Anita (Francesco Grazian, Natalia Fagioli, Francesca Tondelli, Jinwei Zhou)

Cristina Franciosi, una bella signora cinquantenne, ancora giovanile e caparbia di carattere, quel sabato pomeriggio si era concessa una pausa, dopo una settimana di lavoro molto impegnativa. Così, mentre si vedeva riflessa nello specchio del parrucchiere, non aveva motivo per non sentirsi soddisfatta, soprattutto se ripensava al successo delle sue proposte, nell’ultimo incontro col dirigente, contro quelle di colleghi e colleghe. Sorrise alla propria immagine e, senza scomporsi, inventò una bugia qualsiasi, quando Marco, il parrucchiere, gliene chiese ragione. Era contenta, sì, perché no? Di sé, della propria famiglia, della propria vita.

Rientrata a casa, trovò la figlia in salotto, seduta sul divano. Di media altezza, capelli castani e ricci, occhi grandi, espressivi e profondi, naso piccolo, solo un po’ aquilino, era quella che si definisce una bella ragazza. Anita stava leggendo un libro. Guardandola, Cristina pensò che sotto certi aspetti le somigliava: sicura di sé, indipendente, decisa, dotata di tatto e abilità nelle relazioni.

«Ciao Anny. Tutto bene?».

«Giornata pesante», rispose la ragazza, senza rivolgerle lo sguardo.

Anita insegnava inglese in una scuola materna privata, la più rinomata in città. Era apprezzata per la sua dimestichezza con i bambini e per le competenze linguistiche, acquisite nelle numerose esperienze di studio all’estero, quando era ancora studentessa. Aveva un buono stipendio e insolite prospettive di stabilità.

L’avevano assunta subito, dopo un breve colloquio che la madre stessa le aveva procurato, desiderando per lei, dopo tanti soggiorni fuori dall’Italia, una vita più tranquilla e vicino a casa.

– Esci stasera?

– Direi proprio di sì.

Mentre Cristina entrava in cucina per sistemare la spesa, Anita ripensò alla giornata appena trascorsa. Da qualche tempo non andava più a lavorare con la stessa motivazione di quando aveva iniziato. Le ore del giorno, scandite dal solito frasario, erano sempre più noiose: « Good morning my dear! » « Hello! » « How are you? » « One, two, three… ». Per non parlare delle canzoncine che si era dovuta sorbire anche quella settimana: « A, B, C, D, E, F and G, sing the alphabet so with me » Il rapporto con i genitori dei bambini non era migliorato: oltre a considerare i figli come piccoli Lords, cui non doveva mancare assolutamente nulla, molti non si fidavano di lei, forse a causa della sua giovane età, e preferivano confrontarsi con le altre maestre.

Non avrebbe trascorso un altro anno così, sentiva il bisogno di respirare aria nuova. Per distrarsi controllò il cellulare, ritrovando un messaggio ricevuto giorni prima.  Era di Maria, una psicologa che aveva conosciuto ai tempi dell’università: era stata la sua tutor durante un tirocinio della triennale, e si era trovata molto bene a seguirla nel lavoro. Maria le chiedeva di incontrarsi nel suo ufficio, perché aveva una proposta di lavoro per lei. Anita accettò.

– Lunedì pomeriggio ho un impegno. – annunciò alla madre.

L’ultima volta che era stata nella sede della Fonte, Anita si era divertita molto. C’era una conferenza e a seguire musica con aperitivo in giardino. Oltre agli uffici c’era una sala per incontri, feste universitarie e conferenze. Era il genere di posto versatile e dinamico, aperto a tutti, frequentato da gente interessante.

Aveva appuntamento alle 14.00, con Maria e gli operatori, ma era arrivata un po’ in anticipo, come al solito, spinta dalla curiosità. Voleva inoltre dare buona impressione e avere il tempo di ambientarsi con calma. Le piaceva inquadrare le situazioni prima di entrarci dentro.

Rimase fuori dalla porta socchiusa ad immaginare la scena all’interno. Sentiva ridere e percepiva un’atmosfera rilassata. Sorrise e aprì la porta fiduciosa.

Nell’ufficio erano seduti Maria e due colleghi, che parlavano animatamente davanti a un caffè.

– Ciao a tutti, buon pomeriggio!

La prima impressione fu ottima, le presentazioni informali, l’ambiente familiare.

– Come ti ho già accennato, – iniziò Maria – nel tuo orario sono comprese queste due ore di coordinamento. Serve a tutti noi per tenerci aggiornati, sapere cosa stanno facendo gli altri operatori, capire meglio in che direzione andare. Qui possiamo riportare le perplessità e le difficoltà di questo lavoro, che imparerai presto a conoscere.»

La guardavano tutti, ma non si sentiva a disagio. Erano sguardi incoraggianti, di stima. Non era abituata ad essere guardata così.

– Ora ti spiegheremo quale sarà nel concreto il tuo ruolo – disse Maria, con un sorriso. – Non sarò io a illustrartelo, ma Silvia, che è l’operatrice più esperta.

Anita si voltò verso la ragazza: portava grandi occhiali e una frangia le copriva interamente la fronte. Silvia sorrise a Maria, si schiarì la voce, si dichiarò contenta della disponibilità di Anita e cominciò: «I ragazzi con cui avrai a che fare sono tutti maschi, di età compresa tra i 18 e i 50 anni. Maliani, Nigeriani, Ivoriani e Afghani. È molto importante che tu sappia che le differenze culturali tra questi Stati sono enormi. Senza sentirti a disagio, sappi che il gap culturale potrà creare incomprensioni tra te e loro, ma anche tra loro stessi.»

Anita ascoltava perplessa. Non aveva mai pensato che le differenze culturali fossero così profonde.

Le spiegarono che l’obiettivo non era solo insegnare l’italiano, ma costruire un percorso di lingua e cultura italiana; e, soprattutto, che in quel genere di lavoro era importante mantenere le giuste distanze.

«Non siamo qui per salvare la vita a qualcuno. Noi accompagniamo le persone in un percorso di transizione. Ti affezionerai a qualcuno di loro e forse soffrirai per lui. Vorrai fare di più. Ricordati le mie parole: non puoi fare di più. L’accoglienza è un sistema delicato, ognuno ha il suo spazio. Imparerai a trovare il tuo».

Ad Anita quelle parole sembrarono eccessive ma decise di non chiedere spiegazioni. Se ne sarebbe occupata più in là. Mentre Silvia finiva il discorso, annuì con piccoli cenni del capo per comunicarle che aveva ascoltato con attenzione.

Maria invece aveva intuito lo spaesamento di Anita. Dopo aver regolato i turni e le mansioni che le spettavano Anita, propose di uscire dall’ufficio con il pretesto di visitare l’intera struttura. Entrarono in una delle stanze adibite ad aula.

– Ti ho vista scossa, mentre Silvia parlava. – disse Maria dopo aver chiuso la porta – Non temere. Come responsabile, voleva solo metterti in guardia, perché questo lavoro non va preso sotto gamba. So però che sei una ragazza determinata e responsabile e che farai molto bene.

– Grazie, ci metterò tutto il mio impegno.

Rassicurata dalle parole di Maria, Anita camminò tra i banchi, si girò verso di lei e le sorrise. – Non vedo l’ora di iniziare.

Di nuovo a casa, ormai all’ora di cena, Anita aiutò la madre in cucina. Mentre puliva l’insalata e i pomodori, pensò come vuotare il sacco sul nuovo lavoro.

Diede la notizia fra il primo e il secondo, mentre suo padre parlava di un problema in banca, dove lavorava.

– Io, invece molto probabilmente, cambio lavoro – disse Anita, come se si trattasse di una notizia irrilevante, sperando che passasse senza troppo scalpore.

– Ah sì? – chiese stupito il padre.

Anita si fece coraggio.

– Maria, la psicologa con cui ho fatto tirocinio in triennale, mi ha chiesto di andare a lavorare nella sua cooperativa.

– E di cosa si occupa esattamente? – chiese Cristina con la voce alterata.

-Accoglienza. rispose AnitaDi migranti. Mi hanno scelto perché so le lingue e hanno bisogno di qualcuno che insegni italiano. –

– E a scuola?  Anita in fondo lo sapeva, la lite era inevitabile.

– Ho pensato di licenziarmi. Domani andrò a parlare con… –

– Non è neanche un anno che lavori lì – sbottò Cristina, – e ti vuoi già licenziare!? Ora che hai trovato un così buon lavoro?!?-

Ci fu una trafila, da una parte, di sono maggiorenne e vaccinatatu non puoi capirene ho avuto abbastanza dei tuoi saggi consigli e della tua lungimiranza, e dall’altra ma cosa ti sei messa in testa!chissà cosa ti credi!ci mancava anche questa! , ah si, proprio un bel lavoro! , te ne accorgerai !

– Sì, me ne accorgerò, spero proprio che me ne accorgerò presto che ho fatto la cosa giusta! – concluse Anita, lasciando il tovagliolo di traverso, la sedia scostata dalla tavola e l’insalata ancora nel piatto, prima di correre a chiudersi nella propria camera.

Il nuovo lavoro le piaceva davvero. Era molto tempo che non si sentiva così bene, in pace con sé stessa e con il mondo, felice di poter aiutare persone che si rivolgevano a lei per ogni minimo problema: Ibrahim, che le chiedeva ogni giorno una ricetta nuova; Amadou che doveva prendere le sue gocce, Oni che la ascoltava spiegare, con un’intensità e un’ammirazione simile, se non maggiore, a quella dei bambini della scuola materna. A dire il vero, Anita percepiva poca differenza fra quei bambini e questi ragazzi, lontani da casa, con ancora addosso i segni di un lungo viaggio, sperduti in un contesto culturale totalmente diverso dal proprio. Tutto era nuovo per loro: l’umidità della pianura che entrava nelle ossa, il paesaggio verde di vigne e campi, la fretta che la gente mostrava dappertutto, i grandi palazzi del centro città. Non insegnava a questi ragazzi solo una lingua, o a familiarizzare con le sillabe e gli accenti stranieri, e non si prendeva solo cura di loro nelle piccole cose quotidiane. Li vedeva smarriti e stupiti al contempo, e si sentiva di dover essere il loro ponte, il tramite fra le culture. Ogni giorno, rimaneva con i ragazzi più tempo del dovuto, parlando con loro e scoprendo pian piano il carattere di ciascuno. Con uno in particolare si fermava volentieri a parlare: Youssouf, del Mali.

Aveva 24 anni ed era scappato dal suo villaggio a causa di una carestia che durava da mesi. Youssouf amava la sua famiglia e i suoi fratelli, ma il desiderio di muoversi e la curiosità di cambiare vita lo assillavano da molto tempo. Così, con la scusa della carestia, a 17 anni era partito. Per attraversare il deserto ci aveva messo 3 anni. Non avrebbe mai raccontato a nessuno i dettagli del suo viaggio, nemmeno ad Anita. Lei sapeva solo che era arrivato fino alla Libia, dove era rimasto due anni prima di imbarcarsi per l’Italia. Giunto a Lampedusa, smistato da un centro di accoglienza all’altro, ora si trovava in quella struttura, assegnato alla cooperativa La Fonte, ormai da un anno. Ad Anita piaceva parlare con Youssouf, lo trovava un ragazzo pieno di vita e determinato, nonostante le difficoltà che aveva dovuto affrontare.

Tra loro si era creata subito un’intesa speciale. Youssouf era molto intelligente, molto sveglio. Ad Anita piaceva fare da mentore a quel ragazzo, passeggiare con lui raccontando la storia della città, risolvere i suoi intoppi quotidiani con la burocrazia, parlare delle loro differenze culturali. Lei scopriva mondi inimmaginabili, ascoltando i suoi discorsi, mentre per Youssouf era l’occasione di integrarsi più velocemente di chiunque altro. Sentiva di volere di più dalla vita, non si accontentava di un pasto e pochi euro settimanali. Era scappato per costruirsi quella vita che in Mali non poteva neppure sognare. Non sapeva con esattezza cosa voleva, ma sapeva che gli servivano soldi. E ne aveva pochi.

Lo confidò ad Anita, una sera, dopo una cena a casa di lei, insieme agli altri del gruppo. Anita li aveva invitati approfittando dell’assenza dei genitori.  Non era la prima volta, visto che spesso erano in viaggio, per lavoro o vacanze.

Quando la cena finiva, di solito Youssouf aiutava Anita a lavare i piatti, mentre gli altri stavano ancora in salotto, discutendo su come si dovessero mangiare le cozze, i calamari e il granchio.

Le prime volte, la loro conversazione si era mantenuta più o meno formale:

«Youssouf, ti è piaciuta la cena?»

«Sì, certo, era tutto buonissimo… Grazie mille per l’invito. Posso fare una domanda, professoressa?»

«Puoi chiamarmi Anita, se vuoi.»

«Perché hai abbandonato il tuo lavoro e hai iniziato a lavorare con noi?»

«Mi sembra di avertelo già raccontato, no? – disse Anita, rimboccandosi le maniche della camicetta – Ero stanca di tutti quei bambini. Avevo voglia di cambiare e di rendermi utile in un ambiente diverso».

«E sei soddisfatta del tuo nuovo lavoro con noi?»

«Prima mi sentivo inutile e ogni giorno scorreva uguale all’altro. Conoscere voi e fare lezione insieme è invece molto stimolante per me e aiutarvi a conoscere questo paese mi fa sentire importante».

Quella sera Youssouf, continuando ad asciugare i piatti, le confidò che aveva bisogno di soldi e le chiese venti euro in prestito.

Ad Anita la richiesta non parve strana, né fuori luogo. Il loro legame di amicizia le sembrava sincero e gli allungò la banconota.

“Grazie” si affrettò a rispondere il ragazzo. Tuttavia in seguito non gli bastarono né quei primi venti euro, né i successivi che Anita non gli negò.

“Te li restituisco”, diceva ogni volta.

Poi capitò che Youssouf, dopo una lezione, anzichè fermarsi come al solito a fumare una sigaretta con Anita, scappò in fretta dall’aula. L’evento sorprese Anita e la lasciò delusa. Perché Youssouf non mi ha salutata?, si chiese  mentre ritornava a casa in macchina. Non mi sembra di averlo offeso durante la lezione.

E poiché il giorno seguente la scena si ripeté identica, Anita decise di chiedere a Youssuf la ragione del suo comportamento e lui le rispose che si era messo nei guai che insomma aveva un problema di soldi con un amico.

«Che genere di problema? La prossima settimana distribuiamo i pocket money, puoi aspettare di averli e poi restituire quel che devi.»

«Ma i soldi dei pocket money non sono abbastanza…»

«Ma quanti soldi ti servono?».

Youssouf sembrava in imbarazzo ma riuscì a farfugliare: «200 euro…» aggiungendo, come ogni volta “Te li restituisco”

E infatti un giorno, all’improvviso, le restituì l’intero debito in una volta sola.

«Wow Youssouf… questi sono tanti soldi. Dove li hai presi?»

«Ho trovato un piccolo lavoro, in nero, niente di serio.»

«Davvero? sono contenta, perchè non me ne hai parlato?»

«Avevo paura».

«Paura di cosa, Youssouf? Lavorare in Italia è il tuo sogno, di che cosa dovresti avere paura?»

Anita non capiva.

«Beh, ecco… è una storia lunga… diciamo che vendo delle cose ogni tanto, guadagno poco e non sempre…»

«Ma cosa vendi?»

«… però non ho capi e posso fare come mi pare…- aggiunse in fretta – e ogni tanto riesco a mettere da parte molti soldi. Ma adesso devo andare.»

«Youssouf – gli ricordò Anita, ansiosa di essere smentita – se vendi droghe verrai sbattuto fuori, lo sai».

Youssuf la guardò serio: «Anita, non dire niente a nessuno. Non lo farò per sempre» la implorò Youssouf, congiungendo le palme delle mani.

Poi aggiunse, già sul piede di partenza: «Mettiti nei miei panni. Io non ho niente. Questi soldi mi servono. Ne prenderò a sufficienza per un biglietto solo andata per Parigi e me ne andrò».

Anita non se l’aspettava. Fu come se tutto intorno a lei crollasse: le sue certezze, la sua determinazione. Non voleva crederci. Non ci credeva. E fu così, quasi stordita, che Youssouf la salutò, ripetendo che l’aspettavano.

Nei giorni successivi, Anita si interrogò sul da farsi. Da una parte, si sentiva responsabile nei confronti dei colleghi. Riguardo ai traffici di Youssuf, nulla era ancora trapelato all’interno della struttura, e lei, ultima arrivata, stava coprendo un’attività criminale. Dall’altro lato, la lusingava quella confidenza: tra tutti gli operatori, Youssouf si era fidato solo di lei. I colleghi avevano più esperienza, eppure lui aveva scelto lei, nel momento del bisogno, e questo accarezzava il suo innato orgoglio. Sentiva di custodire un segreto importante, forse la chiave di volta della vita di una persona. Come poteva banalizzare tutto questo denunciando Youssouf? Come poteva infrangere i suoi sogni? Dove stava la differenza tra la legalità e l’illegalità, per un ragazzo di 24 anni che aveva attraversato il deserto, visto i suoi compagni morire e aspettava da anni un permesso che non sarebbe mai arrivato? Voleva bene a Youssouf e immaginarlo in Francia la rendeva felice. Magari fosse riuscito ad andare a Parigi! L’alternativa era vivere da clandestino e nascondersi per chissà quanti anni.

Decise che non avrebbe detto niente, che avrebbe lasciato andare il corso delle cose. Youssouf non era un bambino. Era un uomo, in grado di compiere le sue scelte.

Quando parlava con lui, cercava di evitare l’argomento, ma coglieva l’occasione di continuare le loro passeggiate, per tenere d’occhio la situazione: il ragazzo, intanto, aveva iniziato a saltare anche la scuola, ma a lei sembrava di compiere il suo dovere, di fare bene ciò che le veniva chiesto: aiutare questi ragazzi.

Avrebbe voluto fare di più, ma si accontentava di chiedere come proseguivano i suoi progetti. Si sentiva inquieta, ma anche parte di una grande avventura, protagonista della vita di qualcun altro. Soprattutto, si sentiva importante e in grado di gestire la situazione.

Una mattina si svegliò, si raccolse i capelli, fece colazione.

Poi andò a scuola, pronta per la verifica di fine mese.

Forse Khalil è più indietro degli altri, e ha bisogno di qualche ora in più, chissà.  Pensava ai suoi ragazzi, uno per uno, con attenzione.

Alla fine della mattinata, come ogni volta, riportò le chiavi dell’aula in ufficio e si avviò verso casa, ascoltando musica.

Fu a metà strada che il suo sguardo venne catturato da un articolo in bella vista fuori da un’edicola.

«Richiedente asilo arrestato per spaccio».

Fu come il colpo di un sasso sulla fronte. Si morse la lingua, chiuse gli occhi e vide buio. Per poco non perse il controllo della macchina. Non si fermò per accertarsi del nome dell’arrestato, né di altri dettagli. Continuò a guidare nel traffico, con una strana paura addosso. Si ripeteva che non poteva essere lui, quante erano le probabilità? Eppure era inquieta, impaziente. Se lo hanno arrestato potrò fare qualcosa per lui? E i colleghi… no, non mi sento in colpa. Ha scelto me per confidarsi, non loro. In fin dei conti non mi hanno detto che non siamo qui per salvare qualcuno dal suo destino? Io ho fatto ciò che mi è stato chiesto, cosa avrei dovuto fare? Impedire ad un ragazzo di compiere le sue scelte?

Guidò fino a casa, sperando di avere notizie più precise e soprattutto di non incontrare la madre. Parcheggiò, prese in fretta la borsa, entrò in casa e si buttò sul divano. Suonò il cellulare e ricevette conferma dai colleghi. Youssouf era stato arrestato.