“Mulini a vento” (Alberto Pistocchi, Angela Franchini, Federica Volpe, Lorena Aristide)

Quella maledetta insegna!

A denti stretti, Aldo guardava il vecchio cartello che da sempre accoglieva i clienti nel suo podere. Un tempo quell’effige era stata il degno ritratto dell’azienda: sobria, elegante ed affidabile. Negli anni, la sua bellezza era sfiorita, proprio come il podere che con tanta perseveranza aveva rappresentato.

– Cade a pezzi! Qualcuno dovrà sistemarla – esclamò Aldo. Le campagne intorno erano calme, nessuno schiamazzo, nessun rumore oltre il frinire dei grilli.

Io dovrò sistemarla – mugugnò, mentre trascinava i piedi verso casa.

Spalancò la porta e si diresse verso lo sgabuzzino in cerca della scala, passando davanti alla sua stanza. Come sempre, l’occhio gli cadde sulla foto del padre. Quanto era orgoglioso di quella foto, il povero vecchio. Ritratto col fucile in mano e la selvaggina ai piedi, con i baffi folti, il petto gonfio e lo sguardo penetrante. Erigere quel piccolo e inquietante altare, era una delle ultime cose che aveva fatto prima di morire: la sua foto di quando era giovane e il suo bellissimo fucile da caccia inchiodato al muro dovevano servire da monito per le generazioni future. – Questo è il successo, figliolo – Aldo lo sentiva ancora nelle orecchie. Entrò nello sgabuzzino, si allacciò la cintura con gli attrezzi e imbracciò la scala.

Aveva proprio bisogno di una ritoccata, quella vecchia insegna: le assi di legno un tempo bianche e accecanti al sole erano diventate giallognole e il nome Podere Vignali, scritto con una grafia chiara e piacevole in un magnifico colore azzurro, era ormai illeggibile, poiché molti tratti di inchiostro erano scomparsi. Come se non bastasse, uno dei chiodi conficcati nei pali portanti aveva ceduto, lasciando a penzoloni una delle tre travi che componevano l’insegna. Mi toccano sempre questi lavori ingrati, pensò Aldo mentre saliva la scala brandendo martello e chiodi. Il sole fiammeggiava implacabile mentre Aldo, come un metronomo, batteva il martello sulla testa dei chiodi. Dopo una decina di minuti la trave penzolante aveva ritrovato il suo posto: Agricoltore e carpentiere, guarda qua, disse fra sé con un sorriso abbozzato. Scese di nuovo a terra, raccolse i barattoli di vernice e salì di nuovo.

– Osserva, ora anche pittore – mormorò e si mise all’opera.

Innanzitutto, Aldo verniciò l’insegna di bianco, poi venne il turno della scritta: alla prima stesura, non gli piacque la calligrafia, il tratto non era pulito e preciso come quello precedente. Imbiancò di nuovo e ricominciò. Alla seconda stesura, la grafia risultava accettabile ma ora il colore dell’azzurro non gli sembrava adeguato, nei suoi ricordi era tutta un’altra cosa. Infine, si accorse che i chiodi appena piantati stavano già mollando la presa sulla trave, che dopo pochi minuti tornò a penzolare.

– Maledetta, maledetta insegna! – urlò Aldo a pieni polmoni.

– Qualche problema con le travi, eh Aldo?

Aldo riconobbe la voce e imprecò mentalmente.

– Oh Mario, ciao! Ho solo qualche problemino con il martello, nulla che non possa sistemare – esclamò, mentre un rivolo di sudore gli solcava la fronte.

– Direi più che altro che hai un problema con i chiodi – disse Mario ridacchiando. – Sono troppo sottili. Dovrebbero essere grandi almeno il doppio.

– Lo so – rispose Aldo mordendosi le labbra – purtroppo in casa ho solo questi, volevo provare lo stesso. Sai, oggi è una giornata fiacca. Dati gli ultimi successi ho concesso a tutti qualche giorno di riposo.

Il suo viso era paonazzo e completamente madido di sudore, il respiro affannato.

– Sai, – riprese Mario in tono gioviale – se assumessi qualche bel moretto, non avresti bisogno di dar loro giorni di ferie, quella è gente che non si risparmia nel lavoro, basta controllarli con cura. E poi sicuramente tuo padre avrebbe accolto con piacere qualche bisognoso nel podere, lo sai com’era. In ogni caso, sono contento dei tuoi ultimi successi. Anche io posso permettermi qualche scappatella, come vedi, infatti sono passato di qua per un saluto, e se non sono indiscreto, ho giusto qui qualcosa per te. – Aldo strinse i denti in un sorriso forzato. – I chiodi giusti per quelle belle travi. Tieni.

Mario gli affidò i puntelli e si congedò. Aldo piantò i chiodi nelle travi e tornò verso casa, di quell’insegna ne aveva abbastanza.

Aprì la porta e si slacciò con foga la cintura porta attrezzi. Ripose gli strumenti da lavoro nello sgabuzzino e si affrettò in cucina. Afferrò la bottiglia di scotch aperta la sera precedente e sprofondò sul divano, in attesa che il giorno passasse.

 

All’imbrunire, quelle quattro mura gli diventarono strette e decise di perdersi tra le vie del paese.

– Il vecchio Vignali, lui sì che era una persona perbene. – Quante volte se l’era sentito ripetere.

Camminava, l’aria affranta, sfiorato dal vento. Il rumore dei passi riecheggiava, assieme al cigolio delle saracinesche. Si faceva strada tra gli ultimi commercianti e compaesani, in cerca di un dettaglio da notare. Una finestra illuminata che lasciasse intravedere ciò che avveniva al di là del vetro, un bambino scalmanato pronto a sfidare il padre a “chi arriva prima”.

Un’impressione.

 

Con andatura meccanica, si ritrovò davanti al bar e il vociare lo riportò alla realtà.

– Sarà la fine, non si potrà più vivere tranquilli! – diceva uno, in capannello con Mario e altri amici.

Chiedendosi di cosa stessero parlando, Aldo si girò una sigaretta per temporeggiare. Entrò nel covo, la discussione era accesa; non capiva cosa mai potesse smuovere tanto gli abitanti di un paesino di trecento anime: l’ennesimo tentativo di avvelenare i cani della contessa un po’ suonata che disturbavano il sonno del calzolaio sordo in pensione da dieci anni?

Si avvicinò al bancone con fare indiscreto, ma era troppo tardi: Mario lo aveva visto e iniziò a chiamarlo per unirsi a loro. Prima di unirsi al gruppo, ordinò il solito scotch; era ormai l’unico conforto, l’unica cosa che gli restituiva pienezza e leggerezza al contempo.

Il volto teso e lo sguardo insistente di Mario lo turbarono, spingendolo a ordinare un secondo giro, e poi un terzo.

L’eco delle voci accanto a lui lo investiva come un suono ovattato:

– Pronti all’invasione?

– Non ci salveremo più!

Aldo rimase ad ascoltare, coccolato dal calore del liquore, finché Mario non definì meglio la situazione: il sindaco avrebbe dato il via libera all’arrivo di un gruppo di moretti.

– Bella roba! Torneremo in guerra, lo sai? – fantasticava Gianni, il più vecchio e nostalgico, che con lo sguardo accanito già si immaginava di aspettarli al varco.

– Non ci faremo cogliere di sorpresa!

A quel punto, Aldo capì che i ragazzi del bar, come sempre, avevano ricevuto le notizie prima di lui, e infatti c’era già chi aveva installato impianti di allarme, chi organizzava ronde e via discorrendo.

– E tu, come ti difenderai?

Senza rispondere, Aldo si calò un quarto scotch.

Gianni lo informò sulla loro prima mossa:

– Domani – disse – faremo un sit-in presso il vecchio casolare. Saremo tanti, tutti compatti, uniti per la stessa causa. Abbiamo mobilitato tutto il paese. Così vedremo se il sindaco avrà ancora il coraggio di farli arrivare. Siamo persone che contano, non ci vorrà avere contro. E tu sarai dei nostri, spero!

Aldo si limitò a fare un rapido cenno di assenso, poi uscì rapidamente.

Dopo una lunga passeggiata, stordito da tutte quelle informazioni, s’incamminò verso casa.

Come potrò difendermi?, pensava. Avranno mica ragione loro? Dovrò barricarmi?

Quella mattina, Mario gli aveva sbattuto in faccia che era una nullità, svaniva a confronto con il padre, morto ormai da così tanti anni che nemmeno la terra si ricordava più di lui.

Sentiva la rabbia crescere, complice l’alcol.

Fanculo a Mario, cosa ne sa lui di chi m’aspetta ogni giorno a quest’ora, e che diritto ha di giudicarmi? In fondo lui ha potuto scegliere la sua strada.

Consumò la cena senza entusiasmo, bevendo un altro bicchiere, poi si alzò ciondolando e salì le scale.

Si infilò nel letto e impostò la sveglia sul comodino. Anche là sopra, campeggiava una foto ingiallita del padre. Lui ed il suo aspetto da gran lavoratore, le sue mani callose, il viso abbronzato, le maniche della camicia perennemente arrotolate e quel fucile, con cui sempre si era fatto ritrarre. Lui che si svegliava all’alba e rientrava al tramonto. Lui che non parlava mai della fatica, ma solo del risultato. Il lavoro era l’unica cosa che contava.

Da là, dalla foto incorniciata d’un massiccio oro vermiglio, giungeva un’eco d’inferno.

– Ciao papà – disse sardonico. La gola chiusa. – Ti porto buone nuove. Da oggi avrai un motivo in più per non esser fiero di me.

Si svegliò di buon mattino. Quel giorno iniziavano le manifestazioni contro i moretti e lui sapeva che, complice il bel tempo e la voglia di protestare, in tanti si sarebbero riuniti davanti al quel casolare. Abbandonato e dimenticato da tutti per così tanti anni che Aldo aveva persino il dubbio di riuscire a ritrovarlo. Quando finalmente lo raggiunse, si sedette davanti al portone, con Mario e i ragazzi del bar, in compagnia di una buona bottiglia di vino, animato dalla forza e dal coraggio che pervade tutti all’inizio di una battaglia.

Si misero a parlare delle rispettive aziende, Aldo deciso a proteggere la propria, raccolse i pareri di chi aveva già provveduto a costruire una recinzione. Proprio a quel tavolo fece i conti di ogni singola vite, di ogni centimetro di filo spinato e di ogni chiodo di cui avrebbe avuto bisogno. Alla fine del giorno, mentre al calar del sole la folla scemava e tutti si recavano al bar, per parlare della prossima mossa, Aldo si allontanò nella direzione contraria, alla volta di quell’enorme centro commerciale, tanto lontano quanto fornito.

Al ritorno era quasi buio, ma tenuto sveglio dalla paura, si mise subito a lavorare. Lavorò per tutta la notte e tutto il giorno seguente, fino a crollare stremato nel letto. Aveva speso una cifra che non sapeva nemmeno lui se considerare folle, ma era soddisfatto: da quella sera la sua proprietà e il suo campo avrebbero dormito sonni tranquilli.

La mattina seguente andò a fare colazione al bar, dove l’argomento principale era proprio il gran trambusto che la gente aveva sentito provenire dalla sua azienda. Aldo mostrò soddisfatto le foto del suo capolavoro: pali alti tre metri, uno steccato meraviglioso coronato da tagliente filo spinato. Tutti provarono un misto di stupore, invidia e dubbio davanti a quella costruzione colossale, tranne Mario, che subito spostò l’attenzione sul furto avvenuto in casa di alcuni vicini.

– Roba grossa, eh! Uno di quei saccheggi che ringrazi di non essere in casa … perché altrimenti ci resti secco

Bastarono queste parole a far dimenticare la recinzione.

Aldo, offeso dall’interesse volubile dei compaesani, esclamò: – Io ho un antifurto. Uno di quelli moderni: telecamere, sensori ad ogni porta e finestra. Da me non entra nessuno!

L’affermazione conquistò la platea, mentre Aldo usciva di corsa, prima che qualcuno potesse chiedergli prove di quello che lui non aveva mai posseduto; o almeno, non fino a quel giorno. Corse a casa e chiamò la prima ditta che trovò nell’elenco la quale, per una cifra spropositata, oltre all’extra per la consegna rapida, montò quella sera stessa il suo bell’antifurto. Grazie ad esso, dopo aver installato mille applicazioni, controllato le angolazioni di visuale, fatto sì che le meravigliose telecamere sorvegliassero tutta la zona e perfino la strada che passava accanto ai suoi campi, Aldo avrebbe finalmente protetto i suoi possedimenti.

Il mattino seguente, Non aveva nemmeno messo entrambi i piedi oltre la soglia del bar che Mario, caffè in una mano e giornale nell’altra, gli sbatté in faccia l’ultima novità. I moretti erano interessati anche agli animali e lui non ci aveva pensato

– Certo, povero tuo padre, come faceva con te? Tu proprio non riesci a farle bene le cose. Ci vogliono i cani! Quelli sì che proteggono. Immagina la scena: questi provano ad arraffare le tue galline, i cani li attaccano e il giorno dopo grazie al tuo meraviglioso sistema di videosorveglianza puoi persino andare a denunciarli.

Aldo seguì il consiglio, stufo di vivere nella paura, e non si stupì affatto quando lo stesso Mario, poche ore dopo, gli portò a casa due meravigliosi e costosi pittbull che vantavano il miglior pedigree della zona. Fu così che, la sera del terzo giorno, dopo aver chiuso i cancelli, sfamato i cani, attivato l’allarme, Aldo andò a dormire lanciando solo uno sguardo, ormai sempre meno intimorito, alla foto del padre e godendosi il miglior sonno ristoratore delle ultime settimane. In quel momento nulla gli faceva più paura: si sentiva al sicuro, si sentiva forte. Sapeva che domani lavorare sarebbe stato meraviglioso e finalmente la sua azienda sarebbe rifiorita; sentiva di poter davvero competere con Mario su tutta la produzione e che niente avrebbe potuto fermarlo. Si svegliò sicuro, riposato, pronto ad una giornata di duro lavoro e si diresse al bar dove avrebbe fatto sapere a tutti che potevano contare su di lui per la protesta dell’indomani. Non avrebbe più dovuto nascondersi, era un uomo nuovo, responsabile, attivo; nessuno avrebbe potuto abbatterlo, non quel giorno. Nemmeno le frecciatine di Mario servirono a scalfire la sua estasi; certo, si rendeva conto che in quei quattro giorni nel suo campo si era lavorato poco e male, ma ormai la battaglia principale era un’altra. Fece colazione parlando con Gianni e gli altri della manifestazione che sarebbe iniziata da lì a poche ore: il vero segnale di protesta che il paese avrebbe inviato, forte e unito, al sindaco e a chiunque volesse far arrivare i moretti nelle loro terre. In pochi minuti fu tutto deciso e ognuno si allontanò nella direzione del proprio campo, consapevole del che quella giornata sarebbe stata più lunga delle altre.

 

In poche ore la piazza si riempì; i ragazzi del bar si erano asserragliati attorno alla statua marmorea del patrono, quasi a volerla proteggere. C’erano tutti, quel pomeriggio: i vegliardi, i giovani, le donne, persino i bambini avevano aderito entusiasti. Bandiere e striscioni campeggiavano sulle porte delle case, sui negozi, affisse agli alberi. Festa grande. Il tempo pareva essersi fermato. Era prevista la continuazione a oltranza della protesta, dato che il sindaco aveva concesso comunque l’arrivo dei carri bestiame, come si divertivano a chiamarli. Aldo era affascinato, euforico. Questo è il vero amore – pensava. Non quello rivolto ad una donna, sempre così volubile, ma questo: fratelli e sorelle che insieme combattono, che sacrificano tempo e giorni di lavoro per il bene comune, per un obiettivo più alto. Non gli interessava delle perdite nei guadagni, del vertiginoso calo nella sua produzione, già poco redditizia; l’aria che respirava era sufficiente perché si sentisse pago di tutto. Stravolto, il viso scavato, le occhiaie nere, i capelli sporchi, tutto restituiva di lui un’immagine terrificante ma al tempo stesso beata.

Il pomeriggio trascorse sereno, tranquillo tra i festeggiamenti, i maiali e le galline che avevano invaso le strade, il vino; nunvest bibendu si ripetevano gli uomini che ridevano e giocavano a tressette.

– Novità dal fronte Aldo? – gli chiedeva qualcuno sghignazzando; e giù altre risate.

I bravi soldati sono sempre presi di mira dai commilitoni bastardi – pensava lui. Intanto le ragazze intonavano canti, rivolgendo risate e sguardi complici agli uomini che lo schernivano.

Le mogli stavano a fissarle torve, più ubriache dei mariti e per questo ancor più inferocite. La sera intanto calava lenta ed afosa, e s’avvicinava il momento in cui avrebbero avuto inizio le ronde notturne organizzate da quelli del bar.

Tra il brusio generale spiccava la voce graffiante di Mario:

– Arriviamo sergente, – diceva rivolto ad Aldo – scaldi le posizioni intanto.

I gruppi, formati ognuno da cinque componenti, si disposero, in modo svogliato, nei punti strategici del paese,

– Perché ogni eventuale arrivo possa essere subito avvistato, – canterellava Aldo. Erano muniti di torce, bastoni e attrezzi da lavoro.

Aldo finì di vedetta sulle mura cittadine; la sua Fortezza non sarebbe stata assediata da nessuno di quegli invisibili Tartari che lui sapeva bene come stanare.

Si nascondono, si confondono nella notte – andava ripetendosi, le orecchie tese a carpire ogni fruscio.

Aldo scorse una luce poco distante da lui, forse una cinquantina di metri, proprio in corrispondenza d’una feritoia che permetteva l’ingresso al paese. Lo scatto fu quello del leone che si slancia verso la preda: era giunta l’occasione di dimostrare a tutti che lui era in grado di difendere il perimetro, il paese, il territorio.

Brandendo il bastone, con poche falcate fu sopra all’uomo: un colpo, due colpi, tre colpi, e così di seguito finché, attirati dalle urla, giunsero anche altri uomini.

– Chi è? – chiesero concitati, allontanando Aldo dal corpo a terra.

– Ne ho preso uno! – rispose lui – Lo sapevo che sarebbero arrivati

– Ma di cosa stai parlando? Sei impazzito? Non vedi che è dei nostri?

Senza altri commenti, qualcuno fece partire una chiamata all’ambulanza.

Spaesato, approfittando della confusione, Aldo decise di allontanarsi e raggiungere quello che oramai era l’unico porto sicuro: casa. Come sempre, lì ad attenderlo, la foto del padre e la bottiglia di scotch. Passò la notte e fu di nuovo mattino.

Un mattino grigio e vacuo. Terra bruciata, pensava Aldo, steso sul letto ancora caldo di lacrime. Mi sono fatto terra bruciata. Maledetti moretti! All’improvviso il suono di un campanello.

Aldo indugiò sul letto. Sarà il postino. Ma il suono continuava, insistente. Sarà una raccomandata, occorrerà una firma.

Decise di alzarsi, contò fino a dieci prima di lasciare la sponda del letto, infilando una delle due ciabatte, l’altra chissà dove era finita.

Scendendo le scale pensava a come riguadagnare la fiducia degli altri, barcollando per la stanchezza e l’ubriacatura della sera precedente.

Arrivò di fronte alla porta d’ingresso. Al suono del campanello si era aggiunto un martellare cadenzato di colpi regolari, accompagnati da una voce ferma e baritonale che continuava a ripetere: – Signor Vignali, apra la porta. Sappiamo che è in casa!

Infastidito dall’insistenza, Aldo schiuse il portone d’ingresso e si trovò di fronte a due agenti in divisa.

– Il signor Aldo Vignali?

– Sono io. Che volete?

– Vorremmo farle qualche domanda a proposito di ieri sera. È stata esposta una denuncia a suo carico da parte del signor Gianni Dal Canto.

Aldo si stropicciò gli occhi, mentre uno dei due ufficiali varcava la porta senza troppi convenevoli.

Merda. Cercò di assumere un’espressione più sobria e composta di quella che sapeva di avere.

Si sedettero al tavolo della cucina, il carabiniere iniziò a spiegare ad Aldo i dettagli della denuncia e i fatti di cui veniva accusato.

– È stato solo un errore! Gianni è mio amico, chiedetelo in paese, lo sanno tutti. Un incidente.

Aldo si lanciò in un monologo ricco di spiegazioni, ma alla fine dovette arrendersi; afferrò i fogli e si costrinse a firmarli, annuendo a tutte le affermazioni di quell’agente che gli elencava i capi d’accusa.

Una volta raccolte le carte, il carabiniere si alzò e Aldo lo scortò alla porta. Sulla soglia apparve il secondo carabiniere. Vi fu tra i due agenti un rapido scambio di battute che lui non riuscì a cogliere, ma subito si sentì gli occhi puntati addosso.

Il carabiniere sfoderò il suo migliore sorriso di cortesia.

– Certo che ha messo su delle belle recinzioni qua, vedo addirittura delle telecamere –  disse, indicando con la testa le palizzate. –  Ma come ha fatto ad ottenere tutti i permessi in così poco tempo? Sono passato da queste parti non più di una settimana fa e sono sicuro di non aver visto queste impalcature.

Aldo sbiancò.

– Permessi? Di cosa state parlando?

Il carabiniere guardò negli occhi il collega, sbuffò e si rivolse di nuovo ad Aldo: – Signor Vignali, torniamo dentro, per cortesia.

Stavolta entrarono entrambi.

 

Dopo una lunghissima mezz’ora, i carabinieri abbandonarono la sua proprietà. Aldo passeggiava furente in salotto, gli occhi gonfi di lacrime:

– Distruggere tutto il lavoro che ho fatto per proteggermi? – disse sventolando il foglio con la denuncia. – Una multa? Un’altra denuncia? Fate pure.

Si avvicinò allo scotch, ne bevve un sorso, un altro e altri ancora finché le lacrime non iniziarono a sgorgare.

Uscì con la voglia di non tornare, di sparire.

Camminò per più di due ore, rincorrendo i sentieri della sua infanzia, che costeggiavano i campi e si tenevano lontani dal paese, dalla gente. Pensava e camminava.

Percorrendo quella strada bianca, incorniciata da alberi molto più rigogliosi dei suoi, si accorse di essere giunto nella proprietà di Mario; un senso di invidia e nausea allo stomaco.

Li vide: erano quattro, forse otto.

Scrollò la testa e aguzzò la vista. Facce scure, inequivocabili. Guardando le loro ceste piene ululò a pieni polmoni: – Negri! Ladri bastardi!

Lo scotch in corpo, prese l’abbrivio e si lanciò contro quel gruppo. Cadde e venne raccolto da Mario, che era uscito richiamato dalle urla.

– Sei impazzito?! – sbraitò l’amico – devi sparire! Non ti è bastato quello che è successo ieri?

– Prendi i bastoni, presto! – rispose Aldo boccheggiando – Stanno rubando tutto.

Ci fu un lungo silenzio; Aldo, affannato e concitato, si guardava attorno incredulo.

– Ora mi hai veramente rotto i coglioni, sei stupido come un mulo – disse Mario. – Anzi, di più. I muli, quando vengono bastonati, capiscono. Questi sono i miei lavoratori, non li devi toccare.

– Hanno comprato anche te? Ti sei messo a lavorare coi negri, adesso? Che razza di scherzo è questo?

Mario lo spintonò – Va’ a casa! – gli ordinò con voce ferma.

Quelle parole furono abrasive. Aldo non sentiva più nemmeno il cuore battere. Tutto si fermò.

Dopo pochi altri respiri affannosi, disarmato, si diresse a casa, il suo porto sicuro.

 

Rientrò senza fiatare, si diresse in camera, nelle orecchie un richiamo.

Questo è il successo, figliolo, lo sentiva ancora vivido.

Alzò gli occhi, fissò la reliquia del padre. Quel vecchio fucile, chissà se funziona ancora.

Lo staccò con cura dalla parete, lo tenne tra le mani, accarezzandolo come un primogenito.

Se lo mise sottobraccio e uscì, sussurrando parole che andarono a confondersi col rumore della porta che sbatteva dietro di lui.