragazza sa che prenderà tempo, prima di trovare la forza di pensare una spiegazione che alla fine non le darà.

L’uomo torna in bagno a lavarsi le mani, ignorando il grido alle proprie spalle.

«No, è inutile che te ne vai in bagno a far scorrere l’acqua, tu adesso me lo spieghi, perché sennò qua sei più malato di quello che pensiamo tutti».

Si sente scorrere l’acqua, poi di colpo, come se avesse preso coraggio, l’uomo esce in salotto e prova a dire qualcosa.

«La memoria è la mia… sono cose private, personali… posso raccontare quello che voglio» mormora e conclude con: «Se non è un diritto fondamentale questo, non so allora cosa debba essere».

Ma la sua voce stentata si va a confondere con quella della TV, che trasmette il notiziario regionale. La giornalista parla con tono neutro.

«La Regione Lombardia aveva dato la disponibilità ad accogliere in provincia di Bergamo alcune decine di migranti, sbarcati nei giorni scorsi sulle coste meridionali e smistati dai centri di accoglienza, ormai saturi. Il sindaco aveva provveduto a far sistemare la scuola Levi ormai in disuso e l’arrivo era previsto nel corso delle prossime ore».

Forse l’uomo ripensa alle brandine, alla palestra trasformata in pseudo-camerata, a ciò che è successo nel bagno. Deglutisce. La voce dall’etere riprende:

«Tuttavia il programma di accoglienza dovrà essere modificato a causa dell’improvvisa inagibilità della struttura individuata e già pronta. Sembra che nella notte ignoti siano penetrati nei locali dell’istituto tecnico causando un allagamento dell’intero piano terra. L’operazione di accoglienza è quindi temporaneamente sospesa».

Poi ancora: «Le forze dell’ordine sono già al lavoro per capire la dinamica dei fatti e scoprire i colpevoli.  Nelle prossime ore saranno eseguiti dei fermi per i necessari accertamenti. La notizia si è già diffusa e i comitati contrari all’accoglienza si sono radunati per dimostrare soddisfazione: l’autore – o gli autori – sconosciuto è già considerato un eroe».

La ragazza osserva il padre, il suo volto farsi prima paonazzo, poi sbiancare. Percepisce i propri occhi diventare increduli. Lancia un’altra occhiata alle due macchine da scrivere, alla targhetta “Primo Levi”, alla porta del bagno dove l’acqua ancora scorre, per poi fermare lo sguardo sull’uomo. Questi arretra di un passo, non riesce a dire nulla. Quello che legge nell’espressione della ragazza è eloquente. Lei ha capito tutto. Lui tenta di fuggire quello sguardo inquisitorio, gli occhi si posano sul foglio sopra il tavolo, poi sulla Olivetti. Le gambe cominciano a cedergli, forse realizza che è tutto sbagliato. Forse alla vista del colore blu del nastro gli viene in mente il neo della ragazza delle 10.45. O forse si chiede cosa ci fanno lui e lei in quella stanza, perché la voce piatta continui a vomitare parole fuori dalla televisione. Si avvicina al cane, prende in mano il cellulare. La ragazza osserva attonita la scena – il cane, le labbra del padre che cominciano a muoversi.

«Pronto, L’eco di Bergamo?»

“L'indifferenza è inferno senza fiamme,

ricordalo scegliendo fra mille tinte

il tuo fatale grigio.

Se il mondo è senza senso

tua solo è la colpa:

aspetta la tua impronta

questa palla di cera”

Maria Luisa Spaziani